[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 213 / SETTEMBRE 2025 (CCXLIV)


arte

Pittura della notte
Visioni artistiche da Friedrich a Henri Rousseau

di Fabrizio Mastio

                  

La notte nell’arte non si palesa esclusivamente come una differente cornice estetica dell’oggetto ritratto: può essere osservata come parte viva della narrazione pittorica. La palette di colori con tonalità più scure dipinge una particolare scenografia della percezione: luce e oscurità tessono stati d’animo. Si può trascorrere la notte partendo dal mito, per poi viverla nelle opere di Caspar David Friedrich, James Abbott McNeill Whistler, Vincent Van Gogh e Henri Rousseau.

 

Νύξ (Nýx) o Nox, nella mitologia greco-romana, era la personificazione della notte, figlia del Caos e sorella di Erebo, dal quale ebbe origine l’Etere e il Giorno.  Citata da Esiodo come madre di Ipnos, il sonno e di Thanatos, la morte, era temuta, secondo quanto descritto da Omero nell’Iliade, persino da Zeus. Un mito orfico attribuisce alla Notte l’origine del mondo. Risiedeva nell’Ade, ma il mondo intero pare traesse origine da essa: vita e morte. Nello Ione (6-7), il tragediografo greco Euripide fa riferire ad Ermes che: «E giungo a Delfi, dove Febo pose l’ombelico della terra, nel buio della notte Apollo si unì a Creusa».

 

La pittura offre una rappresentazione di scene notturne che divengono palcoscenico dell’alternanza simbiotica di luce e oscurità. La notte attraversa, così, epoche e stili, tensioni e sogni illuminati da luci astrali o artificiali, in una dimensione sospesa tra visioni oniriche.

 

Notte e contemplazione

 

Caspar David Friedrich (Greifswald, 5 settembre 1774 - Dresda, 7 maggio 1840), nell’olio su tela (35x44,5 cm) Un uomo e una donna davanti alla Luna (1820), custodito presso la Alte Nationalgalerie di Berlino, dipinge uno scenario notturno che non emerge dall’oscurità come mera rappresentazione canonica del sublime, ma come raffigurazione della presenza umana al cospetto di una natura dominante.

 

L’opera riprende concetti spirituali ed esistenziali, temi cari all’artista tedesco, e li colloca sotto la luce della contemplazione: un uomo e una donna rappresentano a pieno titolo l’umanità. Vengono ritratti di spalle, con abiti dalle tonalità scure e dimensioni ridotte rispetto alle dimensioni della tela, e questo è già significativo: l’essere umano nella sua solitudine contempla lo spettacolo della natura.

 

La scena centrale è dominata dal paesaggio notturno. L’uomo e la donna osservano la Luna dalla sezione sinistra del dipinto, mentre la verticalità delle figure umane e degli alberi, a sinistra e a destra, sullo sfondo, sembrano evidenziare la rappresentazione obliqua della maestosa quercia sradicata in primo piano e della roccia collocata al suo lato. L’albero con fogliame, probabile simbolo del Cristianesimo, pare offrire riparo alla coppia, mentre la quercia, nello sradicarsi, diviene metafora del passato pagano.

 

In una chiave interpretativa scevra da significati religiosi, potrebbe leggersi nella scena lo scorrere ineluttabile del tempo. Nella quercia si percepisce, secondo un’altra possibile chiave di lettura, qualche elemento antropomorfico: i rami e le radici sembrano avvolgere l’atmosfera.

 

In quest’opera, Friedrich sceglie di rappresentare figure umane che si toccano: la donna appoggia delicatamente il braccio destro sulla spalla dell’uomo. Lo accompagna nell’atto di meditazione, lo sostiene nell’attimo e nel destino. C’è un elemento dialogico tra umani e natura, caratterizzato dal ruolo preminente di quest’ultima. Gli umani osservano, ascoltano e contemplano: lei è la voce, è presente, e illumina. Le curve dei pendii conferiscono profondità allo scenario, dove la luce selenica rischiara, al centro, il paesaggio. La linearità nervosa della quercia viene compensata dalle pennellate con cui vengono raffigurate le conifere e le figure umane.

 

Le ombre risaltano dal contrasto di luce e ombra, simbolo della vita, perché è ciò che Friedrich dipinge: la vita.

 

Notte e atmosfera

 

L’americano James Abbott McNeill Whistler (Lowell, 10 luglio 1834 - Londra, 17 luglio 1903), mentore della corrente pittorica dell’estetismo inglese, un movimento emerso verso la metà del XIX secolo che si discostava dal significato delle opere, per risaltarne l’estetica, manifesta una visione concettuale simile all’approccio letterario di Oscar Wilde: “la vita imita l’arte”.

 

L’autore, contrariamente a Friedrich, considerava l’arte come un modo per esprimere una bellezza senza scopo, attraverso la mera rappresentazione del soggetto da parte dell’artista, concepito come necessariamente distante dalla vita quotidiana.

 

Whistler, dunque, dipinge luce, forma e colore, coglie l’atmosfera del momento: non svela verità morali o religiose; rappresenta le emozioni dello spettatore. Lo fa con maestria nei suoi Notturni, nei quali raffigura più volte il Tamigi, tema caro anche a Turner, ed esprime la propria adesione all’Estetismo anche nell’olio su tela (60,5x46,5 cm) Notturno in nero e oro: il razzo cadente (1875 ca.), attualmente conservato presso il Detroit Institute of Arts, USA.

 

Il dipinto rientra nel novero delle opere più controverse della storia dell’arte, tanto da essere balzato agli onori della cronaca giudiziaria dell’epoca, a causa di una disputa tra l’autore e il critico d’arte John Ruskin.

 

Ruskin nel 1877 recensisce il quadro, definendolo: “un secchio di vernice in faccia al pubblico”. Whistler gli intenta causa in tribunale e la vincerà, ma il processo si ripercuoterà negativamente sulla sua carriera. L’opera mostra una veduta del Tamigi dalla sua dimora e riproduce l’esplosione di fuochi d’artificio presso il Parco Cremorne Gardens.

 

Sulla sinistra, si staglia un imponente albero e, nelle vicinanze, la piattaforma di lancio dei razzi. Dal cielo precipitano scintille che paiono astri luminosi: luci e colori vengono disposti nella tela con tocchi precisi, con grande cura del dettaglio, in uno scenario di fugace caduta dell’attimo.

 

Meraviglia e dissolvimento della tenebra pervadono l’animo degli osservatori, in primo piano e illuminati dalla luce artificiale. Vapore, nebbia e squarci luminosi decorano l’etere, tracciando un fumo denso e facendo echeggiare lo sfondo acustico dello spettacolo pirotecnico. Non gli astri disegnano costellazioni, ma le scie artificiali dei razzi. Non la Luna illumina, ma la chimica delle polveri industriali.

 

Nella parte inferiore del dipinto è visibile accuratezza delle sfumature e fusione delle tonalità armoniche. Oro, verde, ocra, grigio e nero attenuano la nebbia londinese. La luminosità attraversa l’iride e genera stati d’animo. Potrebbe apparire azzardato, ma non privo di fascino, vedere in quest’opera persino un’anticipazione di alcuni tratti dell’estetica di Gustav Klimt.

 

La profonda ammirazione dell’artista per la musica spiega, inoltre, la scelta del titolo dell’opera, chiaro riferimento alle sinfonie di matrice musicale. Il pittore americano, nel dipingere la notte, descrive spettacolo e meraviglia in un contesto scenico più astratto che realistico: sceglie l’arte per l’arte.

 

Notte e interiorità

 

Il cammino notturno prosegue fino al vate del post-impressionismo, Vincent Van Gogh (Zundert, 30 marzo 1853 - Auvers-sur-Oise, 29 luglio 1890), artista che, come pochi, attraverso la pittura ha espresso sofferenza e dolore, elementi autobiografici di fragilità umana, ma che, al tempo stesso, dimostrano come proprio nella tenebra la luce trovi il proprio spazio.

 

La Notte stellata (1889), olio su tela (73x92 cm), custodito presso il Museum of Modern Art di New York, evoca un paesaggio notturno. L’opera rappresenta un villaggio rurale immerso in una notte stellata, illuminata dal nitore della falce selenica, in alto a destra, e dal pianeta Venere a sinistra, vicino all’alto cipresso.

 

L’albero, col suo svettare, pare spezzare la scena. Le abitazioni del paesino sono illuminate, e al centro si innalza il campanile di una chiesa, mentre sulla destra e nella parte centrale del dipinto, la scena è occupata da un boschetto e dalle alture circostanti che assumono la parvenza di un moto ondoso in procinto di travolgere l’abitato.

 

Questo aspetto contribuisce a conferire alla tela dinamicità, resa magistralmente nella sezione superiore, mediante pennellate vorticose, con le quali l’artista disegna luci e movimento nel cielo: ricorre a una palette cromatica di azzurri e gialli, temi, peraltro, presenti anche in altre sue opere come, Terrazza del caffè di sera (1888) e Campo di grano con corvi (1890). Spicca il cielo, ma sembra il mare, poiché con la tumultuosità di questi elementi, il pittore intende  esternare la propria interiorità.

 

Un sottile equilibrio permea il dipinto, donando allo spettatore una visione sospesa tra buio e luce, tra verticalità e orizzontalità, dove l’etere diviene vertice e la vita, orizzonte: terra, cielo e l’abitato come urbanesimo dell’animo umano, sollecitato dalla natura.

 

Nel quadro non vi è oscurità, ma speranza e sogno lungo eterei sentieri. La profondità delle tonalità scure della notte è la rimembranza dei tormenti dell'artista, ma la luce astrale pare dipingere itinerari di irenica quiete, perché la luce brilla nell’oscurità: non si camuffa, sorge nella notte, come la Luna.

 

Notte e mistero

 

Henri Rousseau (Laval, 21 maggio 1844 - Parigi, 2 settembre 1910) apre un percorso che, dalle notti europee, porta l’esperienza di notti di ambientazione esotica, all’insegna del primitivismo. Questa corrente culturale, originata dall’espansione coloniale della fine del XIX secolo, si distinse per un’arte semplice e caratterizzata da immediatezza.

 

La scoperta di nuove culture, contestualmente all’affermarsi di un filone artistico professante la necessità di distacco dalle categorie socio-culturali del Vecchio Continente, diede vita a una produzione pittorica orientata allo studio di artisti locali e alla sperimentazione di stili figurativi esotici, mediante l’abbandono del realismo e il ricorso a colori accesi e piatti, codici simbolici, un approccio, per certi versi, più astratto e con venature di sensualità e mistero.

 

Nell’olio su tela (169x189,5 cm) L’incantatrice di serpenti (1907), attualmente custodito presso il Musée d’Orsay di Parigi, Rousseau dipinge una giungla lussureggiante in uno scenario notturno illuminato da una Luna piena argentea dai contorni ben definiti, collocata in alto a sinistra, nel cielo bruno.

 

Nella parte sottostante scorre un fiume con uno sfondo di fitta vegetazione. La stessa viene riprodotta nella parte centrale e destra della tela, con dettagli più nitidi, resi con bidimensionalità, e forme chiare che descrivono una flora tropicale rigogliosa e variegata. La tecnica utilizzata prevedeva una pittura a strati, con la distribuzione delle pennellate dal cielo fino all’aggiunta di qualche foglia alla volta, in attesa che il colore si seccasse.

 

Pur mancando una prospettiva lineare, il fogliame e i motivi floreali brillano rispetto agli altri elementi, riuscendo a fornire profondità alla rappresentazione. Gli esseri viventi protagonisti della scena vedono la presenza di una donna, l’incantatrice, della quale, nell’oscurità del corpo, si scorgono gli occhi e la lunga chioma dei capelli ondulata che tocca le ginocchia. Un serpente avvolge le sue membra, mentre altri si producono in una sorta di danza ai suoi piedi. La donna ricorda Eva nel Giardino dell’Eden, ma nel dipinto, il serpente non rappresenta tentazione o peccato e la stessa natura è ai suoi piedi.

 

L’altro essere animato è un fenicottero, l’unico per il quale vengono impiegati i colori pastello, quasi a voler completare la lucentezza trasmessa dalle foglie e dai motivi floreali. Il volatile, in posa statica e catatonica, fissa l’incantatrice.

 

Le increspature del fiume evocano un’immobilità in una dimensione onirica e allegorica.  L’artista riesce ad imprimere nella raffigurazione un’aura di mistico mistero, dove l’oscurità della vegetazione e del corpo femminile nasconde il sogno, rischiarato dalla luce lunare, ancora una volta in bilico tra inconscio e memoria.

 

Quel che resta della notte

 

Il viaggio in notturna nell’arte sorvola contemplazione, atmosfera, interiorità e mistero, ma non si esaurisce al risveglio: offre vedute su più dimensioni, proprio come nei sogni. La notte si mostra come il rovescio del giorno, al contempo, inizio e fine, simbolica ciclicità dell’esistenza.

 

Questi maestri della pittura dipingono la notte e la sua luce; Dante Alighieri, nella Divina Commedia, evoca oscurità e luce come parabola esistenziale.

 

Nell’Inferno, al Canto I, apre con la tenebra:

“Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita”.

 

Chiude la cantica con una notte illuminata:

“E quindi uscimmo a riveder le stelle”.

 

Al termine del viaggio, Dante e Virgilio lasciano l’Inferno ed escono per rivedere le stelle: una notte simbolica, che non è fine, ma luce e redenzione.  Lo stesso itinerario attraversa le cantiche del Purgatorio e del Paradiso.

 

Anche l’arte, in tal senso, offre a ogni essere umano la libertà di immaginare i propri percorsi esistenziali.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Gombrich E.H., La storia dell’arte, Phaidon, 2008.

Farthing S., Arte. La storia completa, Atlante Srl, Valsamoggia (Bo), 2018.

Farthing, S., 1001 dipinti. Una guida completa ai capolavori della pittura, Atlante Srl, Valsamoggia (BO), 2021.

Mettais V., Van Gogh. Coffret l’essentiel, Éditions Hazan, 2021.

Sciolla G.C., Studiare l’arte. Metodo, analisi e interpretazione delle opere e degli artisti, UTET, De Agostini Editore SpA, Milano, 2025.

Dante Alighieri, La Divina Commedia, Eurodiffusione Editoriale SAS, Milano, 1975.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]