CRONACA DI UNA PASQUA TRA GUERRE
E DAZI
Solidarietà o egoismo?
di Giovanna
D'Arbitrio
Guardando il cielo stellato di sera
ci viene spesso in mente ciò che
scrisse Dostoevskij nelle Notti
bianche: “Il cielo era stellato,
sfavillante, tanto che, dopo averlo
contemplato, ci si chiedeva
involontariamente se sotto un cielo
simile potessero vivere uomini senza
pace”. E la stessa domanda ce la
poniamo ammirando il trionfo della
primavera con piante e prati in
fiore, mentre guerre sanguinose
fanno strage di civili, in
particolare bambini, non rispettando
nemmeno i riti tradizionali della
Pasqua, simbolo di Resurrezione e di
Pace. Non ci sono tregue, negati gli
aiuti umanitari, colpiti gli
ospedali a Gaza, colpite perfino
persone che vanno in chiesa per i
riti della Domenica delle Palme in
Ucraina! E che dire delle guerre
dimenticate che mietono vittime ogni
giorno? È chiaro che ormai l’umanità
è giunta a un bivio di cui da anni
segnaliamo i pericoli legati alle
scelte che faremo: sceglieremo la
solidarietà o l’egoismo? La pace o
una guerra mondiale? Procederemo
insieme come fratelli in pace o
moriremo tutti insieme come stolti?
Lo disse anni fa Martin Luther King
in un famoso discorso.
E purtroppo ora, come se ciò non
bastasse, arriva anche la guerra dei
dazi nel tentativo trumpiano di
“smontare” i meccanismi della
globalizzazione, in verità
inizialmente certo non accettata
facilmente nei Paesi occidentali in
cui le socialdemocrazie avevano
elargito welfare, dignità e
diritti agli onesti lavoratori. Poi
iniziarono le delocalizzazioni in
Paesi del Terzo Mondo o in quei
Paesi in cui dittature e mancanza di
sindacati e di regole da rispettare
consentivano alti profitti e
riduzione dei costi. E ora ci
chiediamo, dopo aver accettato
sacrifici, dopo aver visto i nostri
figli partire dal Sud d’Italia verso
Paesi stranieri, come si fa ora a
ritornare al passato? Come si fa ora
a smantellare un sistema in cui
parti di varie merci vengono
prodotte in differenti Paesi e poi
viaggiano in tutto il mondo, dove
ormai sono poche le produzioni
nazionali che nascono e finiscono in
loco, mentre abbondano gli
“assemblaggi” qua e là? Sarà
difficile ora combattere una grande
potenza economica globale come la
Cina.
I manager che lavoravano nelle
aziende alla fine degli anni ’90
ricordano ancora un libricino
dell’americano Spencer Johnson Who
Moved My Cheese? (Chi ha
spostato il mio formaggio?),
pubblicato negli USA nel 1998 e in
Italia nel 2000 da Sperling & Kupfer:
una favoletta messa in giro dal global
village su due topi e due gnomi
costretti a cercare formaggio per
sfamarsi in un labirinto. Un giorno
non ne trovano più e mentre i due
topi si mettono in viaggio per
trovarlo altrove, gli gnomi non si
muovono, si disperano, perdendo
tempo e rischiando di morire. Un
chiaro invito a mettersi in viaggio
e cercare il lavoro in altri Paesi
per non morire di fame, illustrando
i vantaggi della globalizzazione,
basata su free trade e deregulation,
delocalizzazione della produzione di
merci in Paesi del Terzo Mondo e
consequenziali effetti di mobilità,
flessibilità, precarietà. Gli slogan
usati erano lean and mean, less
is more, cioè riduzione dei
costi all’osso con fusioni di
aziende e incremento dei profitti,
sfruttando risorse di vario genere
(incluse quelle umane) nei Paesi
poveri, sbattendo sul lastrico tanti
lavoratori in Europa a dispetto di
diritti faticosamente conquistati
nel tempo.
Di tutto ciò trattò nello stesso
periodo anche No Logo, un
saggio della giornalista canadese
Naomi Klein, pubblicato nel 2000 sul
fenomeno del branding, delle
tecniche di gestione del marchio e
delle sue ripercussioni sul mondo
del lavoro, nonché delle strategie
di risparmio con le
delocalizzazioni.
Di globalizzazione si occupò anche
Edgar Morin, pensatore poliedrico
che ha fatto del “tema della
complessità” il cardine dei suoi
studi. Morin auspica il ritorno a un
nuovo umanesimo attraverso un’etica
della fraternizzazione e un nuovo
assetto mondiale economico basato
sulla solidarietà terrestre. Nei
suoi libri come Sette lezioni sul
pensiero globale e tanti altri,
Morin afferma che dobbiamo
affrontare i nuovi problemi posti
alla convivenza umana da una
interdipendenza mondiale
irreversibile: una vera sfida, in un
periodo come quello attuale in cui i
principi fondativi della democrazia
e del vivere comune sono minacciati
e offesi e dove lo scontro tra
civiltà potrebbe essere possibile.
La nostra epoca non è certo
l’auspicata età dell’oro ma l’età
dell’incertezza; tuttavia, se
prenderemo atto delle nostre
fragilità esistenziali e sociali
ormai divenute planetarie, potremo
forse cogliere la possibilità di una
comunanza di destino e di una patria
terrena comune, poiché ogni cultura
non è fatta solo di aspetti
negativi, ma anche di qualità e
ricchezze.
“Mondializzare” dovrebbe dunque
significare favorire le cooperazioni
economiche, sociali e culturali,
mentre “demondializzare” potrebbe
significare valorizzare le vitalità
locali, regionali e nazionali:
secondo Morin bisogna “mirare alle
simbiosi culturali capaci di unire
ciò che ciascuna di esse ha di
meglio, operando una metamorfosi che
leghi in modo indissolubile l’unità
e la diversità umane”.
Sarà possibile tutto ciò oppure
moriremo tutti insieme come stolti,
come affermò Martin Luther King?