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filosofia & religione


N. 125 - Maggio 2018 (CLVI)

l'enigma parmenide

l'essere si fonda sulla tautologia?
di Chiara Bellucci

 

I presocratici sono stati i primi pensatori che hanno definito la filosofia come la ricerca del principio o arché, dal greco ρχή, che significa proprio “origine”. Questi filosofi naturalisti osservavano la realtà che li circondava e si chiedevano che cosa ci fosse dietro al molteplice spettacolo che la natura restituiva ai loro occhi di uomini indagatori.

 

Per Talete, il principio di tutto era l’acqua, per Anassimene l’aria, per Anassimandro, un principio indefinito ed indeterminato chiamato apeiron. Ora, per quanto l’acqua e l’aria non vadano intese come la molecola H2O o l’aria che si respira, tuttavia è ancora molto forte l’aggancio al mondo sensibile dal quale la filosofia di norma dovrebbe staccarsi. Anassimandro, in realtà, con il suo apeiron è già sulla buona strada, ma sicuramente chi fa centro, sempre entro certi limiti interpretativi, è Parmenide, fondatore della scuola di Elea, cittadina sita a sud di Paestum e ci siamo dunque spostati dalla Ionia al mondo magnogreco dell’Italia meridionale.

 

Con Parmenide la filosofia si distacca progressivamente dalla realtà sensibile, ma è altrettanto vero che il suo punto di forza è anche il suo punto di debolezza, dal momento che il pensiero di Parmenide è estremamente complesso e tutt’ora oggetto di studio, a tal punto che perfino studiosi geniali come Vittorio Hösle, posti di fronte all’enigma Parmenide, hanno confessato pubblicamente di non essere ancora riusciti a trovare la chiave interpretativa della sua speculazione.

 

La maggiore difficoltà risiede nella sua opera, un poema in esametri dal titolo Peri Physeos di cui possediamo significativi frammenti circa la prima parte ed esigue e criptiche porzioni riguardo alla seconda, che sono state, diciamo, additate come colpevoli dell’enorme problema esegetico della filosofia di Parmenide.

 

Il Peri Physeos che in italiano viene tradotto con “La Natura” è un’opera interessantissima, ricca di una simbologia di eco pitagorico, al punto tale che alcuni studiosi di Parmenide hanno perfino inscritto la scuola eleatica nel seno del pitagorismo, ma che necessiterebbe una trattazione a parte per essere letta esaustivamente nei suoi vari livelli.

 

Un sunto estremamente ridotto è che il poema di Parmenide racconta il viaggio di un uomo che “non sapeva” e che dall’ignoranza, viene condotto ad uno stato di conoscenza massimo, inteso come Verità, che secondo Parmenide, riflette la missione stessa del filosofo.

 

Parmenide ha la fortuna di compiere questa sorta di iniziazione alla Verità che lo conduce – dice questi – “di fronte al cuore della ben rotonda Verità”, quella che non fa tremare il filosofo. Qual è questa verità? - Che l’essere è e non può non essere.

 

Per tale affermazione, più tardi, Platone definirà Parmenide “venerando e terribile”, alludendo probabilmente alla fatica intellettuale di Platone stesso nel tentativo di colmare determinate aporie del pensiero parmenideo. Aristotele parlerà addirittura di maniai a proposito di alcune affermazioni di Parmenide e maniai in greco significa “follie”, cosa che ci fa pensare che qualche problema esegetico, Parmenide lo causò anche ad un grande logico come Aristotele.

 

Gadamer, ai giorni nostri, con l’acume che lo ha sempre contraddistinto, per cercare di rendere comprensibile la massima parmenidea, ha costruito un intelligente parallelismo tra l’affermazione che l’essere è e la domanda tipica del fisico posto di fronte all’uovo cosmico. Se tutto si è generato dal big bang, prima del big bang che cosa c’era?

 

I Greci naturalmente non credevano alla creazione nel tempo, aspetto che ha comportato non pochi ostacoli di rilettura ai filosofi cristiani. Parmenide, perciò, essendo greco, la vedeva in questo modo: l’essere è ingenerato e dunque eterno, perché se qualcuno lo generasse, allora vorrebbe dire che prima non c’era e una tale posizione non può essere né detta, né tantomeno pensata.

 

Ma chi è l’essere o che cos’è l’essere? A primo impatto siamo naturalmente portati, per via della nostra cultura cristiana, ad associare l’essere parmenideo a Dio, ma non è corretto nella sostanza perché stiamo interpretando religiosamente il pensiero di un uomo greco e non cristiano tra l’altro.

 

Parmenide dice che l’essere è eterno e ingenerato, perché se fosse stato generato, tale stadio avrebbe implicato una zona di non-essere, ma allora, il mondo in cui viviamo, dove tutte le cose si evolvono, cambiano faccia e poi muoiono, equivale al non-essere? È una questione complessa. Naturalmente deve esserlo. È un concetto difficile perché estraneo al senso comune.

 

Il concetto di essere o intuizione dell’essere, come in Eraclito, che parla di un atto dell’intelletto in grado di cogliere l’essere, nega di fatto la realtà percettiva. Con i sensi non arrivi all’essere ed è straordinaria la definizione di Vittorio Hösle che descrive il pensiero di Parmenide come una gigantesca offesa al senso comune, evidenziando, però, che la filosofia nasce proprio da tale offesa.

 

La grandezza di Parmenide è di aver posto l’essere come pensiero che si autonomizza, processo ben diverso dalla duplicazione. Essere e pensiero sono la stessa cosa, perché se ci fosse una duplicazione, avremo due esseri.

 

Ciò che non esiste non può neanche essere pensato. Sarebbe solo un inutile sforzo intellettuale, da cui il calzante parallelismo di Gargano a proposito dell’associazione essere/pensiero e la ricerca del flogisto che ha prepotentemente caratterizzato la scienza tra 1600 e 1700. Uno studio enorme per ricercare l’elemento principe che doveva spiegare i fenomeni di combustione, che poi alla fine si è scoperto non esistere affatto, tanto che nella tavola periodica degli elementi di Mendeleev il flogisto non c’è.

 

All’essere e alle sue caratteristiche strutturali che sono ben esplicitate in ogni manuale di storia della filosofia che si rispetti, si arriva tramite il pensiero, ammettendo anche ragionamenti per assurdo, che Parmenide sicuramente aveva ripreso dai matematici pitagorici, applicandoli con ardore e maestria al piano esclusivamente ontologico.

 

Ciò ha portato alcuni studiosi a vedere in Parmenide il padre dell’ontologia, ovvero la scienza dell’essere privo delle sue determinazioni particolari, che legittima uno spostamento sugli enti dei presocratici (ta onta in greco) all’ente per antonomasia (to on in greco).

 

La questione è in realtà più complessa anche perché la parola ontologia compare nel vocabolario filosofico solo nel 1600 grazie a Jacob Lorhard, ma al giorno d’oggi, per convenzione, l’ontologia viene considerata una branca della metafisica, scienza che si interroga sulle strutture ultime e sulle cause supreme delle cose.

 

Del resto era inevitabile la commistione. Se l’intelligenza umana contiene tante idee: casa, gatto, telefono, tavolo, ecc, è solo l’intelletto che mi porta a dire è casa, è gatto, è telefono. L’essere viene logicamente prima anche se cronologicamente dopo, se ci pensiamo. Dunque, con la fisica non mi spiego l’essere e sono costretto a passare in metafisica per forza di cose.

 

Sembra apparentemente un’aporia, ma grazie ad Aristotele con il suo concetto di sinolo e a Tommaso nella sua versione cristiana di sinolo, la contraddizione viene progressivamente a scomparire.

 

Altri studiosi hanno invece considerato l’essere di Parmenide un costrutto logico grammaticale atipico, dal momento che spicca nel testo greco quell’ στί, terza persona singolare del presente indicativo del verbo “essere”, che resta sospeso e che potenzialmente può riempirsi con qualsiasi soggetto.

 

Ragionando in lingua italiana ciò è assolutamente vero, ma le capacità espressive del greco, di gran lunga superiori all’italiano, consentono di sottintendere il Tutto come soggetto.

 

Eccoci di fronte ad un problema di linguaggio. Affermare che l’essere predica se stesso è una tautologia e ancora una volta, se non ci fosse stato Vittorio Hösle che si è a lungo occupato anche di Parmenide, la questione della tautologia ci avrebbe bloccati. Vittorio Hösle sostiene che la tautologia non deve necessariamente essere considerata malefica. Spostiamoci infatti dal linguaggio ad un puro rapporto di logica formale.

 

Il rapporto tra assiomi e teoremi della matematica è di tipo tautologico, fa notare Vittorio Hösle. Se valgono gli assiomi, valgono i teoremi, cioè senza assiomi, ovvero definizioni generali autoevidenti, non posso dimostrare la veridicità dei teoremi. Tutte le affermazioni vere e dimostrabili nell’aritmetica relativamente ai numeri primi, ad esempio, derivano dai 5 assiomi di Peano.

 

Però come si fa a dimostrare la validità delle 5 definizioni generali di Peano? Non lo posso dimostrare, ma sugli assiomi fondo e dimostro i teoremi.

 

Allora gli assiomi sono tautologie? Sì lo sono, eppure sono tautologie che fondano conoscenze matematiche superiori.

 

Nel caso di Parmenide la tautologia del costrutto l’essere è e il non-essere non è, risulta fondativa dell’ontologia stessa.

 

Da una tautologia, Parmenide, inconsapevolmente, ha costruito la sua fortuna e in un certo senso ha aperto la strada al principio di non contraddizione di Aristotele e di identità per formula inversa.

 

Vittorio Hösle è stato molto illuminante a proposito, ma ritorna subito il buio quando il rigido monismo di Parmenide si scontra con il mondo reale. Se la realtà è soggetta al divenire, mutando un dato ente da A a B, per forza di cose, occuperà uno spazio di “non-essere” durante la mutazione, spazio situato tra A e B, che porterebbe a considerare “nulla” l’intero mondo in cui viviamo. Se la realtà è non essere, allora l’uomo è niente e la nostra vita è niente. La vita dell’uomo su questo pianeta è zero assoluto.

 

Dunque ogni cosa della realtà non esiste, eppure se mi affaccio dal balcone di casa vedo gli alberi del mio giardino. Quindi che cos’è ciò che vedo?

 

Bisognerà aspettare i giganti sintetici come Platone e Aristotele per colmare l’aporia generata da Parmenide, dal momento che la seconda parte del poema, dove Parmenide si occupava della realtà sensibile o mondo dell’opinone (doxa in greco) ci è giunta incompleta e ciò di cui si dispone è altamente criptico.

 

Il problema delle doxai rimane aperto e finisce per costituire quel muro dove inevitabilmente si scontrano i sistemi di pensiero monistici come quello di Parmenide che è naturalmente un forte pensatore.

 

Nel poema di Parmenide ovunque riecheggia la parola “bisogno” o “necessità” e perciò la sua filosofia risponde ad un rigido determinismo. Sicuramente Parmenide ha riconosciuto una qualche validità ontologica agli enti, magari separando opinioni assolutamente false ed opinioni probabili, ma nell’ambito del suo sistema speculativo, il rapporto tra verità e opinione è rimasto aperto.

 

L’ultimo Platone attraverso la teoria dei generi sommi di cui si servì per revisionare la sua dottrina delle idee, evidenzia la distinzione tra un essere relativo e un essere assoluto. Pertanto gli alberi che vedo quando mi affaccio dal balcone di casa, sicuramente non sono l’essere parmenideo, ma contengono parte di quell’essere, che in Platone significa partecipazione della forma o idea alla cosa. Così, contenendo o partecipando alla forma “Albero”, inteso in quanto alberità, gli alberi del mio giardino “sono”, nel senso che ontologicamente esistono.

 

Aristotele chiarì ulteriormente la questione attraverso la teoria del sinolo per risolvere il dualismo platonico idea/cosa, spostando la forma platonica dall’iperuranio all’interno della cosa stessa. Dunque la forma non è trascendente alla cosa ma immanente ad essa: la forma è ragione d’essere della cosa.

 

Il discorso sarebbe molto più lungo, anche perché conoscere Platone e Aristotele significa familiarizzare con i concetti base sui quali il pensiero filosofico occidentale si sarebbe costituito in futuro, tramite l’addizionale apporto concettuale di quella rivoluzione chiamata “Cristianesimo”.

 

Vorrei invece concludere brevemente con due righe inerenti al rapporto tra scuola di Elea, cioè Parmenide e la scuola di Efeso, ovvero Eraclito. Per un discorso di didattica invalsa, l’impostazione comune della maggior parte dei manuali scolastici evidenzia una contrapposizione tra Eraclito come filosofo del divenire e Parmenide come filosofo dell’essere e della staticità.

 

Eraclito è un pensatore particolarissimo che sotto certi aspetti ha avuto intuizioni che rimandano addirittura a Nietzsche, altro pensatore elitario ed anti-democratico, però spesso e volentieri, facendo di Eraclito il filosofo del “movimento”, si finisce con il non considerare l’effettiva portata di determinati aspetti del suo pensiero, come la dottrina dei contrari, ad esempio.

 

È chiaro che i manuali devono adottare strategie funzionali per aiutare i ragazzi a memorizzare i punti salienti del pensiero di filosofi complessi associandoli a qualcosa di semplice. L’impostazione tutto sommato è giusta, specie tenendo presente che tanto Eraclito quanto Parmenide sono filosofi molto difficili da metabolizzare.

 

Fermo poi restando che la didattica scolastica della filosofia segue la direttiva hegeliana per cui filosofia è storia del pensiero degli uomini, ciò che ad un universitario magari sembra rigidamente schematico: Parmenide (essere), Eraclito (divenire), invece per un ragazzo di 16 anni che per la prima volta si affaccia allo studio della filosofia, non è completamente errato.

 

Insomma, si esce fuori da ogni rigido schematismo che potrebbe far pensare ad una battaglia ideologica tra Eraclito e Parmenide, se partiamo proprio dalla massima di Eraclito “tutto scorre”. Naturalmente dire che tutto scorre avrà portato Eraclito a percepire il movimento in modo relativo a qualcosa che non è in movimento. In sostanza, per parlare di movimento, avrò necessariamente bisogno di un riferimento fisso per poter dire “questa cosa si muove”.

 

Quindi e con ciò concludo, quando Eraclito sostiene che tutto scorre, cambia e si trasforma, intende anche affermare che dietro il molteplice, probabilmente, c’è qualcosa che non cambia, né si trasforma.

 

 Ecco come in maniera semplice abbiamo in parte già accorciato la distanza tra Parmenide ed Eraclito, che sono un po’ le facce di una stessa medaglia, con la differenza che, il primo si è occupato di essere assoluto, il secondo, per dirla alla maniera aristotelica, si è invece concentrato sull’essere in termini di “movimento”, settore, che appunto, per Aristotele appartiene a quella scienza specifica che lo Stagirita chiama “fisica”.

 

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Riferimenti bibliografici:

 

A. Gargano: F. Albergamo, A. Gargano, Il pensiero filosofico e scientifico nell’antichità e nel medioevo, la Città del Sole Editore, Napoli 2005;

N. Abbagnano, G. Fornero, Figure della Filosofia, Volume A, Paravia editore, Milano,1999;

E. Severino, La Filosofia dai Greci al nostro tempo, Volume 1, Bur Saggi, Milano 2015.



 

 

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