PITTURA DELLE STAGIONI
CICLI ARTISTICI TRA RINASCITA E
MEMORIA
di Fabrizio
Mastio
Le stagioni, nel loro alternarsi,
non scandiscono esclusivamente il
perenne moto temporale
dell’esistenza, ma descrivono il
rito della vita e la relazione tra
protagonisti e scenario in una
cornice d’indeterminato divenire.
Innumerevoli artisti hanno
interpretato il tema nell’arco dei
secoli. Tra questi, è possibile
volgere lo sguardo all’arte di
Sandro Botticelli, Pieter Bruegel il
Vecchio, Hans
Andersen Brendekilde e Claude
Monet per rivivere il trascorrere di
un anno, dove l’avvicendarsi delle
stagioni è lo stesso di luci e
colori.
Nella tradizione mitologica
greco-romana, Demetra, la dea della
terra, protettrice dell’agricoltura
e dei suoi frutti, era figlia di
Crono, dunque del tempo, e di Rea.
Dall’unione di Demetra e Zeus nacque
Persefone, destinata per volere
dello stesso Zeus ma, ad insaputa
della madre, a sposare Ade, dio
degli Inferi. Intenta a cogliere
dei fiori nella pianura di Nisa, la
giovane Persefone vide aprirsi la
terra sotto i piedi, precipitando
negli Inferi, rapita da Ade.
Demetra, venuta a conoscenza
dell’accaduto, abbandonò l’Olimpo e,
in preda alla collera, causò un
inaridimento della terra, privando
il mondo dei suoi frutti. Zeus
incaricò allora Ermes, il messaggero
degli dei, di riconsegnare Persefone
alla madre. Ade, nel ridare la
libertà alla fanciulla, le fece dono
di una melagrana. Persefone,
mangiando la melagrana prima di
tornare in superficie, poté far
rientro nella terra, ma con la
condanna a trascorrere un terzo
dell’anno al fianco di Ade e il
resto del tempo con la madre. Così
la terra riprese a produrre i suoi
frutti. Il mito evoca lo scorrere
del tempo attraverso i cicli
stagionali, simboleggiati da
Persefone nella dialettica tra morte
e rinascita.
Primavera e rinascita
Con Sandro Botticelli (Firenze,
1º marzo 1445 - Firenze, 17 maggio
1510), si torna all’origine o alla
rinascita attraverso La Primavera
(1477-82 circa), tempera su
tavola di pioppo (203x314 cm)
custodito presso la Galleria degli
Uffizi di Firenze, icona dell’arte
che, da simbolo del Rinascimento
fiorentino, si eleva ad universale
tributo all’estetica del significato
e all’espressione di rinascita e
bellezza.
Così Giorgio Vasari si esprime
sull’artista fiorentino, a proposito
della Primavera: “Per la città in
diverse case fece tondi di sua mano
e femmine ignude assai, delle quali
oggi ancora a Castello, luogo del
Duca Cosimo fuor di Fiorenza, sono
due quadri figurati, l’uno Venere
che nasce, e quelle aurei venti che
la fanno venire in terra con gli
amori, e cosí un’altra Venere che le
Grazie la fioriscono, dinotando la
Primavera; le quali da lui con
grazia si veggono espresse”.
L’opera è stata variamente
interpretata e presenta una galleria
di allegorie di matrice classica. La
stessa potrebbe essere considerata
un polittico composto da cinque
rappresentazioni che, secondo una
lettura della tela da destra verso
sinistra, vede la personificazione
di Zefiro, il vento dell’ovest,
soffiare sul volto della ninfa
Clori.
La fredda temperatura cromatica che
accompagna il vento pare contrastare
con i lineamenti delicati della
ninfa, quasi in procinto di spiccare
il volo, mentre assume le sembianze
di Flora, divinità della Primavera.
I fiori sgorgano dalla bocca mentre
ha luogo la metamorfosi e la natura
fa il suo corso, esprimendo la forza
generatrice attraverso la figura di
una Venere dipinta con vesti nobili,
col ventre pronunciato, secondo
alcune interpretazioni allusivo alla
maternità, e la mano destra in una
posizione simile a quella di Clori.
Sullo sfondo, piante di mirto
evocano la fertilità. Un cupido
bendato volteggia in aria sopra la
dea: nella scena, l’amore emerge
come forza dispensatrice di vita.
Le tre Grazie conferiscono alla
rappresentazione ciclicità e
dinamismo attraverso una danza in
cerchio, eseguita in una percezione
di levità ultraterrena. I piedi
delle dee sfiorano l’erba e gli
esili steli dei fiori. Si percepisce
una fisicità sognante, quasi orfica,
in una cornice triangolare,
culminante nell’intreccio delle
mani.
A sinistra, Hermes, il messaggero
degli dei, spazza le nubi che, come
un velo, celano la verità, ma nello
scenario il significato è la vita,
espressa nella sua bellezza e
ciclicità, dove lo sfondo floreale e
arboreo non è esclusivamente
decorazione, ma un arazzo
dell’esistenza. In questo emerge
anche la rappresentazione di Venere,
già protagonista nell’altro celebre
dipinto, Nascita di Venere (1485
circa), dipinto a tempera su tela di
lino (172,5 × 278,5 cm), dove la
bellezza non è mero canone estetico,
ma libera interpretazione del tratto
resa con grazia e finezza.
La primavera assume, in tal modo, un
senso di perenne rinascita, dove la
fine non è mai eterna chiusura, ma
l’epilogo di un ciclo in attesa di
un nuovo inizio.
Estate e scoperta
Pieter Bruegel il Vecchio (Breda,
1525/1530 circa - Bruxelles, 5
settembre 1569), da molti ritenuto
il più grande artista fiammingo del
XVI secolo, dipinge scenari pregni
di natura e umanità. Le sue tele
sono pittura di genere e di
paesaggio, evocazione di significati
religiosi e rievocazione del mito,
come in “Paesaggio con la caduta
di Icaro” (1558 circa), luoghi
di incontro tra la quotidianità del
vissuto e una simbologia da
proverbio popolare. Non emerge una
netta demarcazione tra umanità e
natura, ma quasi un senso di
reciproca appartenenza.
L’opera La Mietitura,
olio su tavola (118×160,7
cm) custodito al Metropolitan Museum
di New York, rappresenta appieno una
dimensione di armonica convivenza
tra famiglie di contadini e un
panorama che non è semplice sfondo. La
scelta di questo dipinto di Bruegel
per raffigurare l’estate trova un
significato nella presenza di
lavoratori che, nelle campagne dei
Paesi Bassi, si cimentano nella
raccolta del grano Dinamismo, fatica
e vitalità sono parte viva della
narrazione. L’estate può essere
interpretata anche come metafora di
una fase della vita in cui,
abbandonata l’infanzia, si scopre il
lavoro, il sacrificio e la
condivisione.
Nel quadro, in basso a sinistra, due
contadini, uno di spalle rispetto
all’altro, falciano il grano, mentre
un altro giunge attraverso un varco
con una brocca d’acqua o vino.
Alcune contadine raccolgono le
messi, in un contrasto tra il moto
costante dei lavoratori e la quiete
di un gruppo di donne e uomini che,
in basso a destra, trovano ristoro
all’ombra di un pero.
Un uomo, adagiato sul tronco dello
stesso albero, riposa mentre una
donna prepara il pasto che consumerà
insieme agli altri protagonisti di
un convivio bucolico.
Altre figure popolano i campi di
grano, dipinti con un giallo oro che
si confonde con le vesti dei
braccianti, mentre la vegetazione
viene resa con tonalità verdi e
verdastre e il cielo con un chiarore
grigio-azzurro che pare tramutarsi
in vapore in prossimità del bacino
in lontananza.
A destra, in mezzo ad alcuni alberi,
si intravede una chiesa, chiaro
richiamo alla spiritualità presente
in diverse opere di Bruegel. Nel
paesaggio staticità e dinamicità
coesistono con notevole naturalezza:
turbinio e pausa esprimono nel loro
alternarsi i passi silenziosi del
tempo. La
scena è reale e priva di
idealizzazione. L’arsura estiva è
percepita anche attraverso una
cromaticità calda.
Quest’opera non dipinge
esclusivamente il lavoro dei campi,
ma, inserita in un ciclo di sei
dipinti dedicati alla
rappresentazione dei periodi
dell’anno, diviene rievocazione di
una fase di crescita e raccolta
dell’esistenza umana.
Autunno e maturità
Il danese Hans Andersen Brendekilde
(Brændekilde,
7 aprile 1857 - Jyllinge, 30 marzo
1942), lontano parente, secondo
alcune fonti biografiche, di
Christian Andersen, il celebre
scrittore di fiabe, nasce come
scultore, ma emerge come esponente
di un realismo sociale en plein
air attraverso il quale descrive
le dure condizioni di vita del mondo
rurale. Il passaggio dall’estate
alla stagione autunnale può avvenire
col dipinto Sentiero alberato in
Autunno (1902), olio su tela
(69,8 x 91,4 cm), appartenente a una
collezione privata.
La tela, caratterizzata da morbide
pennellate che tratteggiano tonalità
calde, raffigura un paesaggio
autunnale percorso da un sentiero
cosparso di foglie secche di colore
marrone chiaro e scuro.
In primo piano, una panchina di
legno ospita una matura signora la
cui foggia del vestire manifesta una
composta eleganza. Porta un distinto
copricapo con i capelli raccolti, un
ombrello e, seduta in posizione
eretta, volge lo sguardo in
lontananza, verso due personaggi che
si allontanano nello sfondo nascosto
dalle fronde degli alberi.
Il fogliame caduto decora il terreno
e sembra contrastare col verde di un
arbusto, nei pressi di un corso
d’acqua in cui si specchia un altro
profilo arboreo. Il cielo è
pressoché nascosto dalla
vegetazione: il ramo che sormonta la
figura femminile pare raffigurare
una cornice naturale. Vari alberi
attraversano lo scenario, conferendo
profondità e lasciando intuire un
percorso costituito da terra e
acqua, con la presenza del ruscello
sulla destra, il cui tragitto può
essere esclusivamente immaginato.
L’assenza del sole e del cielo, solo
accennato nella sezione superiore, a
destra, trasmette una sottile
malinconia.
Nell’opera viene raffigurato l’atto
di osservare: lo spettatore guarda
il quadro e la protagonista in primo
piano osserva i due viandanti in
lontananza. O, forse, la signora
vede il suo passato e lo scorrere
del tempo, nella stagione della
maturità, dove le foglie cadute
costituiscono l’esito naturale
dell’esistenza e il sentiero di ciò
che è stato raccoglie i ciottoli
canuti dell’esperienza.
L’artista non mostra il volto delle
figure umane: la donna non guarda
l’osservatore e le due figure in
lontananza sono sagome quasi
indistinguibili. Il dipinto permette
di immaginare il ricordo passato e
l’assenza futura in un panorama
quasi fiabesco nella sua
rappresentazione estetica.
Brendekilde qui abbandona
parzialmente il realismo sociale per
abbracciare il reale scorrere del
tempo.
Inverno e memoria
Claude Monet (Parigi, 14 novembre
1840 - Giverny, 5 dicembre 1926),
con la concezione tipicamente
impressionista per la quale la
natura muta ogni istante in base al
passaggio di una nube o al soffiare
del vento, questa volta dipinge
l’inverno avvolto in una coltre di
neve nell’olio su tela (89x130cm) La
Gazza (1868-69), custodito
presso il Musée d’Orsay di Parigi.
L’opera, rifiutata dalla giuria del
Salon nel 1869 per una cromaticità
ritenuta troppo chiara e distante
dallo stile pittorico in voga in
quel periodo, venne realizzata con
un impasto di colori ad olio
caratterizzato dall’utilizzo di
tonalità di ocra e bruno.
L’applicazione del grigio e
dell’azzurrino contribuisce a
un’efficace resa dell’atmosfera
invernale, anche grazie
all’alternanza di tenui tonalità
cromatiche calde e fredde. Le
pennellate di ocra chiaro e
grigio-azzurro offrono alla vista
dello spettatore una luminosità
argentea e la presenza di luci e
ombre come proiezione del candore
della neve.
Il dipinto rappresenta un freddo
paesaggio rurale nel quale una
staccionata con cancello sembra
dividere la veduta in una parte
inferiore, collocata in basso e
coperta da neve e dalle oblique
ombre della staccionata, proiettate
dalla fioca luce invernale.
Nella parte superiore emerge una
verticalità con la presenza di
alberi spogli che si perdono in
lontananza tra le case coloniche dai
tetti innevati.
Il cielo stesso pare neve. Sopra il
cancello di legno compare l’unico
essere vivente: una gazza nera,
quasi in contrasto con la lucentezza
del manto nevoso.
La presenza umana è rappresentata
dagli edifici. Il fogliame autunnale
è sepolto e la memoria ha sostituito
il ricordo. Emerge il panorama di
una fase della vita giunta al
termine, anfratti dell’anima in cui
le pennellate monocromatiche
divengono estetica del tempo.
Un confronto tra questo quadro di
Monet e Il Mare di ghiaccio (1823-24)
di Friedrich permette di riflettere
sul fatto che La gazza non è
infinita peregrinazione dell’uomo
come il naufragio dipinto da
Friedrich. L’artista francese
dipinge l’impressione dell’attimo en
plein air, permettendo alla luce
di trasfigurare il crepuscolo,
mentre nella tela dell’artista
romantico la desolazione e la
presenza di un relitto evocano
ansia, fragilità, catastrofe e
l’impossibilità di sfuggire
all’eternità.
Non tutto finisce
Il ciclo delle stagioni descrive una
parabola esistenziale che può essere
colta come un eterno affresco di
luci, ombre e colori, evocazione di
un armonico divenire come nelle note
musicali delle Quattro stagioni di
Antonio Vivaldi. Oppure, come nelle
parole con cui Italo Calvino, in Le
città invisibili, quando
descrive Isidora: “La città
sognata conteneva lui giovane; a
Isidora arriva in tarda età. Nella
piazza c’è il muretto dei vecchi che
guardano passare la gioventù: lui è
seduto in fila con loro. I desideri
sono già ricordi”. Panta rei.
Così, il tempo trascorre, ma non ha
fine. Rinasce, scopre e matura. Ciò
che resta è imperitura memoria.
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Mazzocca F., Romanticismo,
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Eredi Calvino e Mondadori Libri
S.p.A., Milano, 2015. I edizione
Oscar Moderni ottobre 2016.