[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

197 / MAGGIO 2024 (CCXXVIII)


arte

Ragazzi di vita
Pier Paolo Pasolini E il reportage narrativo

di Riccardo Renzi

 

Una delle opere pasoliniane che meglio racchiude lo sperimentalismo linguistico pasoliniano, in particolare nell’uso del dialetto è senza dubbio Ragazzi di vita. Il romanzo si compone di otto capitoli attraverso i quali non emerge una vicenda né la storia di un solo personaggio, ma la rappresentazione della vita del sottoproletariato delle borgate romane, che secondo l’autore costituisce l’ultima rappresentanza sociale della vera e autentica italianità.

 

Nell’opera è narrata la vita di un gruppo di "pischelli" di Pietralata, quartiere dell’infernale periferia romana degli anni ’50. Il Riccetto, Marcello, Alduccio, il Caciotta, il Lenzetta, Genesio, il Begalone, il Pistoletta sono loro i “ragazzi di vita”.

 

Il Riccetto abita con la famiglia in una scuola divenuta centro di raccolta per sfollati. Vive come molti suoi coetanei di espedienti, aggirandosi nei bassifondi della città popolati di ladri, truffatori e prostitute. Si forma vivendo per strada e apprendendo dall’esperienza di vita attraverso furti di vario genere, il gioco d’azzardo e l’incontro con la prostituta Nadia. Riesce sempre a cavarsela tranne una volta in cui accusato di un furto non commesso viene condannato a tre anni di galera. Il Riccetto è capace però anche di slanci di generosità, come quando si tuffa nelle acque del Tevere col rischio di annegare per salvare una rondine. Nell’avviarsi alla maturità sceglie il lavoro e si integra nella società consumistica. Egli viene inglobato dalla società omologatrice del boom economico.

 

Gli altri ragazzi di vita, che nella seconda parte del romanzo acquistano maggiore risalto, sono destinati al carcere, alla prostituzione e alla morte precoce. Alduccio è alle prese con una famiglia disgraziata: padre alcolizzato, madre epilettica, sorella incinta con manie suicide. Marcello muore sotto le macerie di un edificio, Amerigo si uccide, il Begalone è gravemente ammalato. Il Piattoletta muore bruciato al palo della tortura durante un gioco feroce; Genesio, il più taciturno, annega nelle acque dell’Aniene.

 

Il Riccetto assiste alla tragedia, ma non interviene perché ora che ha un lavoro vuole evitare guai. Questi ragazzi sono gli ultimi “esemplari” di una società rurale/suburbana che stava scomparendo, poiché proprio in quegli anni si comprende come o ci si adegua alla nuova società, oppure si soccombe come “i ragazzi di vita”.

 

Pasolini iniziò la stesura del romanzo agli inizi degli anni ’50 e venne pubblicato nel 1955. Per comprendere però tale opera bisogna conoscere il rapporto dell’autore con il proletariato urbano, con il dialetto e con Roma. Partiamo però proprio da quest’ultimo punto. Roma, o meglio dire il rapporto con la città, è uno dei temi ricorrenti nella narrativa pasoliniana. Già nel 1957 Paolini stesso ha dichiarato sulla rivista La Fiera Letteraria come il rapporto con la città fosse alla base della sua narrativa: «Roma nella mia narrativa ha quella fondamentale importanza (...) in quanto violento trauma e violenta carica di vitalità, cioè esperienza di un mondo e quindi in un certo senso del mondo».

 

Quello di Pasolini con la Capitale è un rapporto intimo e carnale. Con Ragazzi di vita, egli ha cercato di porre più luce sulla realtà umana e sociale di un ceto trascurato, abbandonato quasi a se stesso, ma che in questo stato conserva la sua autenticità. Nel suo primo film, Accattone, Pasolini descrive Roma in un'intervista con parole che rivelano la causa di questa scrittura violenta: «A Roma, tuguri, disoccupazione, caos, bruttezza, centinaia di migliaia di persone che vivono con cinquantamila lire al mese. Io, coi miei occhi, verifico ogni giorno che Tiburtino, il Quarticciolo, Primavalle, Pietralata e mille altri quartieri sono gli stessi di dieci anni fa, la gente vive allo stesso modo di dieci anni fa».

 

In Ragazzi di vita, appare questo rapporto nella scelta di descrivere le avventure e le sventure di personaggi anonimi del popolo o della piccola borghesia romana, in una Roma moderna e un po' stralunata del primo decennio del dopoguerra; una Roma libera e insieme alienata; molteplice, vitale e insieme deturpata, piena di incontri, di imprevisti, di avventure, ma anche di rassegnazioni e di angosce.

 

Della città romana Pasolini privilegia la vita notturna delle prostitute, dei loro protettori e clienti, dei ragazzi di vita in quei luoghi non istituzionali come l'estrema periferia delle borgate; e dà maggiore importanza a una "società" ai confini, ai margini, fatta di faccendieri, profittatori, ingenui, prostitute, ecc. Solo partendo da tali presupposti è spiegabile la scelta del dialetto romanesco come lingua principale. Ciò che colpisce è la notevole padronanza del linguaggio delle borgate romane che l’autore ha studiato e maturato in soli cinque anni di vita nella Capitale. L’opera è in italiano, ma la struttura sintattica utilizzata è spesso quella del dialetto romanesco, con frequente impiego di parole e locuzioni dialettali e gergali. Infatti, è interessante ricordare come l’opera avesse in appendice un glossario. Esso si compone di una centinaia di parole nel gergo romanesco.

 

Prima però di continuare il nostro percorso all’interno dell’opera pasoliniana per far comprendere agevolmente al lettore l’operazione compiuta da Pasolini, è bene spiegare la differenza tra dialetto e italiano standard. L’italiano per secoli, a causa del suo prevalente utilizzo scritto, è stata una lingua stabile e poco soggetta a mutamenti. La lingua letteraria prevedeva una netta distinzione tra poesia e prosa, dunque si erano venute a creare due lingue standard scritte. Si aggiunga a tutto ciò che l’uso scritto consentiva una sostanziale e abbondante polimorfia.

 

Nel corso del Novecento sino ad arrivare ai giorni nostri, l’italiano si è andato allontanando da queste peculiarità della forma scritta, con la rinuncia alla polimorfia e l’abbandono di arcaismi poetici. A ciò si aggiunga il fatto che l’insegnamento scolastico, la diffusione dei mezzi di comunicazione e in parte il primo conflitto mondiale hanno contribuito alla diffusione di una lingua standard che nel corso del tempo è andata a levigare tutti i particolarismi dialettali regionali.

 

Dunque, si è andati e si sta andando sempre più verso una standardizzazione della lingua, ma cosa si intende con questo concetto? La lingua standard, semplificando molto, può essere definita come l’uso linguistico che l’intera comunità di parlanti riconosce come corretto, dunque il modello di lingua proposto dalle grammatiche, quello utilizzato dalle persone istruite sia nello scritto, che nel parlato.

 

Il dialetto è invece una varietà linguistica usata da abitanti originari di una particolare area geografica. Per prima cosa va sottolineato come il dialetto vero si differenzi dalle lingue regionali degli anni Sessanta del Novecento, quando, infatti, Pasolini ci parla di dialetto romanesco in realtà si riferisce alla lingua regionale. L’italiano regionale come specifica varietà dell’italiano è stato individuato con chiarezza negli anni Sessanta del Novecento da Giovan Battista Pellegrini, che individua quattro diverse tastiere che costituiscono il repertorio linguistico degli italiani:

- l’italiano letterario;

- l’italiano regionale;

- il dialetto regionale;

- il dialetto locale.

 

L’italiano regionale origina dall’incrocio della lingua nazionale con il dialetto e rappresenta una novità dialettale del nostro paese. Dal punto di vista linguistico i dialetti italiani e la lingua nazionale sono sullo stesso piano: entrambi hanno avuto la stessa "nobile" origine, cioè il latino.

 

Mentre dal punto di vista sociologico italiano e dialetti hanno un diverso ruolo: il primo è la lingua della comunicazione all'interno della Repubblica Italiana; mentre i secondi hanno uso più limitato, e, in qualche caso, si limitano persino all'uso famigliare.

 

Parlando di questi anni linguisticamente rivoluzionari, Pasolini prospetta una «rivoluzione nella storia dell’italiano, e l’annunciava usando il suo stile immaginoso; non è detto che un poeta non intraveda la verità meglio di un uomo di scienza, seppur in modo diverso». Pasolini si era reso immediatamente conto che stava nascendo una nuova tipologia di “italiano tecnologico” e che a livello regionale il nuovo italiano standard si stava andando a fondere con i dialetti locali, andando anche lì a generare una nuova tipologia di lingua regionale. Egli però si allarmò immediatamente per la perdita dell’espressionismo dialettale. La diffusione dell’italiano standard però aveva contribuito ad abbassare i dati sull’analfabetismo. Nel 1861 vi era in Italia il 75% di analfabeti; nel 1911 si erano ridotti al 40%; nel 1951 essi erano sotto al 14%, mentre nel 1961 erano solo l’8,3%.

 

Il dialetto e le lingue regionali continuarono però a essere sfruttati e il dialetto più sfruttato a livello cinematografico è il romanesco, essendo privo di caratteri formali molto spiccati, oltre a essere compreso facilmente da tutti gli italiani, tanto da poter essere considerato una sorta di parlata comune dell'Italia. Lo sfruttamento del romanesco a livello cinematografico lo ha preservato dalle erosioni e modificazioni linguistiche.

 

L’uso del dialetto per Pasolini si rivelava fondamentale per rappresentare più fedelmente la realtà osservata nelle borgate romane. Il romanesco era l'espressione linguistica vera e propria di questa realtà. Sarebbe stato impossibile produrre lo stesso effetto e ottenere la stessa efficacia mediante l’uso dell’italiano standard. Pasolini, non essendo romano di origine, appena giunto a Roma nel 1950 si dedica fervidamente allo studio dettagliato del gergo romano, prendendo numerosi appunti, per poterli sfruttare più tardi nel romanzo.

 

Dietro all’opera risiede un approfondito lavoro filologico, poiché Pasolini non si ferma alla lingua parlata allora nella periferia romana (lingua regionale), ma la ripulisce e va a ricostruire il dialetto romanesco più autentico. Un complesso lavoro di preparazione era di fatti necessario non soltanto perché lo scrittore era abituato a parlare parallelamente sia in italiano, che in dialetto friuliano, ma anche perché non apparteneva alla classe sociale descritta nel romanzo, cioè il sottoproletariato, ma invece alla borghesia. Questa è una discesa verso gli inferi, verso un mondo parallelo di cui la borghesia non è a conoscenza. Lo scendere al livello di un mondo culturalmente inferiore al suo, Pasolini lo spiega così: «Nell'immergersi nel mondo dialettale e gergale della "borgata" io porto con me una coscienza che giustifica la mia operazione né più né meno di quanto giustifichi, ad esempio, l'operazione di un dirigente di partito: il quale, come me, appartiene alla classe borghese, e da questa si allontana, ripudiando momentaneamente le necessità, per capire e far proprie le necessità della classe proletaria o comunque popolare».

 

Pasolini inoltre apprezzava tanto tale dialetto per la sua veridicità, lo sentiva più autentico e vivace di altri. Egli ha dedicato al gergo dialettale alcuni suoi studi giovanile nei quali lo considera sempre più nobile e autentico dell’italiano standard. Stando a Pasolini, si tratta della: «concrezione linguistica di una cultura inferiore, tipica di classi dominate a frequente contatto con le dominanti: servili e irrispettose; ipocrite e miscredenti; beneficiate e spietate. È la condizione psicologica di una plebe che è rimasta per secoli "irresponsabile"».

 

Per Pasolini il dialetto rappresentava l’ultima essenza pura presente sulla terra, poiché era parlato da gente semplice al di fuori delle dinamiche economiche del mondo capitalistico. C’è però un’altra questione che non va tralasciata legata alla scelta del dialetto, cioè che dai neorealisti era considerato l’unica modalità autentica per raccontare la realtà. L’opera di Pasolini va però oltre poiché si presenta, sotto alla veste del romanzo, come un reportage etno-antropologico, dunque il dialetto che va a utilizzare non è quello circoscritto del Lazio, ma quello delle borgate di Roma stessa. Questa fu una scelta coraggiosa, ma azzeccata per avvolgere di intenso realismo il quadro, per non disperdere la durezza e la disperazione. Quello che descrive Pasolini è un mondo di miseria, caotico, ove prevale sempre la violenza e dunque l’unico gergo che può realmente rappresentare tutto ciò è il romanesco di borgata.

 

L’assunzione da parte del narratore del gergo parlato come lingua ufficiale dell’opera rappresenta un forte e aperto richiamo all’uso verghiano di tale tecnica, inoltre l’utilizzo dell’indiretto libero, conduce a una regressione nei personaggi dello scrittore stesso, che ne imita il modo di parlare.

 

L’opera viene accolta immediatamente come qualcosa di scandaloso e fuori dalle righe e lo scrittore stesso è additato dal Consiglio dei Ministri come qualcuno di pericoloso, che sarebbe stato meglio far tacere, perciò il Consiglio invia il 21 luglio del 1955 un annuncio alla Procura della Repubblica, denunciando il libro per il suo supposto carattere pornografico.

 

L'annuncio è seguito dal processo, in cui l’intellettuale così rispondeva alle accuse il 4 luglio 1956: «Io non ho inteso fare un romanzo nel senso classico della parola, ho voluto soltanto scrivere un libro. Il libro è una testimonianza della vita da me vissuta per due anni in un rione a Roma. Ho voluto fare un documentario. La parlata in dialetto romanesco riportata nel romanzo è stata un'esigenza stilistica. Quando antropomorfizzo la cagna ho voluto dire che molte volte i ragazzi purtroppo conducono la vita come animali. Nel titolo "Ragazzi di vita" ho inteso dire ragazzi di malavita. Nel descrivere i tre ragazzi che fanno il bisogno materiale ho voluto richiamare quel pretesto che ogni ragazzo sorpreso a rubare negli orti mette in ballo, e cioè era andato solo per un bisogno. Nei dialoghi riportati ragiono con la stessa mentalità dei ragazzi che sono i protagonisti del romanzo; anche nei discorsi indiretti, pur essendo io a parlare, cerco di pensare con la mentalità dei ragazzi e riporto in modo indiretto le battute dei ragazzi. Intendevo proprio presentare con perfetto verismo una delle zone più desolate di Roma».

 

La posizione dello scrittore è più quella di un reporter che quella di un narratore, infatti non interferisce nel racconto, ma lascia scorrere la storia, come se fosse dietro una cinepresa: si sofferma sulla struttura del racconto, affidando a essa ogni responsabilità morale. Leggendo il romanzo si comprende come i personaggi narrino in prima persona le proprie disavventure.

 

Nell’opera si può parlare di quotidianità della disavventura. In essa è presente una quotidianità del male, un misto tra sfortuna, ambiente di provenienza e stratagemmi di sopravvivenza, che portano i protagonisti ad agire a fin di male, ma anche a farsi del male. Pasolini è sempre attento a ogni dettaglio, a ogni minuzia, carattere che verrà portato all’esasperazione nell’opera postuma Petrolio. Proprio come i veristi l’autore vuole raccontare la realtà nella maniera più rispecchiante possibile. Egli, infatti, vuole «dare voce diretta, non mediata dall'autore, a una classe sociale geneticamente esclusa dalla letteratura». Non si possono raccontare certi contesti e realtà omettendo la lingua utilizzata in quei luoghi e da quella classe sociale, poiché si rivelerebbe un reportage parziale, lacunoso e distante dal vero. Ecco dunque spiegata la scelta del romanesco e l’abbandono dell’italiano standard.

 

L’opera, come si è detto, nasce come un reportage neorealista, ma i caratteri narratologici sono del tutto differenti, poiché la narrazione è lineare e scorrevole. Gli interventi dell'autore sono scritti in italiano schematico e semplice: «E qua e là si vedevano le ombre delle ammaccature, color marrone nel centro e con intorno una coroncina di lenticchie, ch'erano botte prese forse quand'era ragazzino, o in gioventù, quando faceva il soldato o il manovale, cent'anni prima. E tutto come fuso dal grigiore del digiuno e del vino, più quello dei ciuffi della barbara di quattro giorni».

 

I personaggi parlano invece un romanesco di basso livello, che rispecchia perfettamente il contesto degradato di provenienza:

 

«Armandino fece "pzt" con la lingua alzando con aria di compassione le sopracciglia: – 'N c'ha manco n'anno", – disse.

- Mbè? – fece il Roscetto – Che deve da tené paura de n'antro cane?

- Ma quale paura, sì paura! Me fai rabbia me fai, – sbottò Armandino».

 

La grandezza di Pasolini sta nell’aver portate il mestiere, con le sue tecniche annesse, del reporter nella narrativa, andando a creare un’opera agile e scorrevole, che però racconta la realtà come un documentario sociologico e antropologico.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

M. Cerami, La voce di Pasolini: I testi, Feltrinelli, Milano 2007.

P. D’Achille, L’italiano contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 28-29.

C. Marazzini, Breve storia della lingua italiana, Il Mulino, Bologna 2004, p. 214.

P.P. Pasolini, Ragazzi di vita, Einaudi, Milano 1979.

P.P. Pasolini, in "La Fiera letteraria", n. 26, 30/6/ 1957.

P.P. Pasolini, Nove domande sul romanzo, in "Nuovi argomenti", n. 38-39, maggio-agosto 1959, p. 45.

P.P. Pasolini, in L. Martellini, Ritratto di Pasolini, Laterza, Bari 2006, p. 64.

P.P. Pasolini, Saggi sulla letterature e sull’arte, volume primo, Mondadori, Milano 1999, p. 696.

P.P. Pasolini: Cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Milano, Garzanti, 1977 (prefazione in:

P.P. Pasolini, Petrolio, Mondadori, Milano 2014.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]