[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

178 / OTTOBRE 2022 (CCIX)


contemporanea

PHILIP ROTH E IL SIONISMO

Operazione Shylock e la questione ebraica

di Alessio Guglielmini

 

Operazione Shylock (1993) di Philip Roth è un sofisticato boomerang di sdoppiamenti. Tutto ha inizio da un esaurimento nervoso dell’autore, dovuto a un eccessivo consumo di Halcion. Il delirio allucinatorio è il fondale da cui emerge il gioco a specchi dell’intera sequenza narrativa. Roth incontra il suo sosia durante un viaggio in Israele nel 1988 per intervistare lo scrittore Aharon Appelfeld.

 

Ma è più di un sosia, si tratta di un alter ego, di un impostore che si spaccia per Philip Roth allo scopo di fare proseliti in giro per il mondo. Proseliti che riguardano la questione sionista: il finto Philip Roth è infatti l’ambasciatore di un movimento che promuove un “esodo al contrario”, il cosiddetto “diasporismo”. Per la sua sicurezza, e per evitare un altro drammatico Olocausto, il popolo ebraico dovrebbe abbandonare lo stato d’Israele e tornare a vivere nelle altre nazioni della Terra. Il Roth vero, che verosimilmente interpreta qui l’altro risvolto dell’opinione pubblica ebraica, cerca in ogni modo di liberarsi del suo doppelgänger,a cui dà il nome iconico di Moishe Pipik (sul quale torneremo), e nel frattempo viene addirittura coinvolto in un’operazione del Mossad.

 

La sfida sopraffina del libro sta nel discernere che cosa sia realmente accaduto e che cosa invece sia soltanto frutto dell’ingegno di Roth. È su questo filo sottile che Roth trova materiale plastico per allestire la sua operazione in incognita tra le pieghe di due personaggi che si incastrano e si confondono mutualmente. È una posizione parecchio vantaggiosa per chi voglia mescolare le carte, facendo dire all’altro se stesso ciò che pensa realmente su temi delicati come il sionismo, la questione palestinese e la politica israeliana.

 

Megafono di una visione controcorrente è per l’appunto un sosia idealizzato che riceve il soprannome di Moishe Pipik. Moishe Pipik è una specie di scherzo, una personificazione grottesca che collega la cultura alta con quella popolare. Porta del resto il nome del più grande profeta ma il suo nomignolo prosegue con “Pipik”, che è invece associabile all’ombelico. Roth si riferisce presumibilmente alla necessità di recidere il proprio cordone ombelicale rispetto a un’eredità psicologicamente ingombrante.

 

Un’eredità che si esplica attraverso il conflitto con la memoria e la testimonianza. In tutta la paradossale costruzione di Operazione Shylock c’è infatti del vero. Philip Roth incontra e intervista effettivamente lo scrittore Appelfeld, superstite di un lager in Transnistria. Interrogandolo sui significati del suo libro, Badenheim 1939, Roth riceve una risposta che è cruciale per capire alcune delle posizioni del Philip Roth/MoishePipik: «Io ho sempre amato gli ebrei assimilati, perché era lì che il carattere ebraico, e anche, forse, il destino ebraico, si concentrava con la massima forza».

 

L’intervista ad Appelfeld può essere letta nel volume Chiacchiere di bottega, insieme al resoconto di analoghe conversazioni, come quella avvenuta con Primo Levi, nel 1986. L’Operazione Shylock deve dunque essere intesa, inoltre, quale bilancio sul ruolo dell’intellettuale e sul mestiere dello scrivere rispetto agli eventi della storia e dell’attualità. Gli incontri con Appelfeld e Levi fanno parte di un percorso sulle tracce della verità che il romanzo approccia, all’opposto, in una sequenza di episodi tragicomici.

 

L’altro frammento inequivocabile di Operazione Shylock è il processo a John “Ivan” Demjanjuk, cittadino americano accusato di essere il boia di Treblinka. Un procedimento iniziato a Gerusalemme nel febbraio del 1987 a cui Philip Roth, sulla scia di Hannah Arendt e del caso Eichmann, assiste, a dire il vero, solo occasionalmente. Eppure, perfino la realtà del tribunale non è immune all’essenza nebulosa del “doppio” che aleggia sull’intera narrazione.

 

Il Demjanjuk del 1988 si proclama infatti vittima di uno scambio di persona. Il Roth testimone delle udienze studia con attenzione i suoi movimenti, provando a scovare qualche indizio: «Una volta guardò gli spettatori con aria indifferente, assolutamente in pace con se stesso, muovendo la bocca in modo quasi impercettibile come se stesse masticando qualcosa. Una volta bevve un sorso d’acqua dal bicchiere che aveva sul tavolo. Una volta sbadigliò. State processando l’uomo sbagliato, proclamava quello sbadiglio».

 

In questa descrizione si coglie peraltro una presunta “banalità del male” che è in fondo simmetrica alle impressioni ricavate dalla Arendt nel suo resoconto del processo Eichmann. Oltre alla banalità, irrompe l’incertezza, volutamente sospesa, di un Roth disposto quasi a seguire le argomentazioni di Demjanjuk: «Continuavo a guardarlo, chiedendomi se, nonostante tutto ciò che avevo letto delle testimonianze contro di lui, la sua pretesa di essere innocente fosse vera; se i superstiti che lo avevano identificato potevano tutti sbagliarsi o mentire; se la carta d’identità di guardia in divisa del campo di concentramento, con la sua firma in cirillico e la foto del suo viso nel fiore degli anni, poteva essere effettivamente un falso; se le versioni contraddittorie dei suoi movimenti come prigioniero di guerra tedesco nei mesi in cui le prove dell’accusa lo collocavano a Treblinka, versioni confuse che Demjanjuk aveva cambiato praticamente a ogni interrogatorio cui era stato sottoposto prima e dopo l’imputazione ufficiale, non potevano, tutto sommato, costituire un alibi credibile».

 

Demjanjuk viene dichiarato colpevole nell’aprile del 1988, con relativa condanna a morte. Il Philip Roth di Operazione Shylock, dunque, sa come va a finire il processo. Tuttavia, nel 1993, per coincidenza proprio nell’anno di pubblicazione del romanzo, il caso si riapre. La Corte Suprema israeliana revoca la condanna basandosi sulle dichiarazioni di alcune ex-guardie di Treblinka che assicurano che presso il campo risultava impiegato, come responsabile delle camere a gas, un certo Ivan Marchenko e non Demjanjuk. Quest’ultimo, dopo varie traversie burocratiche, torna negli Stati Uniti.

 

L’ambiguità della vicenda permane. Nel 2009, la Germania ottiene la sua estradizione e Demjanjuk, quasi novantenne, viene nuovamente processato. L’imputato, questa volta, è accusato di essere complice d’omicidio,per un totale di 28.060 vittime, per i fatti relativi al periodo in cui ha prestato servizio come guardia SS a Sobibór. A differenza delle udienze di Gerusalemme, non viene attribuito a Demjanjuk l’approccio feroce e sadico di quell’”Ivan il terribile” di Treblinka che era stato poi ricondotto alla figura di Marchenko. Questa impostazione porta alla condanna di appena cinque anni di detenzione che Demjanjuk nemmeno sconta in attesa dell’appello. Demjanjuk muore in una casa di cura tedesca nel marzo del 2012, senza che la sua posizione giuridica sia mai stata definitivamente ratificata. La complessità di Operazione Shylock in qualche modo deborda nella realtà.

 

Un altro episodio reale emerge tra le pagine del romanzo: l’omicidio di Leon Klinghoffer, avvenuto l’8 ottobre del 1985 sull’Achille Lauro, da parte dei militanti palestinesi. Philip Roth racconta di essere stato intercettato, sempre durante il suo soggiorno a Gerusalemme, da un antiquario di nome Supposnik che gli lascia due diari dei viaggi di Klinghoffer, appunti intimi in cui si coglie “il suo amore per Israele”, per “i correligionari” e per la famiglia.

 

La richiesta è semplice: «Signor Roth, l’introduzione alla prima edizione americana del Diario di Anna Frank fu scritta da Eleanor Roosevelt, la stimatissima vedova di colui che durante la guerra era stato il vostro presidente. Qualche centinaio di parole della signora Roosevelt, e le parole di Anna Frank sono diventate un capitolo drammatico e toccante nella storia delle tribolazioni e della sopravvivenza degli ebrei. Philip Roth può fare lo stesso per il martire Klinghoffer».

 

L’autore/protagonista si vede costretto a prendere i diari dalle mani di Supposnik, e a tenerli con sé, per paura che finiscano nella disponibilità di Moishe Pipik che, senza dubbio, li utilizzerebbe in maniera strumentale per fomentare la causa “diasporista”. È proprio la strumentalizzazione il tranello in cui Philip Roth non vuole cadere, rifiutando la banalizzazione della questione ebraica.

 

Una confessione è il sottotitolo di Operazione Shylock. Si tratta di una confessione per lo più fantasiosa, se non spudoratamente falsa, a parte ciò che di espressamente vero viene rimarcato nella finale “Nota per il lettore”. Ossia, la conversazione/intervista con Aharon Appelfeld, così come le frasi dette in aula durante il processo a Demjanjuk, tratte nello specifico dai verbali dell’udienza mattutina del 27 gennaio 1988 presso la Corte Distrettuale di Gerusalemme. Si presume pertanto che il riferimento ai diari di Klinghoffer sia un falso, usato appunto per esprimere un certo fastidio per qualsivoglia tentativo di usare le vittime ebree in chiave propagandistica.

 

D’altro canto, l’intera Operazione Shylock, tra fiction, realtà, narrazione romanzata e postulazione saggistica, è la complessa ricognizione di un pensatore incastrato tra verità storica, identità culturale, vocazione intellettuale, dibattito politico e pressione dell’opinione pubblica. Un’operazione in cui, a conti fatti, è in gioco ben più di una libbra di carne.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Philip Roth, Operazione Shylock. Una confessione, Einaudi, Torino 1998.

Massimiliano A. Boni, “Una specie di distillato di umanità”. L’identità ebraica in Operazione Shylock di Philip Roth, Academia.

AharonAppelfeld, Badenheim 1939, Guanda, Parma 2007.

Philip Roth, Chiacchiere di bottega. Uno scrittore, i suoi colleghi e il loro lavoro, Einaudi, Torino 2004.

Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2019.  

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]