N. 58 - Ottobre 2012
(LXXXIX)
LA PIETà DI KIM KI DUK
Vendetta, odio, amore
di Giovanna D’Arbitrio
Il
regista
coreano
Kim
Ki
Duk
sembra
prediligere
nelle
sue
opere
un
mix
di
aspetti
culturali
Est-Ovest
su
temi
oggi
molto
attuali,
come
danaro,
violenza,
sesso,
temi
che
inducono
a
complesse
riflessioni
per
il
modo
con
il
quale
suole
affrontarli.
Il
suo
ultimo
film
“Pietà”,
vincitore
del
Leone
d’Oro
a
Venezia,
narra
la
storia
di
un
crudele
criminale,
una
sorta
di
sadico,
insensibile
macellaio
che
tortura
e
mutila
le
sue
vittime,
al
servizio
di
un
usuraio.
Egli
comincia
a
provare
sentimenti
umani
solo
quando
nella
sua
vita
appare
una
donna
che
sostiene
di
essere
sua
madre
e di
averlo
abbandonato
da
bambino.
Purtroppo
anche
se
nei
due
protagonisti
si
scatena
una
lotta
tra
Bene
e
Male,
tra
odio
e
amore,
alla
fine
sarà
il
sentimento
di
vendetta
a
predominare
nella
donna
nell’agghiacciante
finale
a
sorpresa,
messo
in
evidenza
dallo
stile
del
regista
che
si
avvale
di
immagini
forti,
crude
e
provocatorie,
toni
foschi
da
tragedia
greca
in
cui
domina
per
bravura
e
incisività
l’attrice
protagonista,
Jo
Min
Soo.
Diversi
critici
hanno
sottolineato
il
drammatico
finale
del
film,
definendolo
“catartico”,
in
qualche
modo
segnato
da
un’elevazione
spirituale
da
profano
a
sacro
esaltata
anche
dalla
colonna
sonora.
In
realtà
quel
che
appare
senz’altro
evidente
è lo
sgomento
degli
spettatori
di
fronte
al
trionfo
di
una
vendetta
ordita
con
sottili
e
spietate
trame
dalla
donna.
Altro
che
pietà!
Suscita
brividi
di
orrore
la
profanazione
dell
‘amore
materno
declassato
a
strumento
di
vendetta.
E
francamente
anche
la
locandina
del
film
con
il
suo
chiaro
riferimento
alla
Pietà
di
Michelangelo,
appare
un
altro
inopportuno
accostamento,
poiché
il
dolore
“composto
e
consapevole”
per
il
sacrificio
del
Figlio
scolpito
dal
grande
artista
sull’
amorevole
volto
di
Maria,
è
lontano
anni
luce
dall’
idea
di
vendetta.
La
“pietà”
comunque
è
giusto
riservarla
a
tutte
le
vittime
costrette
a
subire
inaudite
violenze
in
una
società
travolta
da
una
crescente
perdita
di
valori
sia
ad
Est
che
ad
Ovest.
Il
regista
ha
affermato
in
un’intervista
che
l’odio
di
cui
parla
nei
suoi
film
non
è
rivolto
contro
nessuno
in
particolare,
ma
corrisponde
alla
sensazione
che
prova
quando
vede
cose
che
non
riesce
a
capire.
Per
questo
motivo
allora
fa
un
film,
“per
tentare
di
comprendere
l’incomprensibile”.
Egli
sa
che
molti
lo
considerano
un
provocatore
e
che
“in
Corea
nove
critici
su
dieci
lo
considerano
pazzo
e
vizioso:
in
realtà
non
vuole
provocare,
ma
essere
onesto
rispetto
alla
realtà,
o
almeno
rispetto
alla
“sua
visione”
di
quest'ultima.
Forse
la
chiave
per
comprendere
il
suo
ultimo
film
è
nella
frase
“il
Denaro
è
inizio
e
fine
di
tutto”:
con
queste
premesse
cosa
ci
si
può
aspettare
se
non
orrori,
violenza,
odio,
vendetta
e
morte?
In
un
futuro
molto
prossimo
saremo
ancora
esseri
umani
o ci
trasformeremo
in
mostri
incapaci
d’amare?
Questo
sembra
essere
l’angosciante
dubbio
del
regista.
