.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


.

medievale


N. 137 - Maggio 2019 (CLXVIII)

Pietro de Pretio

Un’apologia sveva contro Carlo I d’Angiò
di Costanza Marana

 

“Molto fu largo e cortese e di buon aire” viene definito così Manfredi di Svevia nella Cronaca di Giovanni Villani. L’autore fa mostra dell’habitus cortese del sovrano svevo, uno dei figli naturali di Federico II; alla morte dello stupor mundi prende la reggenza (1250) del regno di Sicilia e di Puglia.

 

Manfredi incentiva una dislocazione di poteri e funzioni tra contee e baroni, creando un vero e proprio apparato clientelare, legato al suo entourage familiare e collaborativo. Questo assetto accentratore e “nepotistico” viene suffragato da una politica volta a costituire una rete di alleanze a matrice ghibellina. Ciò provoca un regime di inaffidabilità e corruzione dilaganti in ambito amministrativo che verrà riassestato in un’ottica maggiormente istituzionalizzata da Carlo I d’ Angiò, sebbene quest’ultimo serbasse un’impronta “oligarchico feudale”.

 

Ad esempio, nel caso dell’Officium Marescalliae, Manfredi concede tale carica a Galvano Lancia con l’intento di assicurarsi il monopolio dal punto di vista del controllo, come valore assoluto. In seguito, il comparto angioino vi aggiungerà funzioni riguardanti l’apparato logistico militare, la supervisione e direzione delle carceri e scuderie regie, agglomerandovi la figura del Conestabile dell’epoca normanna.

 

Dell’eredità della famiglia Lancia (suddetta), privilegiata dall’establishment svevo, Carlo I avrebbe fatto una riserva di proprietà concesse, tramite titoli feudali, ai suoi fedeli collaboratori. Costui forma un vasto patrimonio terriero, nutrito dalla confisca a grandi famiglie nobili e borghesi, corrompendo la precedente struttura gerarchico-feudale su base normanna.

 

Nello specifico, l’area dell’Agrigentino viene addensata di seguaci dell’Angioino con tali concessioni feudali, come il caso dell’avignonese Jean Roux che diventa proprietario nel 1270-72 del casale di Molotta, confiscato a Nicolò de Aspello e Guglielmo di Fazarabia.

 

Il fratello Corrado IV (Duca di Svevia e re di Germania) si rivela il legittimo erede al trono. Morto costui nel 1254, Manfredi persegue la sua ambizione di potere rivolta al trono di Sicilia e Puglia, tentando di far riconoscere, mediante il salvacondotto papale, il nipote Corradino quale successore, poiché la sua intenzione era di beneficiarne lui stesso.

 

Papa Innocenzo IV si manifesta ostile alle manovre manfrediane, pertanto il nobile svevo si rifugia in Puglia e medita una rappresaglia che punterà alla riconquista del regno versus lo stato pontificio. Diffusa la mendace notizia della morte del piccolo Corradino e valente del possesso del territorio, Manfredi si fa incoronare re a Palermo nel 1258.

 

Scomunicato, all’apice della gloria, in seguito anche alla vittoria sui guelfi a Montaperti, inizia il declino e l’epilogo drammatico del sovrano svevo.

 

Clemente IV a difesa dei suoi interessi, spodestati, avoca a sé dalla Francia Carlo I d’Angiò. Durante la battaglia di Benevento, Manfredi viene ucciso e la “Götterdämmerung” della casata non si arresta. Corradino discende in Italia per riappropriarsi del suo regno, ma i francesi nei pressi della conca del Fucino arrestano l’avanzata. L’erede svevo fugge, ma il signore di Astura, Giovanni Frangipane, lo trattiene e consegna a Carlo I d’Angiò.

 

Il 29 ottobre 1268 Corradino di Svevia viene decapitato innanzi alla folla nell’attuale piazza del mercato di Napoli. La gogna, il gesto plateale, la crudezza della scenografia colpiscono la sensibilità comune. Uno scenario denso di pathos che muove l’animo del dictator Pietro de Pretio e il suo credo nella casata sveva.

  

Pietro de Pretio (Pietro da Prezza) nasce tra la prima e la seconda decade della prima metà del XIII secolo e si configura quale notaio e dictator. Quest’ultima qualifica lo identifica quale incaricato ufficiale di scrivere epistole per la casata sveva.

 

Costui proviene o dal suolo abruzzese (Prezza) o, in base ad alcune deduzioni da documenti del tempo, dalla città di Parma, ma non vi è certezza in queste attribuzioni. Pietro, proclive alla scrittura, sente di suffragare il suo animo e la causa del suo signore stendendo un’invettiva contro gli Angiò, ad esortazione del Vicecancelliere di Corrado IV, Enrico Langravio della Turingia, marchese della Misnia. Un bardo di conforto per la morte di Corradino di Svevia, nipote di Federico II.

 

Ispirato dalla virtù celeste si foggia dell’investitura dall’alto per accingersi a decantare le lodi della stirpe sveva.

 

« (…) sacro ceppo per l’avvenire germoglieranno innumerevoli cesari e re, affinché con così numerosi successi sia più felice il proseguimento e a me si offra da scrivere un argomento più ricco».

 

Il languore nell’animo di Pietro, innanzi alla tragedia di Corradino, lo porta a recare testimonianza dell’accaduto, non lasciandone lettera muta ai posteri.

 

«L’amaro stimolo di un dolore spietato non sente vergogna, non ha paura, non decide, non consulta la ragione (…) confido nelle mie forze e non temo di rivolgere al cielo la bocca muta».

 

L’autore descrive le nefandezze compiute dagli angioini, rendendo manifesta la loro prolungata e ben radicata crudeltà.

 

«Senza dubbio questo nostro Carlo non discende dall’antico Carlo Magno più di quanto il cuculo discenda dall’aquila».

 

Qui narra della vicenda dell’usurpazione del potere da parte di Ugo Capeto, duca dei Franchi, nei confronti di Lotario, re di Francia, alla cui morte, con l’aiuto dell’Arcivescovo di Reims, si impossessa della corte, eliminando anche l’ultimo concorrente carolingio Carlo, duca della Bassa Lorena.

 

«Prendendo con la mano grondante di sangue lo scettro del potere e la spada del governo. (…) Lupi rapaci, che avendo divorato la stirpe degli eccellenti leoni, hanno occupato il loro posto e rivendicato il diritto di per sé di comandare sulla plebe delle fiere».

 

Una stirpe contaminata dall’inganno, l’ipocrisia e la crudeltà versus l’aura nobile della casata sveva. Il ritratto di Carlo I d’Angiò come peccatore, senza scrupoli, iracondo, mentitore.

 

Trucidò Corradino in modo vergognoso, tra le beffe, “contro Dio, contro la parola datagli più volte relativa alla sua salvezza, contro la consuetudine, sancita da alcune usanze, le quali stabilivano saggiamente che nessun re qualora fosse stato fatto prigioniero dovesse essere privato della vita”.

 

Conclude esortando il marchese della Misnia alla vendetta del vilipendio del re svevo da parte degli angioini.

 

«Lascerai che sia invendicato il sangue di tuo fratello versato con disprezzo e viltà? Va’ contro questa bestia feroce e pessima bestia che divora il genere umano! E beve il sangue dei cristiani. Contrapponi le tue spade e le tue lance! Opponi il tuo scudo a difesa! Vieni, o signore, non tardare! Tuttavia vieni con mano forte!».

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

U. Caperna (a cura di), Invettiva contro Carlo d’Angiò per l’uccisione di Corradino di Svevia, Pietro de Pretio, , Francesco Ciolfi Editore, Cassino 2010;

L. Catalioto, Terre, baroni e città di Sicilia nell’età di Carlo I d’Angiò, Intilla editore, Messina 1995;

G.L. Borghese, Carlo I d’Angiò e il mediterraneo. Politica, diplomazia e commercio internazionale prima dei vespri, École Française de Rome, Roma 2008.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.