Pasolini e il Potere
SCOMPARSA DELLE lucciole E DEL
pluralismo giuridico
di Riccardo
Renzi
L’opera di Pier Paolo Pasolini
conserva una forza analitica
straordinaria nell’indagare la
natura del Potere, soprattutto in
relazione ai suoi meccanismi
culturali, simbolici e giuridici. La
sua riflessione – apparentemente
ancorata all’Italia degli anni
Sessanta e Settanta – si rivela
invece profetica rispetto alle
trasformazioni globali della
contemporaneità. Questo articolo
esplora l’attualità della critica
pasoliniana alla società dei consumi
e al “neocapitalismo” omologante,
mettendola in dialogo con la
riflessione giuridica contemporanea
e con il paradigma del pluralismo
giuridico. In particolare, si
analizza la tensione tra diritto
calato dall’alto e diritto generato
“dal basso”, alla luce delle
intuizioni pasoliniane sulla
distruzione delle culture
particolaristiche e sull’egemonia
del Centro. Alla fine, ciò che
Pasolini chiama “tolleranza
repressiva” si presenta come il
volto moderno di una violenza
culturale che cancella la diversità
per imporre modelli unici e
centralizzati. La sua voce, ancora
oggi, illumina i sentieri oscuri in
cui si dibatte la giuridicità delle
nostre società.
Pier Paolo Pasolini è stato molto
più che poeta, cineasta o polemista:
è stato, soprattutto, un pensatore
radicale del Potere. Per Pasolini,
il Potere non si manifesta soltanto
attraverso le strutture visibili
dello Stato, ma agisce in profondità
come forza omologante, capace di
ridurre la complessità antropologica
e culturale a una semplificazione
funzionale al controllo.
A metà degli anni Sessanta, Pasolini
coglieva già l’inizio di una
mutazione profonda: una nuova forma
di dominio non più fondata sulla
repressione esplicita, bensì
sull’adesione volontaria e
totalizzante a un modello culturale
unico. In questo contesto, la
celebre metafora della “scomparsa
delle lucciole” assume un
significato simbolico fortissimo: il
buio che cala sulle lucciole è il
segno della sparizione di mondi e
culture altre, sommerse
dall’industrializzazione, dalla
televisione, dall’edonismo di massa.
Nel testo postumo Quasi un
testamento (1975), Pasolini
descrive il nuovo volto del
capitalismo: non più solo macchina
economica, ma vero e proprio
progetto antropologico globale.
Questo “neocapitalismo” non ha più
bisogno della violenza fisica: opera
attraverso la seduzione, la promessa
di benessere e la “tolleranza
repressiva” verso le differenze. La
sua strategia consiste nella
cancellazione delle culture
particolari, assorbite e
riorganizzate da un Centro che
impone i propri modelli come
universali.
La rivoluzione non è dunque solo
produttiva, ma infrastrutturale e
simbolica. Grazie alla televisione —
l’arma culturale per eccellenza
secondo Pasolini — il Centro riesce
a colonizzare le periferie, non con
carri armati ma con linguaggi, mode,
desideri. L’unificazione culturale
del mondo, lungi dall’essere una
conquista di civiltà, si configura
come una tragedia: un livellamento
che annulla la pluralità delle
esistenze.
La riflessione di Pasolini, se letta
con occhio giuridico, dischiude una
critica implicita ma potente al
diritto moderno come strumento del
Potere centralizzatore. La sua
visione è vicina a quella del
pluralismo giuridico, che si oppone
all’idea di un diritto unico, calato
dall’alto e legittimato solo dallo
Stato sovrano. Per Pasolini, la
distruzione delle culture subalterne
è anche distruzione dei saperi
giuridici locali, delle forme di
regolazione comunitarie, delle norme
nate “dal basso”.
In questa prospettiva, la “civiltà
contadina” amata da Pasolini – con
la sua allegria, la sua corporeità,
la sua ritualità – appare come
espressione vivente di un diritto
consuetudinario, incarnato,
comunitario. È proprio questo
diritto che viene annientato
dall’omologazione capitalistica. La
cultura giuridica che emerge dalla
società dei consumi è formalmente
democratica, ma sostanzialmente
autoritaria, perché fondata su una
adesione obbligata ai modelli del
Centro.
Il paradigma giuridico implicito in
Pasolini trova un’esplicita
teorizzazione negli studi di Paolo
Grossi sul pluralismo medievale. Per
Grossi, il diritto premoderno non è
comando, ma “ordinamento”: una forma
di vita giuridica che nasce dai
“fatti primordiali” della società –
terra, sangue, tempo – e si
struttura attorno alla consuetudine.
L’idea di diritto come “sentiero
battuto” – percorso creato dal
cammino collettivo di una comunità –
si oppone frontalmente alla visione
moderna, verticale e sovrana del
diritto.
Pasolini, come Grossi, ci invita a
riscoprire questi sentieri perduti.
Il suo rimpianto per un’Italia
contadina, dialettale,
differenziata, non è nostalgia, ma
denuncia: il nuovo Potere non ha
lasciato spazio a sopravvivenze
giuridiche autonome. L’adesione
totale ai modelli del Centro
comporta, per usare parole sue,
un’”abiura” culturale e giuridica:
le comunità non riconoscono più le
proprie norme, ma interiorizzano
quelle imposte dall’alto.
La critica pasoliniana risuona oggi
con rinnovata urgenza. In un mondo
globalizzato, attraversato da
migrazioni, crisi ecologiche, nuovi
autoritarismi e accelerazioni
tecnologiche, il dilemma tra
omologazione e pluralismo si
ripropone in tutta la sua
radicalità. Il diritto contemporaneo
è sempre più uno strumento di
governance, tecnicizzato, distante
dalla vita reale. Ma nei margini
della società, nei movimenti
sociali, nelle comunità locali,
emergono ancora esperienze
giuridiche vive, resistenti,
creative.
Rileggere Pasolini oggi significa
allora interrogarsi sulla
possibilità di un diritto che non
sia solo controllo, ma
riconoscimento; che non sia solo
comando, ma espressione di una
pluralità irriducibile di forme di
vita. In questo senso, Pasolini non
è un testimone del passato, ma una
voce che interroga il futuro.
Pasolini non fu un giurista in senso
accademico, ma seppe comprendere,
con lucidità tragica, la
trasformazione del diritto in
strumento del Potere culturale. La
sua opera – letteraria,
cinematografica, saggistica – è
attraversata da una domanda
giuridica fondamentale: come si può
vivere una vita libera, plurale,
differente, in un mondo che tende a
cancellare ogni alterità? Questa
domanda resta oggi più aperta che
mai. E forse, per tentare una
risposta, dovremmo tornare là dove
le lucciole ancora brillano. Se
esistono.