di Alessio Guglielmini 
											
											
											
											 
											
											
											
											Operazione Shylock 
											
											(1993) di Philip Roth è un 
											sofisticato boomerang di 
											sdoppiamenti. Tutto ha inizio da un 
											esaurimento nervoso dell’autore, 
											dovuto a un eccessivo consumo di 
											Halcion. Il delirio allucinatorio è 
											il fondale da cui emerge il gioco a 
											specchi dell’intera sequenza 
											narrativa. Roth incontra il suo 
											sosia durante un viaggio in Israele 
											nel 1988 per intervistare lo 
											scrittore Aharon Appelfeld. 
											
											
											
											 
											
											
											Ma è più di un sosia, si tratta di 
											un alter ego, di un impostore che si 
											spaccia per Philip Roth allo scopo 
											di fare proseliti in giro per il 
											mondo. Proseliti che riguardano la 
											questione sionista: il finto Philip 
											Roth è infatti l’ambasciatore di un 
											movimento che promuove un “esodo al 
											contrario”, il cosiddetto 
											“diasporismo”. Per la sua sicurezza, 
											e per evitare un altro drammatico 
											Olocausto, il popolo ebraico 
											dovrebbe abbandonare lo stato 
											d’Israele e tornare a vivere nelle 
											altre nazioni della Terra. Il Roth 
											vero, che verosimilmente interpreta 
											qui l’altro risvolto dell’opinione 
											pubblica ebraica, cerca in ogni modo 
											di liberarsi del suo 
											
											doppelgänger,a 
											cui dà il nome iconico di Moishe 
											Pipik (sul quale torneremo), e nel 
											frattempo viene addirittura 
											coinvolto in un’operazione del 
											Mossad. 
											
											
											 
											
											
											La sfida sopraffina del libro sta 
											nel discernere che cosa sia 
											realmente accaduto e che cosa invece 
											sia soltanto frutto dell’ingegno di 
											Roth. È su questo filo sottile che 
											Roth trova materiale plastico per 
											allestire la sua operazione in 
											incognita tra le pieghe di due 
											personaggi che si incastrano e si 
											confondono mutualmente. È una 
											posizione parecchio vantaggiosa per 
											chi voglia mescolare le carte, 
											facendo dire all’altro se stesso ciò 
											che pensa realmente su temi delicati 
											come il sionismo, la questione 
											palestinese e la politica 
											israeliana.
											
											
											 
											
											
											Megafono di una visione 
											controcorrente è per l’appunto un 
											sosia idealizzato che riceve il 
											soprannome di Moishe Pipik. Moishe 
											Pipik è una specie di scherzo, una 
											personificazione grottesca che 
											collega la cultura alta con quella 
											popolare. Porta del resto il nome 
											del più grande profeta ma il suo 
											nomignolo prosegue con “Pipik”, che 
											è invece associabile all’ombelico. 
											Roth si riferisce presumibilmente 
											alla necessità di recidere il 
											proprio cordone ombelicale rispetto 
											a un’eredità psicologicamente 
											ingombrante.
											
											
											 
											
											
											Un’eredità che si esplica attraverso 
											il conflitto con la memoria e la 
											testimonianza. In tutta la 
											paradossale costruzione di 
											
											
											Operazione Shylock 
											c’è infatti del vero. Philip Roth 
											incontra e intervista effettivamente 
											lo scrittore Appelfeld, superstite 
											di un lager in Transnistria. 
											Interrogandolo sui significati del 
											suo libro, Badenheim 1939, 
											Roth riceve una risposta che è 
											cruciale per capire alcune delle 
											posizioni del Philip 
											Roth/MoishePipik: «Io ho sempre 
											amato gli ebrei assimilati, perché 
											era lì che il carattere ebraico, e 
											anche, forse, il destino ebraico, si 
											concentrava con la 
											
											massima forza».
											
											
											
											 
											
											
											L’intervista ad Appelfeld può essere 
											letta nel volume 
											
											Chiacchiere di bottega, 
											insieme al resoconto di analoghe 
											conversazioni, come quella avvenuta 
											con Primo Levi, nel 1986. L’Operazione 
											Shylock deve dunque essere 
											intesa, inoltre, quale bilancio sul 
											ruolo dell’intellettuale e sul 
											mestiere dello scrivere rispetto 
											agli eventi della storia e 
											dell’attualità. Gli incontri con 
											Appelfeld e Levi fanno parte di un 
											percorso sulle tracce della verità 
											che il romanzo approccia, 
											all’opposto, in una sequenza di 
											episodi tragicomici. 
											
											
											 
											
											
											L’altro frammento inequivocabile di
											Operazione Shylock è il 
											processo a John “Ivan” Demjanjuk, 
											cittadino americano accusato di 
											essere il boia di Treblinka. Un 
											procedimento iniziato a Gerusalemme 
											nel febbraio del 1987 a cui Philip 
											Roth, sulla scia di Hannah Arendt e 
											del caso Eichmann, assiste, a dire 
											il vero, solo occasionalmente. 
											Eppure, perfino la realtà del 
											tribunale non è immune all’essenza 
											nebulosa del “doppio” che aleggia 
											sull’intera narrazione.
											
											
											 
											
											
											Il Demjanjuk del 1988 si proclama 
											infatti vittima di uno scambio di 
											persona. Il Roth testimone delle 
											udienze studia con attenzione i suoi 
											movimenti, provando a scovare 
											qualche indizio: «Una volta 
											guardò gli spettatori con aria 
											indifferente, assolutamente in pace 
											con se stesso, muovendo la bocca in 
											modo quasi impercettibile come se 
											stesse masticando qualcosa. Una 
											volta bevve un sorso d’acqua dal 
											bicchiere che aveva sul tavolo. Una 
											volta sbadigliò. State processando 
											l’uomo sbagliato, proclamava quello 
											sbadiglio». 
											
											
											 
											
											
											In questa descrizione si coglie 
											peraltro una presunta “banalità del 
											male” che è in fondo simmetrica alle 
											impressioni ricavate dalla Arendt 
											nel suo resoconto del processo 
											Eichmann. Oltre alla banalità, 
											irrompe l’incertezza, volutamente 
											sospesa, di un Roth disposto quasi a 
											seguire le argomentazioni di 
											Demjanjuk: «Continuavo a 
											guardarlo, chiedendomi se, 
											nonostante tutto ciò che avevo letto 
											delle testimonianze contro di lui, 
											la sua pretesa di essere innocente 
											fosse vera; se i superstiti che lo 
											avevano identificato potevano tutti 
											sbagliarsi o mentire; se la carta 
											d’identità di guardia in divisa del 
											campo di concentramento, con la sua 
											firma in cirillico e la foto del suo 
											viso nel fiore degli anni, poteva 
											essere effettivamente un falso; se 
											le versioni contraddittorie dei suoi 
											movimenti come prigioniero di guerra 
											tedesco nei mesi in cui le prove 
											dell’accusa lo collocavano a 
											Treblinka, versioni confuse che 
											Demjanjuk aveva cambiato 
											praticamente a ogni interrogatorio 
											cui era stato sottoposto prima e 
											dopo l’imputazione ufficiale, non 
											potevano, tutto sommato, costituire 
											un 
											
											alibi credibile».
											
											
											
											 
											
											
											Demjanjuk viene dichiarato colpevole 
											nell’aprile del 1988, con relativa 
											condanna a morte. Il Philip Roth di
											Operazione Shylock, dunque, 
											sa come va a finire il processo. 
											Tuttavia, nel 1993, per coincidenza 
											proprio nell’anno di pubblicazione 
											del romanzo, il caso si riapre. La 
											Corte Suprema israeliana revoca la 
											condanna basandosi sulle 
											dichiarazioni di alcune ex-guardie 
											di Treblinka che assicurano che 
											presso il campo risultava impiegato, 
											come responsabile delle camere a 
											gas, un certo Ivan Marchenko e non 
											Demjanjuk. Quest’ultimo, dopo varie 
											traversie burocratiche, torna negli 
											Stati Uniti. 
											
											
											 
											
											
											L’ambiguità della vicenda permane. 
											Nel 2009, la Germania ottiene la sua 
											estradizione e Demjanjuk, quasi 
											novantenne, viene nuovamente 
											processato. L’imputato, questa 
											volta, è accusato di essere complice 
											d’omicidio,per un totale di 28.060 
											vittime, per i fatti relativi al 
											periodo in cui ha prestato servizio 
											come guardia SS a Sobibór. A 
											differenza delle udienze di 
											Gerusalemme, non viene attribuito a 
											Demjanjuk l’approccio feroce e 
											sadico di quell’”Ivan il terribile” 
											di Treblinka che era stato poi 
											ricondotto alla figura di Marchenko. 
											Questa impostazione porta alla 
											condanna di appena cinque anni di 
											detenzione che Demjanjuk nemmeno 
											sconta in attesa dell’appello. 
											Demjanjuk muore in una casa di cura 
											tedesca nel marzo del 2012, senza 
											che la sua posizione giuridica sia 
											mai stata definitivamente 
											ratificata. La complessità di 
											Operazione 
											
											Shylock 
											
											in qualche modo deborda nella 
											realtà. 
											
											
											 
											
											
											Un altro episodio reale emerge tra 
											le pagine del romanzo: l’omicidio di 
											Leon Klinghoffer, avvenuto l’8 
											ottobre del 1985 sull’Achille 
											Lauro, da parte dei militanti 
											palestinesi. Philip Roth racconta di 
											essere stato intercettato, sempre 
											durante il suo soggiorno a 
											Gerusalemme, da un antiquario di 
											nome Supposnik che gli lascia due 
											diari dei viaggi di Klinghoffer, 
											appunti intimi in cui si coglie “il 
											suo amore per Israele”, per “i 
											correligionari” e per la famiglia.
											
											
											
											 
											
											
											La richiesta è semplice: «Signor 
											Roth, l’introduzione alla prima 
											edizione americana del Diario di 
											Anna Frank 
											fu scritta da Eleanor Roosevelt, la 
											stimatissima vedova di colui che 
											durante la guerra era stato il 
											vostro presidente. Qualche centinaio 
											di parole della signora Roosevelt, e 
											le parole di Anna Frank sono 
											diventate un capitolo drammatico e 
											toccante nella storia delle 
											tribolazioni e della sopravvivenza 
											degli ebrei. Philip Roth può fare lo 
											stesso per il martire Klinghoffer».
											
											
											
											 
											
											
											L’autore/protagonista si vede 
											costretto a prendere i diari dalle 
											mani di Supposnik, e a tenerli con 
											sé, per paura che finiscano nella 
											disponibilità di Moishe Pipik che, 
											senza dubbio, li utilizzerebbe in 
											maniera strumentale per fomentare la 
											causa “diasporista”. È proprio la 
											strumentalizzazione il tranello in 
											cui Philip Roth non vuole cadere, 
											rifiutando la banalizzazione della 
											questione ebraica. 
											
											
											 
											
											
											
											Una confessione 
											è il sottotitolo di Operazione 
											Shylock. Si tratta di una 
											confessione per lo più fantasiosa, 
											se non spudoratamente falsa, a parte 
											ciò che di espressamente vero viene 
											rimarcato nella finale “Nota per il 
											lettore”. Ossia, la 
											conversazione/intervista con Aharon 
											Appelfeld, così come le frasi dette 
											in aula durante il processo a 
											Demjanjuk, tratte nello specifico 
											dai verbali dell’udienza mattutina 
											del 27 gennaio 1988 presso la Corte 
											Distrettuale di Gerusalemme. Si 
											presume pertanto che il riferimento 
											ai diari di Klinghoffer sia un 
											falso, usato appunto per esprimere 
											un certo fastidio per qualsivoglia 
											tentativo di usare le vittime ebree 
											in chiave propagandistica. 
											
											
											
											 
											
											
											D’altro canto, l’intera 
											Operazione Shylock, tra fiction, 
											realtà, narrazione romanzata e 
											postulazione saggistica,