[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 160 / APRILE 2021 (CXCI)


antica

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BARBARI DEL TARDO BRONZO

LANTICHISSIMO MISTERO DEI POPOLI DEL MARE
di Roberto Conte

  

Il crollo della civiltà del Tardo Bronzo nel Mediterraneo orientale, tra la fine del XIII e l’inizio del XII secolo a.C., fu uno degli eventi più traumatici della storia dell’umanità, forse peggiore come impatto e conseguenze della caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel V secolo d.C.

 

Questa improvvisa e apparentemente imprevedibile catastrofe andò a colpire un mondo opulento e molto progredito, tenuto insieme da una fitta rete di relazioni commerciali e diplomatiche e che tra l’altro da mezzo secolo circa sembrava aver acquisito un perfetto punto di equilibrio, in grado di garantirgli un ordine e una stabilità mai raggiunti in precedenza.

 

In effetti, dopo essersi dilaniate per decenni per stabilire la propria egemonia sulle ricche città siriane in un durissimo conflitto culminato nell’incerta battaglia di Qadesh (1274 a.C.), le due superpotenze dell’epoca, l’Egitto e l’Impero Hittita, uno stato con base a Hattusa, nell’Anatolia orientale, avevano concluso nel 1259 a.C. un trattato con il quale avevano delimitato concordemente le rispettive zone di influenza in Siria e avevano addirittura siglato un’alleanza difensiva.

 

Sempre rispettato scrupolosamente, questo patto aveva praticamente annullato qualsiasi possibilità di disordini nel Vicino Oriente, e la pace generale era stata ancor più consolidata dai continui contatti diplomatici mantenuti tra i principali stati dell’area (oltre all’Egitto e all’Impero Hittita, l’Assiria, la Babilonia e Ahhiyawa, con ogni probabilità un grande regno costituito dagli Achei, con perno sull’Egeo).

 

Beninteso, anche in quel cinquantennio non erano mancati conflitti locali: gli Egiziani avevano dovuto vedersela con le incursioni da ovest delle tribù dei Libu, gli Hittiti erano stati impegnati a contrastare le endemiche rivolte dei regni vassalli dell’Anatolia occidentale noti come stati di Arzawa, a quanto pare spesso spalleggiati dagli Ahhiyawa, c’era persino stata una guerra tra gli stessi Hittiti e gli Assiri per assumere il controllo dei potentati mitanni nella zona armena. Tuttavia il fatto che i sovrani di Hattusa e i faraoni si fossero impegnati a sostenersi in caso di aggressione dei rispettivi territori sembrava mettere al sicuro quel miracoloso equilibrio.

 

Invece, nell’arco di pochi decenni questa mirabile costruzione diplomatica, che avrebbe potuto assicurare a tutto il Mediterraneo orientale una lunga epoca di prosperità e di progresso, venne travolta come un castello di carte da un insieme di popolazioni sconosciute, o quasi, molto più arretrate culturalmente rispetto alle proprie vittime, e a questo periodo sfavillante e raffinato ne subentrò un altro molto più oscuro e modesto.

 

La precisa identità degli autori di questo disastro epocale ha da sempre appassionato gli studiosi, poiché tanto le origini quanto il destino di queste genti appaiono avvolti nella maggior parte dei casi dal mistero, dando così libero campo alle più svariate ipotesi sulla questione. Poiché in alcune delle iscrizioni egiziane che si occupano di queste invasioni alcuni di essi erano definiti come “dei paesi del mare” o semplicemente “del mare”, su iniziale proposta di Emmanuel de Rougé, curatore del Louvre nel 1855, questi razziatori furono designati collettivamente come “Popoli del mare”. Questa comune denominazione, tuttavia, non implica necessariamente una loro omogeneità etnica, e anzi la varietà di aspetto e di armamento constatabile nelle loro rappresentazioni nei bassorilievi egiziani e anche la diversità di alcune loro usanze, prima fra tutte quella della circoncisione, sembrano piuttosto indicare una diversa provenienza delle varie popolazioni implicate nelle invasioni.

 

Altrettanto misteriosi restano i motivi che condussero a un così grande spostamento di genti: se alcuni degli invasori, come si vedrà in seguito, erano già noti come pirati e razziatori, altri popoli compaiono per la prima, e apparentemente ultima, volta nella storia proprio in relazione a questa catastrofica vicenda, portando a pensare che essi fossero spinti a premere sugli stati del Vicino Oriente non tanto dal desiderio di bottino, quanto dalla ricerca di nuove terre, dopo aver dovuto abbandonare la propria patria per qualche grave motivo.

 

Queste cause vengono sempre più frequentemente ricercate in un improvviso periodo di siccità che colpì tutta l’area mediterranea, provocando una grande carestia che a sua volta portò a un indebolimento della legittimazione del potere regio e a disordini sociali, probabilmente accompagnati e forse favoriti dall’irruzione di nuove popolazioni dal nord.

 

A questo proposito, è indicativa la notizia dell’invio di grano da parte del faraone Merneptah, intorno al 1211 a.C., nel regno hittita, colpito da una carestia, che si può evincere dalla tavoletta RS 18.38 degli archivi della città di Ugarit. Probabilmente un indizio altrettanto denso di significato giunge da un documento hittita del 1225 a.C., il trattato concluso dal re Tudhaliya IV con il sovrano di Amurru Shaushgamuwa: in esso compare la solita lista dei Grandi Re, ma quello di Ahhiyawa è stato successivamente cancellato con una riga orizzontale, come se avesse perso il proprio status.

 

Probabilmente l’area più periferica dell’universo orbitante sul Mediterraneo orientale stava già provando i catastrofici mutamenti che di lì a poco si sarebbero abbattuti sull’intera area. Evidentemente il potere dei re di Ahhiyawa aveva subito un colpo mortale, forse a opera di nuovi arrivati, forse a causa di disordini interni suscitati dalla crisi socio-economica conseguente a quella climatica, forse per una correlazione di entrambi gli avvenimenti: non possono non venire alla mente le vicende mitologiche riferite agli sconvolgimenti verificatisi in Grecia al termine della guerra di Troia e al successivo ritorno degli Eraclidi, sostenuti dai Dori.

 

A parte le supposizioni ricavabili da questi scarni indizi, la prima attestazione dell’arrivo della travolgente marea umana destinata a mettere fine a una delle civiltà più luminose mai conosciute sulla terra risale al 1209 a.C., quando Merneptah si trovò a dover affrontare una nuova invasione da occidente da parte dei Libu. Come già detto, non era la prima volta che questa popolazione berbera compiva incursioni all’interno del territorio egiziano, ma stavolta l’attacco si rivelò molto più insidioso, tanto più che altri soggetti vi prendevano parte, come viene ricordato in un’iscrizione su un muro accanto al sesto pilone di Grande Karnak: “L’infelice, caduto capo di Libia, Meyre, figlio di Ded, è piombato sulla regione di Tehenu con i suoi arcieri – Sherden, Shekelesh, Ekwesh, Lukka, Teresh – prendendo il meglio di ogni guerriero e di ogni uomo di guerra nel suo paese…”.

 

I Libu avevano quindi rafforzato i loro ranghi prendendo come alleati i guerrieri di altre genti dall’ignota provenienza, alcune delle quali, però, non erano del tutto sconosciute agli Egizi. Già sull’obelisco di Biblo, risalente a un periodo che va dal 2000 al 1700 a.C., un’iscrizione geroglifica ricorda un certo Kwkwn figlio di Rwqq, ovvero Kukunnis figlio (nel senso di appartenenza etnica) di Lukka, mentre anche una delle Lettere di Amarna (la EA 38), documento egiziano della metà del XIV secolo a.C., fornisce notizie su questo popolo: infatti in essa gli abitanti di Alashiya (identificabile quasi certamente con Cipro, o con una parte di essa) si difendono dall’accusa di aver compiuto scorrerie con il concorso dei Lukka, affermando che questi ultimi avevano occupato con la forza i loro villaggi. I Lukka figurano inoltre tra gli alleati o vassalli che nel corso della battaglia di Qadesh combatterono al fianco degli Hittiti.

 

Neanche gli Sherden erano degli sconosciuti, e anzi dovevano essere piuttosto familiari agli abitanti dell’Egitto. Anche loro compaiono in alcune delle Lettere di Amarna, sempre come individui piuttosto turbolenti: in una di esse (EA 81) un membro di questo popolo è descritto come un mercenario disertore, in un’altra (EA 122) si parla di un sorvegliante egiziano che ha fatto uccidere alcuni di essi. La loro propensione verso la pirateria è del resto confermata dal fatto che verso il 1277 a.C. una loro flotta attaccò il delta del Nilo, ma venne sconfitta da Ramses II, che poi arruolò come mercenari molti dei prigionieri: questi reparti presero in seguito parte alla battaglia di Qadesh.

 

I Libu e i loro nuovi alleati giunsero sino al delta del Nilo, ma a Perire furono sconfitti da Merneptah al termine di una battaglia durata sei ore: 6.000 di essi rimasero sul campo, altri 9.000 furono presi prigionieri. Questa disfatta salvò momentaneamente l’Egitto da ulteriori attacchi da ovest, ma a quanto pare i Popoli del mare non cessarono nella loro pressione verso il bacino del Mediterraneo orientale, limitandosi a dirottare gli attacchi verso la parte settentrionale dello stesso, e dunque verso l’impero hittita, che proprio allora attraversava un periodo particolarmente critico: dopo la morte di Arnuwanda III, nel 1207 a.C., infatti, scoppiarono dispute dinastiche che forse portarono addirittura a una secessione della parte sud-occidentale dello stato, che così si trovò a essere pericolosamente vulnerabile di fronte a quell’improvvisa minaccia esterna.

 

Nonostante gli iniziali successi del nuovo sovrano Suppiluliuma II, che si impossessò del regno di Alashiya, evidentemente ormai del tutto in mano agli invasori o con essi connivente, la continua pressione di queste genti marinaresche, unita probabilmente alla permanente ostilità dei Kaska, popolazione barbara stanziata a nord di Hattusa, e all’arrivo di nuovi soggetti di stirpe tracia dai Balcani (Bitini e Frigi), condusse alla fine al collasso e alla completa distruzione di un impero che aveva dominato incontrastato l’Anatolia per mezzo millennio. Una volta eliminato quel formidabile ostacolo, gli invasori ebbero la strada aperta verso sud, in una calata apocalittica descritta molto bene nella grande iscrizione del tempio di Ramses III a Medinet Habu: “Non uno resistette di fronte alle loro mani da Khatti (Hattusa) in poi. Qode, Carchemish, Arzawa e Alashiya vennero annientate”.

 

Alcune lettere scambiate tra i sovrani di Alashiya, Ugarit e Carchemish, tutti vassalli di Hattusa, possono aiutare a comprendere la drammaticità della situazione. Nella prima di esse il re cipriota, Eshuwara, chiede a quello di Ugarit, Ammurapi, dove siano dislocate le sue forze e ulteriori informazioni su una flotta nemica di 20 navi, di cui a quanto pare il secondo aveva dato notizia in una comunicazione precedente. Ma è dalla seconda missiva, inviata stavolta dall’ugarita, che possiamo cogliere l’estrema gravità della situazione. Evidentemente Alashiya era stata di nuovo invasa e Eshuwara aveva chiesto soccorso, poiché Ammurapi gli scrive: “Attento padre mio, sono arrivate le navi nemiche; le mie città sono state incendiate, e essi hanno compiuto atti inenarrabili al mio paese. Non sa mio padre che tutte le mie truppe e i miei carri si trovano nella terra di Hatti, e tutte le mie navi nella terra di Lukka? Così il mio paese è abbandonato a se stesso. Mio padre deve saperlo: le sette navi nemiche giunte qui ci hanno inflitto molto danno”.

 

Indubbiamente, l’estremo pericolo in cui versava l’impero hittita aveva spinto Suppiluliuma a chiedere l’aiuto di tutti i suoi stati vassalli, ma in questo modo questi ultimi erano rimasti piuttosto sguarniti, e i Popoli del mare, che non a caso erano designati così, avevano sfruttato il loro controllo delle acque del Mediterraneo per colpire in modo micidiale. Alashiya fu con ogni probabilità la prima a cadere, e presto Ugarit si trovò in una situazione disperata, come si può evincere dalla risposta che il vicerè di Carchemish, Talmi-Teshub, inviò a una richiesta di soccorso da parte di Ammurapi: “Per quel che hai scritto a me: ‘Navi del nemico sono state viste in mare!’, beh, tu devi restare saldo. Perciò, da parte tua, dove sono le tue truppe, dove stazionano i tuoi carri? Non si trovano vicino a te? No? Chi preme su di te? Circonda le tue città con bastioni. Fai entrare lì le tue truppe e i tuoi carri, e attendi il nemico con grande risolutezza!”.

 

Questi consigli piuttosto banali non bastarono certo a stornare un triste destino dal capo di Ugarit, che infatti venne completamente distrutta, diversamente da Carchemish, che invece, al contrario di quanto affermato dal cronista egiziano, riuscì a sopravvivere, grazie forse anche alla sua maggior lontananza dal mare.

 

Il crollo del potente impero hittita e di quasi tutti i suoi stati satelliti non bastò a frenare la grande invasione dei Popoli del mare, anzi a quanto pare essa si ingrossò con la partecipazione di altre popolazioni. Infatti, quando gli Egiziani si trovarono a dover affrontare nuovamente la minaccia proveniente da nord, la composizione degli eserciti invasori apparve piuttosto mutata rispetto ai tempi di Merneptah: Lukka e Ekwesh scompaiono del tutto, ma al loro posto si presentano altre genti, e precisamente Peleset, Tjeker, Denyen e Weshesh, come viene riportato sempre in una iscrizione nel tempio di Ramses III a Medinet Habu: “La loro confederazione era composta da Peleset, Tjeker, Shekelesh, Denyen e Weshesh”. Sherden e Teresh, qui assenti, sono riportati invece nella lista dei capi sconfitti dal faraone, con la specifica denominazione “del mare”.

 

Questa nuova ondata di invasori si impadronì del regno di Amurru, dove pose gli accampamenti, quindi avanzò inesorabile verso sud, e lungo il suo passaggio molte altre città furono prese e distrutte (tra esse Sidone e probabilmente Tiro): tuttavia l’obiettivo principale degli attaccanti restava l’Egitto, rimasto indenne dalla carestia che evidentemente aveva colpito tutto il resto dell’area, e su di esso essi si diressero nel 1175 a.C.

 

A quanto pare, i capi dei Popoli del mare progettarono un attacco a tenaglia sui domini del faraone: mentre una parte delle loro forze penetrò via terra in Palestina, un’altra assalì il delta del Nilo dal mare. Tuttavia ancora una volta l’Egitto si rivelò un osso troppo duro per i pur formidabili invasori: operando per linee interne, il nuovo sovrano, Ramses III, sbaragliò prima l’esercito terrestre a Djahy, poi rientrò subito e distrusse l’armata navale dei Popoli del mare, salvando ancora una volta il suo paese.

 

Con questa duplice disfatta la devastante invasione sembrò aver finalmente termine, tuttavia l’intero bacino del Mediterraneo orientale era stato ormai sconvolto e appariva profondamente mutato; lo stesso Egitto, per quanto alla fine trionfatore, si ripiegò su se stesso e entrò presto in una fase di profondo declino.

 

Questi i fatti, abbastanza ben delineati: resta però da stabilire tutto quel che riguarda gli autori di questo vero e proprio cataclisma, misteriosi tanto riguardo alle loro origini, quanto al loro destino. Su di essi sono state avanzate le più disparate ipotesi, ma quasi nessuna di esse ha ottenuto il consenso generale. Tuttavia una disanima spassionata e accorta delle fonti a nostra disposizione e dello svolgersi degli eventi stessi può rendere possibile raggiungere delle conclusioni piuttosto solide.

 

Forse tra i Popoli del mare quelli meglio riconoscibili sono i Lukka: tutti i documenti antichi che si riferiscono a loro lasciano ben pochi dubbi sul fatto che essi dovessero essere stanziati lungo le coste meridionali dell’Anatolia, dal che diventa praticamente automatico collegarli con i Lici dell’età classica, che tra l’altro, secondo Erodoto (VII, 92), indossavano un copricapo guarnito di piume che ricorda molto quelli con cui sono raffigurati dagli Egiziani alcuni dei Popoli del mare, segnatamente i Peleset.

 

Per questi ultimi restano molte incertezze riguardo alla loro madrepatria, mentre è assodato il loro destino: essi sono i biblici Filistei, i tradizionali avversari degli Ebrei che occupavano le coste della regione che poi da loro prese il nome di Palestina. Del resto, lo stesso Ramses III affermò che dopo la vittoria del Delta concesse a parte degli sconfitti di insediarsi in Cananea, che avrebbero dovuto presidiare per suo conto; in seguito, il declino egiziano avrebbe permesso a costoro di affrancarsi da ogni controllo.

 

Come detto, le loro origini sono più incerte: in diversi passi della Bibbia (Genesi, 10, 13-14; Amos 9, 7; Geremia, 47, 4) viene citata come loro madrepatria Kaphtor, che per molti sarebbe Creta, anche se altri hanno suggerito Cipro o le coste della Cilicia. È abbastanza intrigante la proposta di collegarli con i Pelasgi, la popolazione pre-ellenica di cui parlano diffusamente tanto i mitografi quanto gli storici greci, e vale la pena di ricordare che in un passo dell’Odissea (XIX, 177) essi sono menzionati tra le genti che abitavano Creta; in ogni caso, i dati ricavati da diversi ritrovamenti archeologici legano strettamente i Filistei al mondo miceneo.

 

Comunemente negli Ekwesh sono stati riconosciuti gli Achei: l’unico problema è che dai bassorilievi egiziani essi vengono rappresentati come circoncisi, una pratica a quanto si sa del tutto estranea ai costumi ellenici. Tuttavia il mondo miceneo era alquanto sfaccettato e tutt’altro che impermeabile a influssi orientali, come ricordano anche i miti greci su Cadmo e sulle Danaidi, e lo storico anglo-ucraino Michael Astour considerò l’elemento degli Achei circoncisi come una prova della sua ipotesi di una derivazione semitica della civiltà del Tardo Bronzo in Grecia. Del resto, sarebbe il caso di chiedersi quanto realmente conosciamo di quella cultura, al di là delle informazioni, dense di inevitabili errori e travisamenti, che ci giungono dai poemi omerici, scritti diversi secoli dopo gli eventi narrati.

 

È proprio l’epica greca, e in particolare l’Odissea, che giunge a rafforzare in qualche misura il collegamento tra Ekwesh e Achei: parlando con Telemaco, Menelao ricorda che per otto anni dopo la guerra di Troia aveva vagato con la sua flotta attraverso Cipro, Fenicia e Egitto, razziando grandi ricchezze (IV, 80-89), e lo stesso Ulisse, in uno dei suoi fallaci ma verosimili racconti, finge di aver compiuto una scorribanda d’esito infausto nel paese del faraone (XIV, 248-284). Evidentemente, l’eco delle grandi spedizioni a scopo di razzia sulle coste egiziane era rimasta ancora viva a distanza di secoli.

 

Un altro popolo per il quale è stato proposto uno stretto legame con il mondo miceneo è quello dei Denyen, menzionati fuggevolmente già in una delle Lettere di Amarna (la EA 151), dove vengono riferite le notizie della morte del loro re e dell’ascesa al trono in modo pacifico di suo fratello. Di solito sono omologati ai Danuna, che nei tempi successivi erano stanziati in Cilicia, presso la città di Adana, anche se alcuni li hanno proposti come gli antenati della tribù israelitica di Dan. Sulla base principalmente dell’assonanza dei nomi, è stata ipotizzata una loro derivazione dai Danai, altro nome dei Greci micenei, e anche questa tesi trova un appoggio nella mitologia ellenica: tra le tante leggende riguardanti le vicende dei reduci dalla guerra di Troia, c’è quella dell’indovino Mopso, che condusse un gruppo di guerrieri in una spedizione lungo le coste meridionali dell’Anatolia, sino a stabilirsi appunto in Cilicia. La corrispondenza tra Danai e Danuna sembra essere confermata da un’iscrizione bilingue scoperta a Karatepe, risalente all’VIII secolo a.C., dove si narrano le imprese del re dei Danuna Azatiwatas, che si dichiara discendente di un sovrano detto Mukshush in lingua hittita e Mupsh in fenicio.

 

Weshesh e Tjeker costituiscono forse le genti più enigmatiche di tutto il gruppo. Nei primi si sono voluti vedere gli abitanti della città di Ouassos, in Caria, ma non è mancato chi ha proposto che si trattasse degli antenati del popolo italico degli Osci, per quanto questi ultimi in età classica apparissero del tutto digiuni di conoscenze nautiche. I Tjeker sono stati accostati ai Teucri, menzionati nell’Iliade tra gli alleati dei Troiani, o anche alla città cretese di Zakros; più sicuro è il loro destino, dato che secondo la Storia di Wenamun, testo egizio dell’XI secolo a.C., all’epoca essi occupavano il porto di Dor, poco più a nord del territorio filisteo, sotto la guida di un capo di nome Beder.

 

Restano da esaminare origini e destinazione finale di Sherden, Shekelesh e Teresh, tutte genti per le quali viene proposta con forza una connessione “italiana”.

 

Sin dall’inizio degli studi sui Popoli del mare, gli Sherden sono stati da molti identificati con i Sardi, ma anche tra i sostenitori di questa tesi c’è discordia tra chi li considera autoctoni della Sardegna e chi invece propone una loro origine anatolica, per la precisione dalla zona su cui poi sorse la città di Sardi, e un loro successivo spostamento sull’isola alla quale dettero il nome, al termine della grande invasione di inizio XII secolo a.C.

 

È innegabile una certa affinità tra gli elmi delle statuette in bronzo del periodo nuragico e quelli indossati in alcuni bassorilievi egiziani appunto dai pirati o dai mercenari sherden, e un passo del poeta Simonide riportato da Zenobio (V, 85), riferito al mitologico gigante di bronzo Talos, mette in evidenza un collegamento tra Sardegna e Creta sin dall’età minoica.

 

Per gli Shekelesh è stata proposta un’identificazione con i Siculi, esclusivamente su una base di similitudine fonetica, ma anche in questo caso si dibatte su una loro provenienza direttamente dalla Sicilia (o da altre parti d’Italia, visto che secondo la tradizione,confermata in qualche modo da prove archeologiche e linguistiche, essi passarono lo stretto di Messina dopo aver abbandonato il Lazio) o su una loro origine anatolica, in particolare dalla Pisidia, dove esisteva una città chiamata Sagalassos, e un loro successivo spostamento verso ovest. Va detto che tanto gli Sherden quanto gli Shekelesh praticavano la circoncisione, il che rende problematica una loro origine occidentale, ancor più dell’accostamento Ekwesh/Achei.

 

Infine, i Teresh sono stati collegati con i Tirreni, vale a dire gli Etruschi, anche se non è mancato chi ha proposto come loro origine la Taruisa dei documenti hittiti, generalmente accostata all’omerica Troia. A dire il vero, sarebbe possibile trovare un punto di incontro tra le due ipotesi basandosi sul celebre passo delle Storie di Erodoto (I, 94), nel quale la genesi del popolo etrusco è attribuita a un gruppo di coloni provenienti dalla Lidia, afflitta da una terribile carestia, sotto la guida del principe Tirreno, in un periodo di tempo che potrebbe coincidere con quello delle invasioni dei Popoli del mare. Le origini anatoliche dei Tirreni non sono però accettate da tutti gli studiosi, anzi negli ultimi tempi si predilige l’ipotesi di una endemicità italica di questo popolo, sostenuta già in età classica dall’altro storico di Alicarnasso, Dionigi. In verità, ci sarebbero indizi di una presenza tirrenica nell’alto Egeo, e tra di essi il più importante è la cosiddetta stele di Lemno, rinvenuta nel 1885, risalente alla seconda metà del VI secolo a.C. e recante un’iscrizione in un alfabeto molto simile a quello etrusco; da notare che sempre Erodoto afferma (V, 26) che Lemno, così come la vicina Imbro, in quel periodo era ancora abitata da genti pelasgiche. Questa scoperta non ha però messo fine alle diatribe sulle origini dei Tirreni, in quanto diversi studiosi hanno ipotizzato la fondazione di una colonia di pirati provenienti dall’Italia sull’isola greca in epoche successive, basando la loro tesi su prove di tipo linguistico.

 

Va tuttavia evidenziato che nella storiografia ellenica non c’è nessun riferimento a una presenza di Tirreni nell’Egeo nell’epoca buia che separa il Tardo Bronzo dall’età classica, e neanche nella mitologia è possibile trovare un benché minimo accenno a una simile eventualità.

 

Molto numerosi sono invece i racconti dello stanziamento nell’area italiana di gruppi di guerrieri provenienti dal Mediterraneo orientale, quasi sempre riferiti ai tempi immediatamente successivi o di poco anteriori alla guerra di Troia, che probabilmente rappresenta la trasposizione mitica di eventi strettamente legati alle invasioni dei Popoli del mare: abbiamo così notizie dello stanziamento in Sardegna dei seguaci di Iolao, nipote e compagno di Eracle, dell’arrivo in vari luoghi della penisola di profughi troiani (Enea nel Lazio, Antenore in Veneto, i progenitori degli Elimi in Sicilia), o dello sbarco sulle nostre coste meridionali di Achei reduci da quel devastante conflitto (su tutti Diomede che raggiunse la Puglia settentrionale, lì dove in epoche successive erano stanziati i Dauni, per i quali non è mancato chi abbia notato la loro assonanza con i Denyen), oltre al già citato racconto erodoteo sull’origine degli Etruschi.

 

Da tutti questi elementi è possibile ricostruire una possibile interpretazione degli eventi occorsi nel Mediterraneo orientale a cavallo tra XIII e XII secolo a.C., con tutte le cautele del caso e non dimenticando che si tratta di una semplice ipotesi, suscettibile di revisioni nel caso di ulteriori ritrovamenti archeologici o di altro genere.

 

Sino a che su quel tratto di mare venne esercitata la talassocrazia dei Minoici di Creta, esso fu del tutto sicuro da incursioni piratesche o di qualsiasi altro tipo di invasori: quando però l’area fu colpita da una serie di cataclismi, primo tra tutti l’eruzione del vulcano di Thera, tra la fine del XVI e l’inizio del XV secolo a.C., l’impero marittimo cretese entrò in crisi e dopo poco tempo l’isola soggiacque agli invasori achei provenienti dalla Grecia continentale. Questo aprì il campo alle attività razziatrici di popolazioni rivierasche sino ad allora tenute a bada, come i Lukka e gli Sherden. I primi erano stanziati con tutta probabilità nell’Anatolia sud-occidentale, mentre per i secondi resta il dubbio se provenissero dalla Sardegna o anch’essi dall’area anatolica.

 

La succitata grande carestia che colpì vaste zone dei Balcani e dell’Anatolia sul finire del XIII secolo a.C. causò il crollo o la crisi di diversi stati dell’area, primo fra tutti il regno degli Ahhiyawa, dietro il quale forse va riconosciuta Micene. La frammentazione del mondo miceneo provocò l’ingrossamento delle fila dei pirati, raggiunti da Achei in fuga dalla madrepatria invasa da nuovi arrivati o in preda a discordie intestine, o semplicemente alla ricerca di un proprio spazio nel nuovo panorama geopolitico che veniva a crearsi.

 

In effetti pochi anni dopo ci fu la prima tentata invasione dell’Egitto da parte dei Popoli del mare, tra i quali i principali componenti, stando almeno al numero dei prigionieri fatti dal faraone, erano proprio gli Ekwesh, cioè gli Achei. Il fallimento di quell’impresa condusse questa massa di uomini, spinti dalla bramosia di bottino, ma forse anche dalla ricerca di nuovi territori, a deviare le sue attenzioni verso l’indebolito regno hittita, che nonostante una dura resistenza alla fine crollò miseramente: questa catastrofe a sua volta giunse a mettere in movimento ulteriori popoli, stavolta più profughi che conquistatori, alla disperata ricerca di nuove terre.

 

Così, mentre Ekwesh e Lukka scompaiono dalle cronache, evidentemente paghi di quanto ottenuto in Anatolia e a Cipro, spuntano ora nuove genti, al tempo stesso complici e vittime degli invasori: i Peleset, probabilmente i Pelasgi stanziati nelle isole egee e lungo le coste prospicienti il mar di Marmara (ancora nel V secolo a.C. Erodoto li dice abitanti la Crestonia, regione della Macedonia meridionale, nonché, come già detto, Imbro e Lemno), i Tjeker, forse i Teucri della Troade, i Weshesh, provenienti dalla Caria, i Denyen, forse una branca degli Achei.

 

Quando le possibilità di penetrare in Egitto, che in quel periodo, essendo l’unico paese rimasto indenne dalla carestia, doveva costituire per tutti una specie di Eldorado, furono sventate una volta per tutte nel 1175 a.C., ciascuna di queste genti si stabilì lì dove le fu possibile.

 

Gli Ekwesh probabilmente si insediarono in gran parte a Cipro e iniziarono a colonizzare le coste dell’Anatolia occidentale, e non a caso da qui avranno in seguito origine i poemi omerici, incentrati su vicende mitologiche, basate tuttavia proprio sui turbinosi avvenimenti storici che condussero al collasso della civiltà del Tardo Bronzo. I Lukka, come detto, si accontentarono presto di aver raggiunto l’indipendenza in Anatolia meridionale, tanto da non prendere neanche parte alla grande invasione del 1175 a.C. I Peleset e i Tjeker occuparono le coste palestinesi, all’inizio come mercenari al servizio del faraone, poi, approfittando del declino egiziano, acquisirono sempre più autonomia. I Denyen si insediarono molto più a nord, in Cilicia orientale, ma in parte potrebbero essere rimasti nella zona siriana e successivamente aver dato effettivamente vita alla tribù ebraica di Dan. In Giudici, 5,18, nel suo Canto di vittoria, Debora dice: “e Dan perché vive straniero sulle navi?”, e anche il racconto delle imprese di Sansone, il maggior esponente di questa tribù, ha un sapore innegabilmente simile a quello delle storie mitologiche degli eroi ellenici. I Weshesh potrebbero a loro volta essere all’origine dell’altra tribù ebraica di Asher, che nel periodo successivo occupava le coste subito a meridione della Fenicia.

 

Resta da chiarire la sorte di Sherden, Shekelesh e Teresh, tra l’altro gli unici gruppi che compaiono tanto nel 1209 quanto nel 1175 a.C. È possibile che in effetti essi fossero partiti dalle coste italiane e che lì tornassero al termine delle loro lunghe campagne nel Levante, ma, come già detto, a questa ipotesi si oppone il fatto che presso le prime due popolazioni fosse diffusa la pratica della circoncisione. Potrebbe anche essere che si trattasse di genti anatoliche, con gli Sherden provenienti dalla zona di Sardi, i Teresh sempre dalla Lidia o dalla Troade, gli Shekelesh dalle regioni a est della Licia, dove sorgeva la città di Sagalassos: in questo caso, una volta respinti dall’Egitto, questi razziatori potrebbero aver fatto vela verso l’Italia e qui essersi imposti come élite guerriera alle popolazioni locali, dando loro in seguito il proprio nome, un po’ come fecero in epoche successive gli Ungari o i Turchi.

 

Del resto, si tratta dello scenario delineato dal racconto dell’arrivo di Enea nel Lazio: un consistente gruppo di guerrieri provenienti dall’ormai distrutta Troia che sbarca sulle coste italiane e, dopo un iniziale conflitto, finisce con il fondersi con gli indigeni Latini.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]