[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 211 / LUGLIO 2025 (CCXLII)


arte

Pittura dell’esplorazione
Rotte dell’arte tra storia e memoria
di Fabrizio Mastio

 

La storia può essere interpretata come un lungo viaggio contrassegnato da partenze, soste e ritorni? L’arte, ancora una volta, può offrire una lettura interpretativa ed essere letta come un diario di bordo del perpetuo incedere degli eventi. Un percorso può rinvenirsi in un autentico capolavoro risalente al II o I secolo a.C., custodito presso il Museo Nazionale Archeologico di Palestrina, il Mosaico del Nilo, o Mosaico nilotico di Palestrina (431×585 cm). Anche se non ascrivibile alla pittura, l’opera, realizzata da autore ignoto, rimanda alle Storie di Erodoto, dove, nel II libro, viene fornita un’ampia trattazione dell’Egitto e del Nilo.

 

 

Il fiume non rappresenta esclusivamente un elemento geografico, ma anche l’essenza di una civiltà millenaria e la fertilità. Il mosaico, osservabile dalla parte superiore a quella inferiore, raffigura l’Alto e il Basso Egitto dell’epoca greco-romana. Erodoto, nelle Storie, fa riferimento alle cime dalle quali sorgerebbe il Nilo: “Quanto alle sorgenti del Nilo nessun Egiziano, Libico o Greco venuto a colloquio con me sostenne mai di conoscerle, tranne lo scriba del sacro tesoro di Atena, nella città di Sais, in Egitto; ma quando costui mi disse di conoscerle con certezza, ebbi l’impressione che mi stesse prendendo in giro. Parlava infatti di due monti dalle cime aguzze situati fra le città di Siene nella Tebaide e di Elefantina, detti Crofi e Mofi; le sorgenti del Nilo, che sono inesplorabili, scaturirebbero appunto in mezzo a questi due monti: metà dell’acqua si riverserebbe a nord, verso l’Egitto, l’altra metà a sud, verso l’Etiopia”.

 

Nella sezione superiore compaiono, in effetti, delle cime montuose, probabilmente l’Acrocoro etiopico, popolate da pigmei, dediti alla caccia, in un mondo all’epoca inesplorato. Vengono raffigurate varie specie di animali che riconducono il territorio immaginato all’Egitto, anche per la presenza di ippopotami, coccodrilli, pitoni, rinoceronti africani, orsi, iene, tartarughe e lontre, babbuini, cinghiali e ghepardi: un vero atlante storico-geografico. La rappresentazione della caccia all’ippopotamo da un’imbarcazione egizia è accompagnata da una bucolica scena di un simposio con un pergolato ornato da grappoli d’uva. Pastori, contadini e militari popolano paesaggi naturali e urbani, disegnando una geografia sociale. Dal Nilo emerge la vita, tra realtà, rituale e mito.

 

La realtà è presente nella caccia, nell’agricoltura e nelle armature dei soldati; il rituale nel simulacro portato a spalla da un gruppo di servitori; il mito, nella raffigurazione di una sfinge che osserva lo spettatore. L’opera traccia un itinerario che pare delineare un percorso evolutivo e non esclusivamente spaziale: dalle terre quasi disabitate si giunge gradualmente verso la comparsa di un’architettura urbana, caratterizzata dallo scorrere della vita quotidiana e dallo svolgimento di attività agricole, di navigazione e pesca, fino alle mura di quella che, presumibilmente, può essere la città di Alessandria d’Egitto, adagiata sul delta del Nilo.

 

Il mosaico riproduce, inoltre, il tema delle piene fluviali, manifestazione della ciclicità della vita e del complesso equilibrio che regola il rapporto tra esistenza umana e natura, come confermato da Erodoto:“Quando il Nilo ha inondato il paese, al di sopra delle acque si vedono solo le città, simili pressappoco alle isole del Mar Egeo: giacché tutto il resto dell’Egitto diventa un mare, e solamente le città ne emergono”. Il Mosaico nilotico potrebbe essere letto come un percorso geografico, partendo dall’alto degli speroni rocciosi dell’antica Nubia fino alle acque azzurre del porto di Alessandria, o come un itinerario storico-evolutivo, dalle origini e da una dimensione primordiale, rinvenibile nella parte superiore dell’opera, fino a una società maggiormente stratificata ed esposta verso il mondo.

 

Dall’Antico Egitto il viaggio esplorativo può continuare attraverso le diverse prospettive interpretative rinvenibili nelle opere di tre artisti appartenuti a epoche diverse, secondo un ordine non meramente cronologico, ma tematico: Il primo sbarco di Cristoforo Colombo in America (1862) di Dióscoro Teófilo Puebla Tolín (Fernal de Fernamental, 25 Febbraio 1831 - Madrid, 24 Ottobre 1901), Il Geografo (1668-69 circa) di Jan Vermeer (Delft, 31 ottobre 1632 - Delft, 15 dicembre 1675) e Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (1897) di Paul Gauguin (Parigi, 7 giugno 1848 - Hiva Oa, 8 maggio 1903). Queste opere attraversano confini geografici e concettuali, dipingono partenza e destinazione, differenza e identità, dubbio e certezza.

 

L’esplorazione nella pittura storica di Dióscoro Puebla

 

Dioscoro Puebla, esponente dell’eclettismo, ha abbracciato diversi stili pittorici, dal classicismo all’orientalismo, con una produzione artistica caratterizzata da varietà tematica e formale,

Il primo sbarco di Cristoforo Colombo in America (1862), classico esempio di pittura storica di stampo celebrativo, ricostruisce l’approdo di Cristoforo Colombo all’Isola di Guanahani, poi denominata San Salvador, il 12 ottobre 1492. Il dipinto, olio su tela di 330x545 cm, custodito presso il Museo del Prado di Madrid, costituisce una sintesi di storicismo contraddistinto dal connubio di orgoglio religioso, patriottismo e glorificazione.

 

 

Cristoforo Colombo occupa la scena centrale della tela e, simbolicamente, la terra e il cielo: con lo sguardo scruta l’etere col drappo innalzato in maniera simmetrica dalla mano sinistra, mentre la mano destra scuote il suolo con la spada. Il rosso porpora delle vesti del navigatore genovese risaltano rispetto agli altri elementi cromatici. Il marinaio, in basso a destra, abbraccia la terra americana, quasi rivendicandone il possesso, mentre il frate sulla sinistra con in mano un crocefisso rappresenta l’opera di evangelizzazione. Sulla sinistra, le popolazioni locali, seminude, emergono dalla vegetazione con aspetto dimesso e impaurito.

 

Dal dipinto traspare volontà di dominio e conquista con la sottesa giustificazione del diritto al dominio sul Nuovo Mondo. Sullo sfondo si stagliano le caravelle, ancorate nelle calme acque oceaniche sormontate dal tenue azzurro del cielo. La centralità dell’approdo non appare casuale. Gli autoctoni, occupano una porzione residuale del dipinto, in un contesto privo della rappresentazione di chiari simboli della cultura locale. L’opera può essere interpretata come un manifesto propagandistico del dominio coloniale in una dimensione emotiva carica di dramma, esaltazione e sorpresa. Gli indigeni, descritti da Colombo con la locuzione“genti ignude” secondo la parafrasi di Las Casas, rende chiaro il rimando a una classificazione e non esclusivamente a una descrizione.

 

Dioscoro Puebla ripropone in chiave estetica il fatto che gli autoctoni, in base al metro con cui nella cristianità latina medievale si giudicava il grado di civiltà di una popolazione, non erano cittadini di una società civile e tale constatazione avrebbe costituito, infatti, l’assegnazione di quelle terre alla Corona di Spagna.

 

L’esplorazione nella pittura silenziosa di Jan Vermeer

 

Dalla vastità oceanica agli ambienti domestici di Vermeer, il viaggio non trova interruzione, ma un percorso differente. Il pittore del Secolo d’Oro olandese dipinge Il Geografo, olio su tela del 1668-69 circa, di 53x46,5 cm, custodito presso il Städelsches Kunstinstitut und Städtische Galerie di Francoforte. L’opera, analizzabile contestualmente a un altro dipinto dello stesso autore, L’Astronomo (1668), similare per affinità estetica e concettuale, raffigura una scena ambientata in un ambiente domestico dove un geografo, con abbigliamento accademico dai colori blu, rosso e bianco, i capelli lunghi e sguardo rivolto verso il vuoto, in posa meditativa, appare immerso fra voluminose carte geografiche. Il drappeggio morbido del copritavolo e le pieghe delle vesti conferiscono dinamicità al protagonista. Nella stanza, luce e ombra si compenetrano, mettendo in evidenza il protagonista della scena, gli strumenti e le carte geografiche. La luce proviene dalla finestra, collocata sulla sinistra della stanza, e penetra fiocamente nello studio. Il geografo tiene la mano sinistra appoggiata sul tavolo e sulla destra un compasso, mentre, in piena contemplazione, sembra scrutare l’orizzonte o, forse, l’ignoto. Se lo sfondo del dipinto fosse il ponte di una nave delle Compagnie delle Indie Orientali, non vi sarebbe differenza.

 

 

Nell’opera, le onde del pensiero si infrangono sugli scogli del mare e le pieghe del drappo policromatico e delle vesti, che paiono raffigurare il moto ondoso, potrebbero essere merci depositate in una stiva. Le carte geografiche ornano il tavolo da lavoro e il pavimento, mentre un mappamondo, posto in cima all’armadio insieme ad alcuni tomi, rispecchia fedelmente quello realizzato nel 1618 da Jodocus Hondius, membro di una famiglia di cartografi. Sul muro è appesa una carta geografica dei mari, corrispondente a quella di Willem Jansz. Blaeu. Poco sopra, appare la firma del pittore. Gli strumenti utilizzati dallo scienziato sono riprodotti in modo preciso rispetto a quelli effettivamente esistenti all’epoca di Vermeer.

 

Nel dipinto il pensiero si materializza, configurandosi come un’allegoria della scienza. Nella rappresentazione emerge chiaramente la fede nel progresso e il desiderio di esplorazione: pensiero, equilibrio e metodo sembrano solcare i mari della conoscenza.

 

L’esplorazione nella pittura esotica di Gauguin

 

I luoghi dell’arte non costituiscono esclusivamente un percorso geografico, ma anche un itinerario esistenziale. Paul Gauguin, primitivista e simbolista, rappresenta uno di quegli artisti che non affronta i mari per spirito di conquista, ma per trovare un rifugio da una società che non sente appartenergli. Cerca nell’esotismo un itinerario che non è fuga fine a se stessa, ma ricerca di una diversa dimensione interiore, probabilmente, non scoperta, ma riscoperta del sé attraverso il contatto con culture distanti dal Vecchio Mondo. L’artista francese affronta quasi un tragitto inverso rispetto a quello descritto da Dioscoro Puebla.

 

 

Nel dipinto Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, olio su tela del 1897-1898, di 139,1x374,5 cm., custodito presso il Museum of Fine Arts di Boston, attraverso il titolo pone già domande dal sapore teleologico. L’opera esprime i tormenti e la complessità di un artista che raffigura un mondo edenico polinesiano. I protagonisti assoluti, in questo caso, antiteticamente rispetto all’interpretazione fornita da Dioscoro Puebla, sono gli autoctoni: dodici figure rappresentanti le varie fasce d’età, popolano, in una lettura dell’opera da destra verso sinistra, la tela. Nella parte superiore del dipinto, a sinistra, campeggiano le domande del titolo, che completano l’opera nella forma e nella sostanza.

 

Il dipinto nella rappresentazione della cultura polinesiana, simboleggia la vita nel dispiegarsi delle varie fasi: a sinistra, un bambino adagiato vicino a giovani donne che ne vegliano il sonno. Due di loro osservano lo spettatore; una appare di profilo. Dietro di loro, da un’oscura spelonca, affiorano altre due donne avvolte da lunghe tuniche e una figura di schiena con la mano sul capo.

La scena centrale è occupata da un giovane che raccoglie dei frutti dalla cima di un albero. Verso sinistra una bambina mangia un frutto, mentre una donna seduta accanto a un’anziana pare simboleggiare il divario generazionale e il placido scorrere del tempo. Sullo sfondo un idolo locale si trova vicino a un’altra figura femminile, assorta nei propri pensieri. Il mondo animale trova ampio spazio, in un rapporto di simbiosi con gli esseri umani. Sullo sfondo la vegetazione endemica, il mare e un’isola non sono semplice ornamento, ma parte della narrazione, dove il rapporto tra esseri umani e natura è ancorato a una purezza primitiva. Non si scorge realismo, ma un'astrattezza delle forme dettata dalla volontà del pittore di conferire alla propria rappresentazione artistica un tratto istintivo aderente alle culture indigene. Il dipinto presenta quasi una dimensione onirica e lo stesso utilizzo dei colori trasmette un’ atmosfera sospesa tra inconscio e realtà in un chiaro intento di sperimentazione libera dai vincoli della rappresentazione tradizionale.

 

Gli itinerari nell’arte rappresentano sempre nuovi approdi verso mondi fisici e interiori, punti di incontro tra culture, frontiere estetiche ed emozionali. L'uomo in epoche ancestrali viveva sospeso tra gli elementi naturali, che osservava con rispetto, timore e soggezione religiosa. Il mare si ergeva come barriera fisica e mentale e affrontarlo costituiva una sfida che richiedeva abilità e coraggio, istinto e ragione: Odisseo che affronta il dio Poseidone. Attraversare il mare significava solcare le insondabili praterie del subconscio tra le tempeste interiori delle debolezze umane. Eppure, il crocevia di cultura e mercanzie è l'esito dello spirito di adattamento e della progressività insita nell'umanità. Se il brigantino Beagle di Charles Darwin può assurgere a emblematico esempio della spinta verso il progresso e della fede nella scienza, la baleniera Pequod descritta da Melville in Moby Dick, diviene metafora del viaggio come eterno conflitto nel quale l’essere umano scopre anche i territori inesplorati della propria anima.

 

L’unico sopravvissuto del romanzo di Melville, non a caso, si chiama Ismaele: “Sostenuto da quella bara, vagai alla deriva per quasi tutto un giorno e una notte su un mare morbido e funereo. I pescecani mi guizzavano accanto senza toccarmi, neanche avessero lucchetti alla bocca; i selvaggi falchi marini passavano coi becchi inguainati. Il secondo giorno una vela si avvicinò, si avvicinò sempre di più, e alla fine mi raccolse. Era la Rachele, che andava incrociando fuori rotta e che, nel ritorno sui suoi passi in cerca dei figli perduti, trovò soltanto un altro orfano”. La fine della storia non è stata ancora avvistata dall'ultimo uomo, che per natura cercherà sempre nuovi orizzonti.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Gombrich E.H., La storia dell’arte, Phaidon, 2008.

Farthing S., Arte. La storia completa, Atlante Srl, Valsamoggia (Bo), 2018.

Farthing, S., 1001 dipinti. Una guida completa ai capolavori della pittura, Atlante Srl, Valsamoggia (BO), 2021.

Antonini A., L’opera pittorica - Vermeer, Rusconi Libri S.p.A., Stampato in India, 2018.

Erodoto, Le Storie, Libro II, Antica Biblioteca Corigliano Rossano, raccolta digitale pubblicata nel 2022.

Fernández-Armesto F., Cristoforo Colombo, RCS Quotidiani Spa, Milano, 2005, edizione speciale per il Corriere della Sera - Titolo dell’edizione originale: Columbus.

Darwin C., Viaggio di un naturalista intorno al mondo, 2005, ET Saggi

Melville H., Moby Dick, Biblioteca Economica Newton, Prima edizione: New Compton Editori srl, Roma, 1995.

Rabino M., Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? di Paul Gauguin, ADO - analisi dell’opera, 2018: https://www.analisidellopera.it/paul-gauguin-da-dove-veniamo-chi-siamo-dove-andiamo/

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]