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N. 132 - Dicembre 2018 (CLXIII)

Il Presepe nell’arte

Excursus sulla più nota tradizione artistico-devozionale – Parte I

di Teresa Nicolangelo

 

Su di un argomento tanto vasto come quello delle raffigurazioni del presepe nell’arte, quale l’incipit più adatto per l’avvio di una trattazione che, per ovvie ragioni di spazio, non potrà che costituire solamente uno stringato excursus che aiuti a scandire questo momento liturgico di Natale? Anche se una recente teoria, che propone un legame tra il presepe e l’antica festività romana dei Sigillaria, vorrebbe la nascita di tale forma artistico-devozionale legata a un aspetto di continuità cronologica con preesistenti tradizioni pagane, a mio avviso l’approccio più sicuro ed efficace a renderne maggiormente comprensibile il processo evolutivo resta quello etimologico. Un breve accenno, tuttavia, dell’ipotesi interpretativa in questione, suggestiva, ma ancora tutta da dimostrare, sembra necessario, non fosse altro che per “dovere di cronaca”: come accennato, dunque, il presepe potrebbe derivare e attingere a una tradizione pagana, quella connessa alla festività romana dei Sigillaria, dedicata ai Lari, defunti protettori della casa, dei quali proprio nel periodo invernale, corrispondente all’attuale periodo natalizio, si esponevano, entro un piccolo recinto domestico, le effigi.

 

Aspetto interessante e da approfondire nelle sedi opportune e che non sembra, però, ipotesi totalmente inverosimile in considerazione della studiata politica cristiana, propria dei primi secoli, di appropriazione (simbolica e polemica al tempo stesso) di luoghi e festività pagani, politica della quale costituisce esempio efficace in primis la scelta, per il Natale, proprio della data del 25 dicembre, in sovrapposizione alla pagana festa di origine mitraica del Dies Natalis Solis Invicti, memoria della nascita del Sole Invitto, istituita nel 274 dall’imperatore Aureliano, nascita alla quale viene così a sostituirsi quella di Cristo Luce del mondo e nuovo Sole di Giustizia. Festività, quella del Natalis Solis Invicti, ancora segnalata come civile” il 25 dicembre nel Cronografo Romano del 354, redatto sotto il pontificato di Liberio, in corrispondenza con la prima indicazione nota della festa cristiana della Natività di Gesù (“VIII Kalendas Ianuarias: natus Christus in Betleem Judaea”), anche se con un probabile riferimento a un precedente calendario, risalente al 326, se non addirittura a più addietro. Interessante notare anche che in quella data, nel vecchio calendario giuliano, in vigore dal 46 a.C. e su base stagionale, cadeva il solstizio d’inverno: la notte più lunga e il giorno più corto dell’anno. Come a scandire (e rimarcare), in questa nuova luce, le ore fondamentali della rinascita del mondo, con Cristo emergente dal buio del peccato e trionfante sulle tenebre del male e della morte.

 

Tornando all’approccio etimologico alla base di questa trattazione, il termine presepe o presepio deriva dal latino praesepe, luogo preceduto da recinto (e ricovero abituale del bestiame), presente già in Lc 2, 7: «Maria peperit Filium suum Primogenitum, et pannis Eum involvit, et reclinavit Eum in praesaepio: quia non erat eis locus in diversorio» (“Maria diede alla luce il Suo Figlio Primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’albergo”), ove il termine viene a indicare la greppia, la mangiatoia nella quale il Bambino viene adagiato alla Sua nascita. Lo stesso verbo latino Praesepire rende quasi iconografico l’atto, che è cingere, chiudere, sbarrare, ma anche difendere, proteggere, abbracciare. Gesù nasce, dunque, in una stalla ed è adagiato nel luogo ove abitualmente si sistema il fieno per gli animali: su di una mangiatoia, in una greppia, Cripia in basso latino, dal qual termine originano, anche nelle altre lingue europee, le parole con cui si definisce il presepe: crèche in francese, crib in inglese, krippe in tedesco. Anche il russo vertep e la polacca szopka indicano, al tempo stesso, la mangiatoia e la rappresentazione natalizia della Natività.

 

È dunque comprensibilmente naturale che l’originario termine latino, per estensione semantica, sia entrato nell’accezione comune a designare la rappresentazione iconografica della Natività. Il primo presepe in questo senso inteso è, dunque, presente nelle Scritture: nei Vangeli canonici di Luca e Matteo e in quelli non canonici, i Vangeli Apocrifi dell’Infanzia, dei quali si accennerà in seguito.

 

L’altro brano evangelico citato, Mt 2, 1-2; 9-11 conserva invece dell’evento una narrazione quasi “filmica” degli avvenimenti, non accennando tuttavia al termine presepe, greppia, mangiatoia: «Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da Oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo”. […] Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi, lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra». Ancora una volta nella storia, in ogni caso, sono le Scritture a configurarsi come la fonte cui “hanno attinto, come in un alfabeto colorato, gli artisti di tutti i secoli”, per citare Marc Chagall. Infatti i primi esempi figurati della Natività si ritrovano, come rappresentazione simbolica a esse legata, già nei complessi cimiteriali romani, prima fra tutti la catacomba di Priscilla, ove si conserva non soltanto la prima attestazione iconografica, seppur simbolica, della Natività, ma anche la prima dell’Adorazione dei Magi.

 

L’immagine più antica della Madonna con Bambino appare, dunque, sul soffitto di una nicchia della citata catacomba e data tra la fine del II e l’inizio del III secolo: l’affresco mostra la Vergine, capite velato dalla palla, dal manto, assisa, con sul grembo il Bambino che le si stringe in una posa che verrà successivamente ampiamente ripresa nella tipologia della Madonna della Tenerezza.

 

 

Natività con profeta, affresco, prima metà III secolo.

Roma, Catacomba di Priscilla.

 

Alla sinistra del riguardante, una figura maschile stante, reggente nella sinistra un rotolo e indicante con la destra un astro lontano che annuncia il compimento della profezia dell’avvento messianico del Cristo, stella nata in seno a Israele e compimento delle scritture; il personaggio è, dunque, identificabile con un profeta, Isaia, che vaticina: «Il Signore stesso vi darà un segno. Ecco la Vergine concepirà e darà alla luce un figlio che chiamerà Emanuele-Dio con noi» (Is 7, 14). O più probabilmente, Balaam, che profetizza in Nm 24, 17: «Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe, uno scettro da Israele».

 

Poco distante, e di poco più tarda (inizi III secolo), l’Adorazione dei Magi all’interno della cosiddetta Cappella Greca: la teoria di personaggi, abbigliati alla maniera persiana con berretto frigio, corta tunica cinta in vita e anaxyrides (i caratteristici pantaloni morbidi nella parte superiore e stretti alla caviglia), si dirige verso il Bambino, ancora una volta in grembo alla Vergine assisa, recando con sé i propri doni, l’oro, l’incenso e la mirra.

 

 

 

Adorazione dei Magi, prima metà III secolo.

Roma, Cappella Greca, Catacomba di Priscilla.

 

In entrambi i casi, San Giuseppe latita la scena sacra: nell’iconografia della Natività comparirà soltanto nella prima metà del V secolo, sotto l’influsso degli Apocrifi e del crescente sentimento devozionale popolare nei confronti della figura del padre putativo di Cristo. Entrambe le tipologie di figurazioni, la scena della Natività e quella dell’Adorazione dei Magi (quest’ultima maggiormente raffigurata in affresco), troveranno ulteriore seguito anche in altri cimiteri romani: valgano da esempio, a mero titolo esplicativo, i casi, pressoché coevi tra loro e databili tra i secoli III e IV, delle catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, di Domitilla, di San Callisto e del Coemeterium Maius sulla Nomentana.

 

Estremamente interessante sarebbe stata, inoltre, l’analisi dell’originale figurazione ad affresco dell’unica attestazione pittorica nota in quest’epoca (metà IV secolo) del Bambino, nimbato e in fasce, adagiato su di un letto ligneo fornito di piedi e tenuto al caldo dal fiato di bue e asino, se la stessa non fosse perita in un’incauta operazione di lavaggio ottocentesca: occupava il sottarco di un arcosolio nella catacomba di San Sebastiano e se ne conserva memoria grazie a un disegno di Giovanni Battista De Rossi, pubblicato dallo stesso nel 1877.

 

Non sono però solamente opere pittoriche a tramandare tali scene: figurazioni delle medesime tematiche e reiteranti schemi iconografici pressoché simili, recanti variazioni stilistiche minime essenzialmente dovute allo stile dell’epoca, si riscontrano anche nella produzione lapidea di destinazione sepolcrale e non, sia essa di sarcofagi o di lastre, come nei casi del sarcofago del “Presepio” (conservato al Museo Pio Cristiano e databile alla prima metà del IV secolo, che compendia nell’unico registro gli episodi della Natività e dell’adorazione dei Magi, alla presenza di Maria e di bue e asino) e di quello di Stilicone (IV secolo, inglobato in un ambone di epoca medievale nella Basilica Ambrosiana, con il solo Bambino in fasce e all’estremità della culla, in posizione simmetrica e speculare, bue e asino), nella lastra di Severa (lastra funeraria iscritta con Adorazione dei Magi alla presenza di un profeta, della seconda metà del III secolo, nella produzione musiva e in quella suntuaria delle cosiddette arti applicate o minori.

 

 

Sarcofago del “Presepio”, marmo, prima metà IV secolo. Roma, Museo Pio Cristiano.

 

 

Sarcofago di Stilicone, marmo, IV secolo. Milano, Basilica Ambrosiana.

 

In tutti i campi si fanno sempre più presenti narrazioni iconografiche arricchite di ulteriori particolari desunti dagli Apocrifi, i Vangeli extracanonici non ufficiali per la Chiesa, nati per supplire alla sobrietà di quelli canonici e appagare, con gusto aneddotico, la curiosità dei fedeli: l’episodio della levatrice incredula Salomè, desunto dal Protovangelo di Giacomo, il cui nucleo originario risale al II secolo, l’adorazione di bue e asino dal Vangelo dello Pseudo-Matteo, la cui stesura è più tarda, intorno al IV secolo, il bagno del Bambino tratto dallo Pseudo-Tommaso (II secolo) mentre il numero dei Magi (variamente rappresentati nelle pitture catacombali e negli Apocrifi stessi) trova una versione stabile nel numero di tre grazie all’opera di San Leone Magno (390-461) anche se, già a partire da Sant’Ignazio di Antiochia (35-108), il numero degli offerenti viene posto in diretta relazione con i loro doni («recarono mirra, dovendo il Cristo morire per il genere umano ed essere sepolto; oro, essendo Egli re, il cui regno non ha fine; incenso, perché Egli è Dio e si è manifestato a coloro che non lo cercavano»), concetto ribadito anche da Origene nel secolo successivo. Tali personaggi assumono connotazione di forte pregnanza simbolica legata al numero tre, rimando alle tre età della vita (giovinezza, maturità, senilità), alle tre razze bibliche (semitica, camitica e giapetica o aria), ai tre continenti allora noti (Asia, Africa, Europa) e insieme prefigurazione della duplice natura e della missione di Cristo: divina, umana, messianica.

 

Nelle rappresentazioni, la presenza del bue e dell’asino attecchisce anche grazie a Origene, interprete delle profezie di Isaia (1, 3): «Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo e non comprende». Gli animali presso la mangiatoia diventano i simboli del popolo ebreo e dei pagani, rappresentando, secondo la lettura di Sant’Ambrogio, la moltitudine del mondo: il bue, portatore del giogo della Legge è simbolo del popolo giudaico, l’asino, costretto dai pesi dell’idolatria e dell’ignoranza, dei Gentili, i pagani. Entrambi assurgono, dunque, a simbolo di portatori del messaggio di universalità della chiamata al progetto salvifico di Cristo: la Nascita dà avvio all’opera di Redenzione, rivolta all’umanità intera in tutti i tempi e luoghi. E mentre gli episodi legati alla Nascita continuano a essere rappresentati nell’arte, bisognerà attendere l’anno 432, per ritrovare nuovamente citato il termine presepe, legato alla nomenclatura di una Grotta della Natività tipo Betlemme, voluta da Papa Sisto III nell’anno seguente al Concilio di Efeso nel quale viene stabilito il dogma della divina maternità di Maria con l’attribuzione del titolo di theotòkos, Madre di Dio, in quella che poi sarà la Basilica di Santa Maria Maggiore ad praesepe, ove tuttora si conservano le reliquie della Sacra Culla che la tradizione vuole siano frammenti lignei della mangiatoia di Betlemme.

 

L’arco trionfale della basilica conserva tracce di un’opera musiva raffigurante l’Adorazione dei Magi, databile tra 432 e 440, gli anni del pontificato di Sisto III appunto, anche se non è la più antica conservata però (presente invece al museo archeologico di Teano, di ambito funerario e databile intorno al 350, opera di maestranze locali legate a un gusto vicino ai coevi mosaici sepolcrali di area iberica e africana): il tono è aulico e la scena non convenzionale, come conviene al nuovo titolo della Vergine assisa, con sembianze regali, abbigliata com’è di una veste adorna di gemme; al suo fianco, il trono aureo e gemmato su cui siede il Bambino nimbato e benedicente, avvolto in un candido pallio; il tutto alla presenza dei Magi e della Guardia Angelica alle spalle di Cristo.

 

 

Adorazione dei Magi, mosaico, 432-440.

Roma, arco trionfale, Basilica di Santa Maria Maggiore.

 

La tradizione della pittura catacombale come forma artistica didascalica e catechetica trova seguito, in periodo più tardo, anche al di fuori dell’ambito funerario, come testimoniato dai due esemplari cicli ad affresco nelle chiese di Santa Maria foris portas a Castelseprio (in provincia di Varese) e di Santa Maria Antiqua a Roma (questi ultimi estremamente frammentari, conservanti in maniera maggiormente leggibile la scena dell’Epifania in cui si evince una mediazione dei modi bizantini attuata attraverso una schematica semplificazione stilistica), entrambi da collocare cronologicamente intorno all’VIII secolo.

 

 

Adorazione dei Magi, affresco, inizi VIII secolo. Roma, Chiesa di S. Maria Antiqua.

 

 Particolarmente interessante il ciclo di Castelseprio, fortuitamente riportato alla luce nel 1944 e che, in maniera compendiaria, riunisce in un racconto unico nella scena della Natività i differenti episodi della Nascita, dell’annuncio ai pastori, dell’episodio di Salomè e del bagno del Bambino. Anche la successiva scena di Epifania sembra inserirsi in sequenza senza una vera cesura nel medesimo sfondo paesaggistico.

 

 

Adorazione dei Magi, affresco, VIII secolo.

Castelseprio (Varese), Chiesa di Santa Maria foris portas.

 

 

Natività, affresco, VIII secolo.

Castelseprio (Varese), Chiesa di Santa Maria foris portas.

 

Colpiscono la centralità della figura della Vergine, adagiata su di un grande giaciglio ovale, e la nota realistica del suo sollevarsi sui gomiti dopo la fatica del parto; Gesù, strettamente avvolto in fasce, riposa in una cassettina rettangolare, quasi una prefigurazione del sepolcro, venendo così simbolicamente a riassumere nella scena l’intera storia della salvezza. Anche se la cronologia del ciclo è tuttora discussa, sembra invece sicura l’origine orientale, costantinopolitana dell’autore, il cosiddetto Maestro di Castelseprio, probabile esule a causa della coeva deriva iconoclastica d’Oriente.

 

La medesima iconografia verrà puntualmente ripresa nella più tipica tradizione russa delle icone, la più celebre delle quali è sicuramente quella quattrocentesca attribuita alla Scuola di Andrej Rublev e attualmente conservata nella Galleria Tret’jakov di Mosca.

 

 

Icona della Natività, scuola di Andrej Rublev, XV secolo.

Mosca, Galleria Tret’jakov. 



 

 

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