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N. 142 - Ottobre 2019 (CLXXIII)

pietro il grande

UN UOMO, UNO ZAR, UN MITO

di Francesco Biscardi

 

Attorno alla metà del XVII secolo la Russia era ancora un paese legato a una struttura socio-economica arcaica e patriarcale, oltre che scarsamente popolato, ma vasto e dalle notevoli potenzialità commerciali, essendo i suoi territori compresi fra due continenti, l’Europa e l’Asia. Tuttavia gli influssi delle più moderne civiltà d’Occidente e d’Oriente erano quasi assenti e la società appariva ermeticamente chiusa ad ogni apertura politica e culturale con l’esterno, gelosamente legata alle sue tradizioni e ai suoi costumi.

 

Questa stagione di isolamento era destinata a concludersi con l’avvento al trono di un giovane, quanto spregiudicato, sovrano, Pietro I Romanov “il Grande”, il quale, durante il suo regno (1682-1725), coronò dall’alto il sogno di contribuire all’ascesa della Russia fra le grandi potenze, facendola uscire, nel contempo, dal suo stato di stagnante arretratezza e inaugurando un nuovo corso nella storia del paese.

 

Per capire come mai la Russia alla fine del Seicento si trovasse in questo grave condizione di arretratezza è utile ripercorre sommariamente la cronistoria di quello che, inizialmente, era “solo” il Principato di Mosca (o Moscovia).

 

Nel XIII secolo, la terribile invasione mongola aveva portato all’istituzione di un Khanato, quello dell’Orda d’oro (corrispondente a buona parte dell’attuale Russia europea); la riscossa avvenne sotto il regno di Ivan III “il Grande” (1462-1505), che riuscì ad affrancare Mosca dall’asservimento straniero, soggiogando le terre limitrofe e imponendosi come autocrate di “tutte le Russie”.

 

Furono i suoi successori, Basilio III (1505-33) e Ivan IV “il Terribile” (1533-84), a continuare, all’esterno, la sua politica espansionistica e, all’interno, di consolidamento istituzionale e amministrativo. Alla morte di Ivan cominciò il “periodo dei Torbidi”: una buia fase storica di crisi caratterizzata da usurpazioni, ribellioni, guerre civili e aggressioni da parte dei paesi confinanti, da cui appariva difficile intravedere una via di uscita.

 

Il momento più buio si ebbe nel 1610, anno in cui l’esercito polacco occupò Mosca. Solo due anni dopo il principe Pozărsky riuscì a respingere l’esercito occupante. Nel 1613 venne eletto zar (Czar in russo, titolo in uso da Ivan IV in poi), Michele Romanov (1595-1645), capostipite della celeberrima dinastia destinata a regnare fino al febbraio 1917.

 

Sotto i primi Romanov non vennero attuate grandi riforme: era necessario assestare le strutture istituzionali del paese senza intaccare troppo i privilegi dei grandi proprietari terrieri, onde evitare lo scoppio di altre insurrezioni che avrebbero potuto minare la stabilità politica da poco ritrovata (seguirono sparuti moti agrari, repressi senza eccessive difficoltà).

 

Nel 1654 cominciò una nuova guerra con la Polonia; causa scatenante fu una rivolta dei cosacchi ucraini che, ribellatisi ai loro dominatori, avevano reputato miglior partito rivolgersi a Mosca, offrendo la propria fedeltà allo zar Alessio. Negli scontri che ne seguirono i russi conquistarono l’Ucraina orientale, compresa Kiev, mentre, con il successore, Fëdor III (1661-82), riuscirono a imporsi a sud-est contro i turchi. Questi furono i primi successi di una potenza che stava muovendo i primi passi sullo scacchiere europeo centro-orientale.

 

Morto Fëdor, gli succedette, nel 1682, il fratello Pietro, giovinetto di soli dieci anni. Questi visse i primi anni del suo regno nel rischio di essere detronizzato da rivolte e intrighi di palazzo, orchestrati dalla sorellastra, la reggente zarevna Sof’ja. Trascorsi gli anni dell’adolescenza, in gran parte nel villaggio di Preobraženskoe, fuori Mosca, il giovane crebbe e maturò, mostrando una scarsa propensione per gli studi linguistico-letterari, e una grande passione per dei giochi “militari” da lui stesso inventati, prodromo di quella passione bellica che lo farà diventare “il Grande”.

 

Frattanto le condizioni in Russia, sotto la reggenza di Sof’ja non erano delle più prospere: il paese aveva aderito, nel 1687, alla Lega Santa con il Sacro Romano Impero, la Polonia e Venezia contro l’Impero ottomano e i suoi alleati tartari, ma le operazioni belliche non stavano procedendo a gonfie vele. Cavalcando l’onda del dissenso che aleggiava a corte verso la sorellastra, Pietro, ormai maggiorenne, riuscì a deporre la reggente, a rinchiuderla, e a farsi riconoscere unico sovrano (1689).  

 

Affascinato dalla alacre attività della colonia straniera di Mosca, dove tedeschi, inglesi, olandesi e svedesi esercitavano il commercio, la medicina, l’artigianato e l’insegnamento, Pietro maturò, già dai primi anni di regno, il sogno di far uscire il suo paese dallo stato di arretratezza in cui vegetava. Allo scopo decise, negli anni 1697-98, di lasciare in incognito il paese e di cominciare una peregrinazione per l’Europa.

 

Attraversata la Polonia e l’Impero tedesco, soggiornò in Inghilterra e in Olanda dove, sotto mentite spoglie, lavorò addirittura come manovale nei cantieri navali, allo scopo di apprendere le più avanguardistiche tecniche d’ingegneria. Solo dopo aver acquisito quelle conoscenze delle arti e dei costumi occidentali che tanto lo premevano, e non senza aver rischiato qualche incidente diplomatico, Pietro e la sua Grande Ambasceria, come fu denominata, fecero ritorno in Russia con al seguito circa 900 esperti tecnici occidentali destinati a essere “inseriti” nei vari settori dell’economia russa.

 

Venne avviato un rapido potenziamento della marina mercantile e militare che presto consentì allo zar di ottenere significative vittorie nel Mar Nero contro l’Impero ottomano (nel 1695-96 c’erano già state alcune scaramucce fra turchi e russi per la fortezza di Azov, prima persa e poi riconquistata da Pietro). Ancora più significativi furono i successi contro la Svezia nella Grande Guerra del Nord (1700-21), nonostante le iniziali difficoltà causate dall’intraprendenza del sovrano svedese Carlo XII, che, a Narva (1700), aveva ottenuto uno strepitoso successo. La successiva pace di Nystad (1720-21) consentì allo zar di vedersi riconosciuta la supremazia nel Baltico (memorabile la vittoria di Poltava del 1709).

 

Meno positiva fu la campagna contro gli ottomani che, riaperte le ostilità dopo l’accordo di Istanbul del 1700, seguito alla pace di Carlowitz (1699), forti di una grande armata di circa 120000 fanti e 80000 cavalieri, riuscirono a sconfiggere le minori forze russe in Moldavia nel 1711. Tuttavia, le richieste di pace avanzate dai turchi furono, per ragioni non del tutto chiare, precipitose e piuttosto modeste (lo zar si impegnava a pagare una cospicua somma di denaro e a cedere le piazzeforti di Azov e Taganrog), nonostante le pressioni a continuare il conflitto di Carlo XII, riparatosi, frattanto, presso l’Impero islamico. Affrettandosi a porre fine alla guerra, il Gran visir si lasciò sfuggire l’occasione di annientare il nemico una volta per tutte (lo scontro fra Mosca e la Sublime Porta proseguirà a più riprese per tutto il Settecento e si concluderà a favore dei russi).

 

L’ultima campagna bellica intrapresa da Pietro fu quella contro la Persia del 1721-23, a suggello della sua stella: nel settembre 1721 fu conquistata Derbent e due anni dopo Baku. Nelle successive trattative, lo stato safavide riconosceva l’autorità russa sul Caspio e accettava l’annessione delle provincie di Gilian, Mazandran e Astrabad in cambio di una promessa di sostegno moscovita in un eventuale conflitto con la Porta.

 

Queste furono, per sommi capi, le grandi imprese belliche di Pietro. Veniamo ora alla ristrutturazione interna: per “occidentalizzare” e ammodernare la Russia, lo zar riorganizzò tutta la struttura governativa, burocratica e militare. Gli organi principali divennero il Senato (che sostituì la Duma boiara), composto da nove membri di nomina regia, nove collegi ministeriali, una Cancelleria segreta (una sorta di polizia di stato), mentre, su imitazione francese, affidò l’amministrazione delle provincie a governatori da lui personalmente scelti. Volle poi migliorare la qualità del sistema di istruzione fondando un’Accademia delle arti e delle scienze che affidò alle cure di studiosi e intellettuali chiamati da varie zone dell’Occidente europeo.

 

Anche i rapporti con la Chiesa ortodossa subirono dei mutamenti: il patriarca fu sostituito da un Santo Sinodo, posto sotto controllo del sovrano tramite un procuratore generale del regno.

Grazie all’ausilio dei tecnici e degli specialisti che aveva fatto accorrere da tutt’Europa, come lo svizzero Lefort e lo scozzese Gordon, riordinò l’esercito su modello prussiano, costruì un’efficiente flotta e promosse lo sfruttamento delle miniere degli Urali, da cui ricavò notevoli quantità di prezioso ferro.

 

In ambito socio-culturale, impose abitudini e costumi di stampo occidentale, rompendo con la tradizione russa, vista al di fuori come “barbara”, come lui stesso aveva avuto modo di constatare durante il tour del 1797-98 (altri viaggi europei saranno compiuti da Pietro negli anni successivi). Cito qui le prime risoluzioni immediatamente prese: ordinò il taglio della barba e l’abbandono delle tradizionali vesti cosacche. Il primo provvedimento è quello più interessante ed è tutto fuorché che banale: la barba, in Russia, era considerata un ornamento proprio di Dio, portata dai profeti, dagli apostoli e da Cristo stesso. Obbligarne la rasatura, in spregio degli usi, delle credenze e della volontà popolare, significava una cosa: Pietro voleva, ad ogni costo, recidere con il passato e dare vita a una nuova epoca.

 

Infine, favorì l’ascesa di nuovi ceti fissando una precisa gerarchia delle cariche militari e amministrative nella Tavola dei ranghi (1722), organizzata in base alle mansioni e non alla nascita, rompendo con ogni privilegio elitario: in base ad essa, chiunque avesse voluto far carriera, anche un nobile, sarebbe dovuto partire dal gradino più basso.

 

L’antica élite feudale dei boiari venne così trasformata in un ceto di funzionari al servizio dello zar dal quale, dunque, dipendeva ogni carriera e ogni conferma di titoli. Il risultato della colossale azione riformatrice fu la creazione di un sistema burocratico-militare su base aristocratica che consentirà alla nobiltà di acquisire sapere e cultura, ma non reale potere e capacità di governo.

 

A Pietro si deve anche la costruzione della nuova capitale, Pietroburgo, edificata nel 1703 sulle rive del Baltico, e destinata a diventare nei decenni successivi una splendida città culturale e un importante emporio commerciale.

 

Il popolo e la classe dirigente seguirono senza eccessi di entusiasmo la vasta e impetuosa azione rinnovatrice. Pietro governò da monarca assoluto (similmente al “collega” Luigi XIV): i sudditi spesso accondiscesero passivamente alle sue volontà, intimoriti dalla personalità energica e spesso crudele dello zar, che non indugiava a stroncare con la forza ogni voce critica nei confronti suoi, delle riforme e delle istituzioni.

 

Persino il figlio Aleksej pagò con la vita la sua spregiudicatezza: questi, a causa delle sue stravaganze, poco consone a un principe, non riuscì mai a guadagnarsi la stima del genitore, al punto da esser stato privato, dopo imperiose minacce, dei diritti di successione. Il giovane commise allora l’errore di disattendere alcune volontà paterne e di escogitare, pare, un piano per detronizzare il futuro erede al trono (chiunque fosse stato designato). Nel 1718, dopo il parere favorevole di un consiglio di 144 giudici, Aleksej venne condannato a morte. Fu lo stesso Pietro ad aver deciso definitivamente per la sentenza capitale, lanciando, in questa circostanza, un messaggio agghiacciante: nessuno, nemmeno la sua prole, poteva permettersi di tentare sovvertimenti nei confronti suoi e delle sue risoluzioni, pena la morte.

 

Gli ultimi anni di vita non furono prosperi per lo zar. Per quanto le vittorie militari contro la Svezia e la Persia, e il clima di pace e di auspicato sviluppo interno sembravano inaugurare un periodo roseo, la buona sorte sembrava averlo abbandonato: la sua salute, già cagionevole per gli stravizi cui fu sempre debole per tutta la vita, si aggravò a causa di un’infezione luetica che aveva contratto anni addietro. Dopo alcuni giorni di atroce sofferenza, il monarca spirò la mattina del 28 gennaio 1725.

 

Al momento del suo trapasso non si sapeva bene chi gli sarebbe succeduto: vista la prematura morte del secondogenito, Pëtr Petrovič (1719), i pretendenti erano sua figlia Anna, concessa in sposa al duca di Holstein, il nipote Pietro, figlio dello sfortunato Aleksej, e la moglie Caterina. Fu la consorte a spuntarla, dopo aver ottenuto l’unanime consenso dell’aristocrazia di corte.

 

Tuttavia, il suo regnò durò solo due anni: a partire dalla sua morte (1727), in trentotto anni ben quattro zar, fra cui una donna, Anna Ivanovna (1730-40), si avvicendarono al trono in un’era di tensioni che rischiavano di far precipitare il paese nelle ridde dell’epoca dei Torbidi. Le cose cambiarono prima con Elisabetta (1747-62), e poi, dopo l’infelice interludio di sei mesi di regno nel 1762 di Pietro III, con Caterina II “la Grande” (1762-96), le quali, inspirandosi ai principi riformatori dell’illustre avo, seppero stabilizzare un paese che sarà assoluto protagonista di quelle vicende otto-novecentesche, da Napoleone all’Urss, che tutti conosciamo.

 

Veniamo ora al significato storico del regno di Pietro, sul quale i giudizi sono stati di svariato orientamento. Indubbiamente, è difficile negarlo, le sue riforme hanno posto le basi per il futuro sviluppo della nazione, creando quasi dal nulla una prima attività industriale (soprattutto tessile e metallurgica), aprendo, anche in questo caso partendo quasi da zero, i porti e i centri urbani russi al commercio internazionale, e ampliando l’apparato militare terrestre e navale.

 

Tuttavia, i risultati furono inferiori agli sforzi compiuti: l’arretratezza e la condizione umiliante delle masse contadine rendevano difficile la vendita dei prodotti industriali nel paese, mentre la presenza di una struttura economica rurale, basata sulla servitù della gleba, asfissiava ogni sforzo teso a produrre un solido piano di sviluppo (una servitù che prospererà in Russia fino addirittura agli anni della Prima Guerra Mondiale). Né aiutava il clima di terrore che lo zar aveva contribuito a creare negli anni del suo regno.

 

Tanto per capire quanto i giudizi su Pietro siano stati e siano, in parte, ancora contrastanti, è utile riportare due opposte visioni storiche russe del XIX secolo: quelle dei nazionalisti slavofili che hanno imputato a Pietro la responsabilità di aver “staccato” la storia russa dal suo sentiero originario, filo-asiatico, e di averla condotta su una “falsa riga”, filo-europea, e quella degli occidentalisti che, di contro, hanno tessuto lodi allo zar per aver sollevato il popolo, riporta lo storico Gitermann, “dalla stagnazione senza storia di una barbarie semiasiatica alla luce e al grado di potenza importante nella politica mondiale”.

 

Due opposte tendenze che, in fin dei conti, dipingono Pietro come un eroe, sia esso negativo o positivo, che ha avuto il coraggio di imprimere una svolta unica. Certo il paese su cui aveva dovuto mettere mani era fra i più arretrati nel panorama euro-asiatico del tempo, chiuso a ogni apertura culturale e istituzionale più moderna, debole e potenzialmente preda di potenze straniere più potenti, che avevano tutto l’interesse ad accaparrarsi lembi del suo vasto territorio.

 

Forse i suoi intenti erano troppo grandi da potersi realizzare nell’arco di un solo regno. Per questo, a mio avviso, è giusto contestualizzare l’opera di Pietro nell’arco di un continuum storico che proseguirà fino a Caterina II e oltre. Se poi ragioniamo sul fatto che è nel Settecento che furono poste le basi intellettuali e scientifiche destinate a produrre quegli straordinari miglioramenti tecnologici, bellici e industriali che porteranno il Vecchio Continente a imporsi egemonicamente a livello mondiale in epoca imperialista, credo che la scelta filo-occidentale di Pietro mostri bene la lungimiranza di un sovrano a cui l’epiteto che è stato affibbiato, “il Grande”, renda conto egregiamente del suo retaggio storico.

 

Voglio chiudere con un penetrante giudizio del filosofo Voltaire (1694-1778) del suo operato. Questi, nella Storia della Russia, dopo aver ribadito nelle prime pagine che i progressi “dell’imperatrice Caterina e della nazione russa dimostrano sufficientemente che Pietro il Grande ha costruito su una base stabile e duratura”, sul finire dell’opera si appresta a concludere formulando questa riflessione:

 

Quando gli stranieri videro che tutte le istituzioni perduravano, ebbero un’ammirazione costante nei suoi confronti, e ammisero che era stato ispirato più da una rara saggezza che dal desiderio di fare cose sorprendenti. L’Europa ha riconosciuto che egli aveva amato la gloria, ma che l’aveva messa al servizio del bene, che i suoi difetti mai riuscirono a indebolire le sue grandi qualità, che in lui l’uomo ebbe delle macchie, ma che il monarca fu sempre grande. Costrinse la natura in tutto, nei suoi sudditi, in lui stesso, sulla terra e sull’acqua; ma l’ha costretta per abbellirla”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

De Caprio F., Un ambasciatore imperiale alla corte di Pietro il Grande: Christoph Ignaz Edler von Guarient e Rall nel diario di viaggio del suo segretario., in Relazioni internazionali e diplomazia nell’Europa centro-orientale tra età moderna e contemporanea, a cura di Platania G., Sette Città, Viterbo 2009, pp. 67-89.

Gitermann V., Storia della Russia, trad. di Sanna G., La Nuova Italia, Firenze 1973.

Platania G., Il bolognese Ercole Zani: un italiano in viaggio in Moscovia, in Da est a ovest e da ovest a est: viaggiatori per le strade del mondo, a cura di Platania G., Sette Città, Viterbo 2006, pp. 179-202.

Platania G., Re veri e “fasulli” zar. Intesa e antagonismo polacco-moscovita nella “Historia di Moscovia” dell’abate pistoiese Alessandro Cilli., in L’ombra della Russia sull’Europa centro-orientale. Storia, letteratura e altre cose., a cura di Platania G., Sette Città, Viterbo 2007, pp. 71-128.

Staffa G., Pietro il Grande, in I grandi imperatori, Newton Compton editori, Roma 2015, pp. 824-864.



 

 

 

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