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N. 147 - Marzo 2020 (CLXXVIII)

Pino Pascali
L’idea del gioco e il ricordo dell’infanzia

di Ludovica Cozza Caposavi

 

L’idea del gioco ha sempre caratterizzato la ricerca artistica di Pino Pascali, seppur in ogni serie di opere sia stata espressa in maniera differente: in alcuni casi più evidente, in altri quasi del tutto nascosta. Secondo Pascali il gioco non è solamente un semplice appannaggio dei bambini, ma è proprio di coloro che nella vita intraprendono il lavoro che vogliono, che gli piace e al quale si dedicano completamente, come, nel suo caso, il mestiere dello scultore.

 

L’artista non intende il gioco come “puro divertimento”, ma come un’attività normale facente parte della vita dell’uomo che, partendo dall’infanzia, rappresenta la modalità principale attraverso la quale il bambino conosce il mondo e riesce a scoprire, sperimentare e affrontare le cose che lo circondano.

 

Nonostante abbia riscontrato una componente ludica in quasi tutti i cicli scultorei dell’artista, ho scelto di analizzare quelli che più mi hanno colpito. Mi focalizzerò anche sulle fotografie che ritraggono Pascali in atteggiamenti ludici o ironici insieme ai suoi lavori, poiché a mio avviso dimostrano essere “manifestazioni” emblematiche nel trattare questo argomento.

 

La produzione artistica di Pascali è costituita da vari cicli di opere, ognuno dei quali formato da un insieme di lavori legati tra loro da una comune ideologia. Le opere che costituiscono ciascun ciclo vengono realizzate contemporaneamente o a breve distanza le une dalle altre, e poi esposte. Annoiato da una serie, l’artista decide dunque di terminarla per dedicarsi a un’altra completamente differente, interrompendo questa sorta di “catena” e iniziandone una nuova. Nonostante questo, nella sua ricerca creativa è riscontrabile una certa continuità, infatti egli, a prescindere dal tema trattato, estrapola sempre gli elementi dal mondo reale e quotidiano, per poi trasformarli, traendo ispirazione dal mondo selvaggio e mitico.

 

Il passare da una serie a un’altra di opere è espresso giocosamente ed esplicitamente, nel ritornello di una poesia scritta da Pascali stesso: “Io son come un serpente / ogni anno cambio pelle. / La mia pelle non la butto /ma con essa faccio tutto. / Quel che ho fatto di recente / già da tempo mi repelle”.

 

Ritengo opportuno compiere un passo indietro, poiché questa poesia fu composta dall’artista per introdurre la sua mostra Nuove Sculture, che si tenne alla galleria L’Attico di Fabio Sargentini e rappresentò l’inizio di una proficua collaborazione e di una profonda amicizia tra Pascali e il gallerista romano. Prima di questa vicenda, nel 1965, Pascali diede vita al ciclo delle Armi, una produzione molto celebre che provocò la rottura di tutti i rapporti con De Martiis, dovuta a delle inconciliabili divergenze con il gallerista de La Tartaruga che si oppose al volere dell’artista pugliese di esporre questa nuova serie presso i suoi spazi espositivi, ritenendola troppo audace ed esageratamente rivoluzionaria rispetto alle ricerche artistiche contemporanee.

 

Il gallerista Gian Enzo Sperone invece si dimostrò entusiasta di queste creazioni di Pascali e fu così che nel gennaio 1966 presso la torinese galleria Sperone si tenne la mostra personale dell’artista dove furono esposte le Armi. Si tratta di sculture che hanno le sembianze di armi, realizzate assemblando materiali di scarto meccanici, tubi idraulici, carburatori Fiat non più utilizzabili, rottami, ferrivecchi e manopole.

 

L’artista plasma cannoni, bombe, mitragliatrici quasi a grandezza naturale, spaventosi solo all’apparenza poiché nonostante siano così realistici lo sono solo nell’aspetto e non nella funzione. Una volta costruite, tinteggiava queste armi giocattolo con la vernice militare verde-grigiastra che caratterizza i prototipi originali in modo da coprire le imperfezioni e le pecche dei materiali di scarto utilizzati e aumentare la verosimiglianza con le vere armi.

 

In questa produzione si avverte un velato richiamo alle sue opere precedenti incentrate sulle parti del corpo femminile e sui ruderi della Roma antica, poiché il criterio con il quale decise di trattare un tema ostico come quello della guerra è simile a quello in cui scelse di trattare il sesso, altro tema “tabù”, privilegiando il lato infantile, giocoso e ironico, a tratti beffandosi dello spettatore che si sentiva minacciato o intimidito di fronte alle sue opere.

 

Ci sono varie opinioni in merito a cosa avesse portato Pascali a dedicarsi a una ricerca artistica incentrata sulle armi militari, ma nessuna di queste è confermata o declinata dall’artista. Innanzitutto è fondamentale dire, che egli era nato nel 1935 e quindi la sua infanzia era stata scandita dagli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale.

 

Il padre di Pascali raccontò che negli anni in cui vissero a Tirana tra il 1940 e il 1941, dove si erano trasferiti poiché egli era stato arruolato come funzionario di polizia del Regime, addetto all’Ufficio Emigrazioni, il piccolo Pino si divertiva a uscire dai rifugi durante i bombardamenti aerei per incitare, brandendo le sue armi giocattolo, le truppe italiane.

 

Il critico Alberto Boatto percepì nelle Armi un profondo trauma dell’artista derivato dai ricordi della guerra, supponendo che fosse questa la causa principale del rifiuto di crescita compiuto da Pascali, rimasto ancorato a un’idea infantile della realtà che lo portava a sostituirla con un suo mondo immaginario, estrapolando elementi dall’immaginario collettivo e facendo subire loro una metamorfosi o ricostruendoli da capo, in modo che mantenessero solamente una fittizia somiglianza con gli originali.

 

Maurizio Calvesi invece ha scorto nell’insieme delle opere esposte da Sperone un richiamo all’apparato scenografico dello spettacolo, infatti Pascali studiò scenografia all’Accademia di Belle Arti e in seguito lavorò per la casa di produzione pubblicitaria Lodolo Film di Sandro Lodolo, e come aiuto-scenografo alla Rai.

 

Dopo aver visitato la mostra delle Armi, Calvesi scrisse: “(…) È una recitazione esibitiva, un comizio pacifista, un pomeriggio di giuochi, una brutta avventura della fantasia; è un happening affidato ai soli oggetti, uno spettacolo a scena pieno-vuota”.

 

Esistono delle foto che vedono protagonista Pascali con le sue Armi, scattate dal fotografo Claudio Abate nello studio dell’artista pugliese. In questi scatti Pascali si fa ritrarre con indosso un’uniforme militare vera e propria, in alcune fotografie si è infilato in testa anche un elmetto, per rendere ancora più credibile il personaggio che sta recitando o per rendere ancora più ironico il suo comportamento, infatti egli si approccia a questa serie di lavori come se si trattassero di veri e propri giocattoloni.

 

Guardando queste foto, mi domando se l’artista volesse che anche i visitatori della mostra alla galleria Sperone si scatenassero come lui a giocare con le opere esposte.

Ci sono varie fotografie in cui l’artista è a cavallo del Missile Colomba della pace, e in tutte, nonostante assuma pose differenti, si mostra divertito mentre con tutte le sue forze si tiene saldamente al razzo, dando l’idea che questo stia per sfrecciare veloce in aria. Ovviamente anche in questo caso si tratta di pura finzione, il missile, essendo un’opera d’arte, non si muove, è Pascali che impersonando il “ruolo” del militare gioca davanti all’obiettivo di Abate e dissimula un irrealistico volo.

 

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Pino Pascali, Colomba della Pace (missile), 1965. Fotografie di Claudio Abate.

 

Un’altra particolarità di quest’opera è il titolo Colomba della pace, che poco le si addice, poiché il suo aspetto riproduce in tutto e per tutto quello dei missili che usavano lanciare i bombardieri durante la Seconda Guerra Mondiale, essendo quindi l’opposto di un simbolo di pace.

 

 “Che bello mettere un cannone in un posto degli scultori, riuscire a metterlo veramente in quel mondo così sacro, così finto!”. Questa affermazione è tratta da uno scritto di Pascali del 1965, contemporaneo alla produzione delle Armi, infatti l’artista attribuiva molto rilievo al fatto che delle finte armi, quindi delle finte sculture occupassero lo spazio definito “artefatto”, dallo stesso Pascali, della galleria. Egli riteneva che le opere stessero all’interno dello spazio espositivo come delle tombe in un cimitero, come dei simulacri su un altare; per questa ragione l’artista decise di controbattere a questa falsità con una, se possibile, ancora più grande: la creazione delle finte sculture. 

 

Come già accennato, nell’ottobre del 1966 Pascali allestì la sua prima mostra da Sargentini intitolata Nuove Sculture. In questa occasione egli scelse di esporre il ciclo di opere chiamate “finte sculture”, cioè parti di animali e di elementi naturali realizzati con la tela bianca tesa su strutture di legno, materiali che permettevano a questi lavori di assomigliare a un primo sguardo alle candide statue classiche realizzate in pietra o in marmo. La mostra fu divisa in due fasi, nella prima presentò le parti di animali, mentre nella seconda mostrò il Mare con i relitti del suo paesaggio: La scogliera, Barca che affonda, Due balene.

 

Il Mare del 1966, è un’installazione costituita da 25 elementi realizzati con tela bianca su centine di legno che raffigurano il moto e le increspature delle onde. La calma della bianca tela è interrotta da un fulmine nero che la trafigge dall’alto. La gigantesca scultura fu pensata per occupare un’intera sala de L’Attico, mettendo in atto l’intenzione di trasporre un elemento naturale intangibile e incontenibile, come il mare, in uno spazio limitato e astratto come gli spazi espositivi di una galleria d’arte.

 

A Pascali piaceva il mare – ne parlò anche nell’atipica intervista di Carla Lonzi su Marcatrè del 1967, atipica poiché furono pubblicate solamente le risposte date dall’artista e cancellate le domande poste da Lonzi – gli ricordava la sua infanzia e i suoi giochi da bambino, infatti egli era nato a Bari e cresciuto a Polignano a Mare: i suoi ricordi erano dunque intrisi d’acqua e salsedine.

 

Il tema del mare non fu abbandonato da Pascali dopo la grande scultura esposta da Sargentini, ma fu riutilizzato e reinventato l’anno successivo nell’opera 32 mq di mare circa. Si tratta di una grande installazione composta da 30 vasche di alluminio zincato, alte 6 cm, di forma quadrata, riempite di acqua colorata all’anilina. Quest’opera è l’emblema dell’utilizzo di nuove tecnologie per rappresentare la natura, poiché i colori sintetici furono usati da Pascali per colorare l’acqua di differenti tonalità, determinate della quantità di prodotto versato all’interno delle vasche per riprodurre le sfumature d’azzurro del mare, che mutano a seconda della lontananza dalla riva.

 

Anche in questo caso, l’artista si beffa dello spettatore, che potrebbe scambiare, al primo sguardo, le vasche colme d’acqua all’anilina con lastre di vetro di molteplici toni di celeste, poiché l’effetto del colore disciolto nell’acqua la fa sembrare solida, dura e metallizzata. Nella disposizione i recipienti sono posti uno accanto all’altro formando un quadrato di grandi dimensioni, ma c’è un’eccezione nella parte finale dove Pascali ha scelto di porre alcune vasche leggermente separate, creando una frattura a zig zag che taglia la superficie dell’acqua e nella quale si può intravedere una porzione del pavimento sottostante.

 

Il titolo di quest’opera comprende un’unità di misura, così come nei nomi dei lavori presentati alla mostra Fuoco, immagine, acqua, terra, tenutasi a L’Attico nel 1967, dove espose 9mq di pozzanghere, 1mc di terra e 2mc di terra. Installazioni basate sulla natura, ma fondate sull’artificio: la similarità con gli elementi realmente esistenti è possibile solo grazie a materiali di origine artificiale. Combinare l’informità della materia organica con la componibilità del modulo divenne una delle cifre stilistiche che caratterizzarono i lavori di Pascali. Infatti l’artista stesso nell’intervista di Carla Lonzi dichiarò: “Il mondo è fatto come un grande meccano dove uno ha tanti pezzi... tutti uguali ma tutti differenti e proprio incastrandoli l’uno nell’altro si crea una possibilità oppure la si scarta”.

 

Abate ritrasse Pascali insieme all’installazione 32 mq di mare circa, mentre si muove nel piccolo spazio vuoto tra le vaschette; l’artista in questa fotografia sembra stia attraversando il suo “mare”, effettuando attentamente dei piccoli salti, con lo sguardo fisso e un braccio alzato per cercare di rimare in equilibrio e non cadere nell’acqua.

 

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Pino Pascali, 32 mq di mare circa, 1967. 30 vasche di alluminio zincato

con acqua colorata all’anilina. Fotografia di Claudio Abate.

 

Le opere di questo periodo hanno tutte la particolarità di essere componibili, cioè formate da vari pezzi uguali o molto simili che possono essere sottratti o aggiunti per adattare le sculture a un determinato spazio. Mi chiedo, guardando 32 mq di mare circa, se la scelta di lasciare una fessura di pavimento tra i quadrati fosse stata concepita per permettere ai visitatori della mostra di entrare all’interno della grande installazione e saltellare come Pascali o per creare un’imperfezione in un’opera così omogenea.

 

Osservando lo scatto sopra citato, nelle vasche più vicine all’obiettivo di Abate si scorge l’ombra dell’artista, che riflettendosi nell’acqua delle vasche rimanda la sua figura capovolta, come in un illusionistico specchio. Pascali amava vedere la sua immagine riflessa, ricca di sfaccettature e in grado di compiere i più disparati mutamenti futuri, così come la sua arte.

 

Pascali interpreta a suo modo la figura del bricoleur, l’immagine-metafora delineata da Lévi-Strauss nel primo capitolo del Pensiero Selvaggio: “Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati ma, a differenza dell’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime o di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè ad un insieme via, via “finito” di arnesi e materiali, peraltro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun progetto particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni o di distruzioni precedenti. […] Il suo modo pratico di procedere è inizialmente retrospettivo: egli deve rivolgersi verso un insieme già costituito di utensili e di materiali, farne o rifarne l’inventario, e infine, soprattutto impegnare con esso una sorta di dialogo per inventariare, prima di sceglierne una, tutte le risposte che l’insieme può offrire al problema che gli vien posto”.

 

Questo suo aspetto si può riscontrare nel ciclo di opere Ricostruzioni della natura, ideate nel 1968 ed esposte durante lo stesso anno in due mostre presso la galleria L’Attico di Roma. Di questa produzione fanno parte i Bachi da setola (tutti di colori differenti: verde acqua, verde mela, rosso granata, rosso arancio, rosa chiaro), presentati per la prima volta alla galleria Jolas di Parigi e successivamente nella prima delle due personali che si tennero da Sargentini.

 

In questi lavori si può immediatamente percepire una forte componente ludica, già partendo dal titolo scelto da Pascali che gioca, sostituendo la parola “seta”, facente parte del nome degli animali rappresentati, con “setola”, per sottolineare il materiale di cui sono composte le sculture. Infatti si tratta di una serie di installazioni raffiguranti bachi da seta realizzati utilizzando come unico materiale l’acrilico colorato con cui sono fabbricate le setole industriali e le scope di comune uso domestico.

 

Le opere hanno l’aspetto di giganteschi bruchi colorati, anche la loro grandezza ha un’accezione ironica poiché non esistono in natura bachi di queste dimensioni. La loro creazione è stata per Pascali estremamente semplice, l’unica difficoltà riscontrabile è nella fabbricazione della struttura di supporto delle sculture, per la quale impiega delle guide in ferro dolce nelle quali possono inserirsi gli anelli di cui sono fornite le setole poiché abitualmente è in questo modo che vengono montate ai manici delle scope.

 

In questi lavori l’artista riesce a giocare con i materiali che ha a disposizione per creare qualcosa di totalmente distante dalla loro funzione originaria, riuscendo a compiere una manipolazione istantanea della realtà tramite l’arte: egli non modifica la materia usata, le dà solamente una nuova fruizione, estrapolandola dal suo utilizzo comune, in questo caso solamente incastrando gli anelli di nylon tra loro invece di agganciarli ad altri supporti.

 

Giulio Carlo Argan scrisse, nel catalogo della mostra di Pascali che si tenne nel 1968 alla galleria Jolas di Parigi: “La spazzola di plastica colorata non è esibita né utilizzata come spazzola, né scelta per un meccanismo inconscio di memorie, di cesure, di attribuzioni simboliche. L’assume come forma o struttura, sapendo che la struttura in definitiva, non è altro che una intuizione di spazio e di tempo che gli uomini necessariamente immettono nelle cose che fanno. Accetta dunque e mette in evidenza la spazialità intrinseca nell’oggetto: nel caso della spazzola, il cercine formato dalle setole artificiali irradiate, il punteggiato luministico dei vertici trasparenti, la profondità colorata che si addentra nel folto, l’elasticità e la possibilità di movimento dei segmenti di materia traslucida. È una spazialità minima ma espansiva. L’oggetto si da come luogo conservando la sua natura di oggetto”.

 

Esiste una fotografia, scelta come copertina del catalogo della mostra de L’Attico sopracitata, intitolata Bachi da setola e altri lavori in corso, nella quale Pascali è ritratto sdraiato su un prato in discesa con al suo fianco uno dei Bachi da setola; differentemente dagli altri scatti l’artista non si trova negli spazi di una galleria o nel suo studio ma all’aperto, nella natura, luogo nel quale vivono i soggetti che ha rappresentato, i bachi.

 

 

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Pino Pascali, Copertina del catalogo della mostra Bachi da setola e altri lavori in corso,

Roma, Galleria L’Attico, Marzo 1968.

 

C’è una sottile ironia in questa immagine poiché l’animale disteso accanto a lui è in realtà prodotto con materiali artificiali. Si nota subito la grandezza del Baco da setola, di gran lunga superiore a quella del corpo di Pascali che, adagiato sull’erba, sembra rilassarsi prendendo il sole con a fianco questo enorme bruco, come se fosse una sua usanza abituale. 

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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