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STORIA & SPORT


N. 13 - Gennaio 2009 (XLIV)

C'ERA UNA VOLTA LA PARIGI-DAKAR
Storia della competizione motoristica più estrema e criticata

di Simone Valtieri

 

C’era una volta la Parigi-Dakar, perché oggi non c’è più.

 

Dopo le serie minacce ricevute dai terroristi islamici a pochi giorni dalla partenza del rally 2008 e il conseguente annullamento della manifestazione, tutta la carovana si è spostata in Sud America, pronta a ripartire il 3 gennaio del 2009.

 

Il nuovo rally si sviluppa per quasi diecimila chilometri tra Argentina e Cile, ed è annunciato, dal direttore di gara Etienne Lavigne, come la più grande edizione della storia trentennale della “Dakar”, tra le proteste annunciate dei proprietari terrieri della Pampa.

 

Ma si può chiamare “Dakar” una corsa che non si svolgerà più tra le dune del deserto del Sahara e tra i tortuosi percorsi dell’Africa settentrionale?

 

Forse bisognerebbe trovarle un nuovo nome, o forse, più coerentemente, bisognerebbe non correre più una gara che nella sua storia ha mietuto, tra piloti, addetti ai lavori e pubblico, ben 54 vittime, seconda solo, in termini di pericolosità, al motociclistico Tourist Trophy, che detiene il non invidiabile primato di 226 morti.

Il fascino della competizione estrema ha però sempre spinto gli uomini verso nuovi traguardi e la Dakar di fascino, non si può negare, ne ha da vendere.

 

La sfida, da sempre svoltasi tra i magnifici scenari del continente nero, ha attirato nella sua storia nugoli di appassionati provenienti non soltanto dal mondo dei motori, vogliosi di cimentarsi in una gara dura, in una lotta contro il tempo ma soprattutto contro i limiti umani e meccanici dei mezzi; una corsa che da trent’anni viaggia su quella sottile strada che separa il coraggio dall’incoscienza.

 

Ogni concorrente iscritto conosce i rischi che corre e sa che il deserto può non lasciare scampo, con le sue tempeste improvvise, con le sue trappole disseminate in ogni metro del percorso, con il suo caldo torrido e con le sue notti gelide. Inoltre nelle cosiddette tappe “Marathon”, quelle più lunghe, sono vietati l’assistenza esterna (in pratica si deve essere non solo piloti ma anche bravi meccanici) e, fino a qualche anno fa, i dispositivi satellitari per orientarsi. Allora perché rischiare così tanto?

 

Probabilmente non ha senso per i più, ma ha senso per coloro i quali vi partecipano e ne fanno, da decenni, una ragione di vita. Provando dunque a non giudicare, o più precisamente sforzandoci di accettare le ragioni che spingono i piloti ad affrontare una competizione così pericolosa, andiamo a rivivere la sua affascinante storia.

Cos’è, intanto, la Parigi-Dakar?

 

Questa corsa, che meglio sarebbe chiamare “Raid Dakar”, in quanto il suo percorso è diventato vario e mutevole di edizione in edizione, è una competizione per vetture a quattro e due ruote, da sempre disputatasi nel mese di gennaio.

 

è un rally estremo, che si sviluppa su terreni a volte simili, ma il più delle volte troppo duri, rispetto a quelli affrontati dalle “normali” vetture WRC (quelle che partecipano al Campionato Mondiale Rally) e che dura in tutto tre settimane.

 

Il vecchio nome Parigi-Dakar era stato dato, come si intuisce, in virtù del fatto che la partenza era stabilita nella capitale francese, mentre l’arrivo in quella senegalese. Così è stato per un quindicennio, fino al 1995, anno dal quale il percorso ha iniziato ad essere modificato di volta in volta.

La corsa nasce su idea del francese Thierry Sabine, che nel 1977, durante il rally estremo tra Abidjan e Nizza, si perse, rimanendo tre giorni nel deserto del Ténéré prima di essere tratto in salvo.

 

è in quei tre giorni solitari che Sabine matura la decisione di provare ad organizzare una corsa ad orientamento, con partenza dalla sua amata Parigi. Il sogno diventa presto realtà quando, nel giorno di Santo Stefano del 1978, numerosi equipaggi, dotati esclusivamente di rudimentali bussole, sono pronti a partire dall’ombra della Torre Eiffel alla volta della capitale del Senegal.

 

La prima Parigi-Dakar è un successo. Non tanto per quello che riguarda l’organizzazione del rally, ancora grezzo e caratterizzato da innumerevoli problemi tecnici (tanto che i primi sette motociclisti classificati di quell’anno si persero andando a finire in una miniera d’uranio), quanto per l’entusiasmo che riesce a generare soprattutto nei partecipanti.

La grande visibilità internazionale viene data al rally soprattutto da un episodio. Nel 1982 tra gli iscritti c’è anche Mark Thatcher, figlio del primo ministro britannico, Margaret Thatcher.

 

Mark si perde nel deserto, emulando in un certo qual modo l’episodio accaduto a Thierry Sabine e venendo ritrovato anch’esso dopo tre giorni. La vicenda ebbe un clamoroso risalto sulla stampa e sulle televisioni di tutto il mondo, dando così grande visibilità alla giovane manifestazione.

 

Mark non è stato che uno tra i primi partecipanti al rally non proveniente dal mondo dei motori. Il caso più clamoroso è quello di Luc Alphand, vincitore di una coppa del mondo di sci e trionfatore dell’edizione 2006 della Dakar.

 

Personaggi provenienti dal mondo dello spettacolo hanno invece avuto meno fortuna, come il famoso rocker francese Johnny Halliday o l’attore italiano Renato Pozzetto, entrambi relegati nelle retrovie.

 

Bisogna comunque sottolineare che la Dakar è da sempre stata una corsa aperta a professionisti ma anche e soprattutto a privati amatori che ad oggi rappresentano circa l’ottanta per cento degli equipaggi iscritti e per i quali la gioia più assoluta consiste nel portare a termine la gara.

Molti, inoltre, sono stati i concorrenti nella storia della Dakar a provenire da altre discipline motoristiche lontane dal mondo dei raid estremi.

 

è il caso di cinque campioni di Formula 1, come Jackie Ickx, Clay Regazzoni, Patrick Tambay, Henri Pescarolo e Jacques Laffite che si sono cimentati tra la sabbia e le rocce africane con alterni risultati.

 

Il migliore è stato senza ombra di dubbio il belga Ickx, che riesce ad affermarsi nel raid del 1983 e a concludere altre due volte al secondo posto, mentre il più sfortunato è di sicuro il francese Laffite, che nel 1989 si perde sulla tangenziale di Parigi e arriva in ritardo alla partenza venendo squalificato prima ancora di iniziare la gara.

 

Altro evento da sottolineare è la prima vittoria di una donna in una corsa da sempre aperta a sfide al femminile, da quando già nella prima edizione ben tre centaure riuscirono a terminare la corsa. Nel 2001 la tedesca Jutta Kleinschmidt, che già aveva partecipato al rally su una moto, si afferma tra le auto con la sua Mitsubishi precedendo i colleghi maschi e collezionando nella sua carriera altri tre podi.

Di pari passo con i primi successi cominciano i primi drammatici incidenti. Già nel 1979 perde la vita il motociclista Patrick Dodin, mentre tentava di allacciarsi il casco che gli si era allentato. Quello sarà l’inizio di un tragico bollettino che conterà alla fine 24 morti solo tra i piloti.

 

Il 14 gennaio 1986 a morire è il fondatore stesso della manifestazione, Thierry Sabine, insieme agli altri quattro componenti dell’equipaggio mentre seguiva la corsa dall’elicottero della direzione di gara, precipitato ai confini del Niger.

 

L’incidente, dovuto probabilmente a un’improvvisa tempesta di sabbia, rimarrà quello col più tragico bilancio nella storia della Dakar. Le ceneri di Sabine saranno sparse sotto il celebre “albero perduto”, vicino a dove smarrì la strada una decina di anni prima. In quella edizione perde la vita anche il motociclista giapponese Yasuo Kaneko, investito da un’automobilista. Sarà la più tragica Dakar della storia con sei morti.

 

Nonostante le sempre più restringenti misure di sicurezza e l’adozione del sistema Gps di navigazione per evitare che i piloti finiscano fuori percorso ed evitino rischi inutili, gli incidenti non sono mai diminuiti.

 

Gli ultimi a lasciarci la pelle sono stati nel 2005 lo spagnolo Josè Manuel Perez e l’italiano Fabrizio Meoni, quest’ultimo già vincitore di due Dakar, e nel 2006 l’australiano Andy Cadelcott. L’insidia, in un rally del genere, è sempre dietro l’angolo: una duna troppo ripida, una roccia sporgente, una mina abbandonata sotto terra.

Quando infatti il pericolo non è riconducibile all’asprezza del tragitto è l’uomo che ci mette lo zampino. Il percorso del raid, nonostante venisse modificato ogni anno a seconda delle varie situazioni politiche dei paesi da attraversare, si è sempre svolto in un territorio, quello africano, disseminato di conflitti, bande di predoni, guerriglieri, militari.

 

Nel 1991, ad esempio, Charles Cabannes, pilota francese di un camion d’assistenza, viene ucciso da un proiettile vagante partito dal fucile di un militare nel Mali. Nel 1998 due camion iscritti alla competizione furono addirittura sequestrati dai predoni, che spararono coi kalashnikov sugli altri concorrenti che passavano. Per evitare situazioni analoghe nel 2000 viene organizzato un ponte aereo per evitare il Niger. Nel 2003 invece un camion di assistenza della KTM è saltato su una mina al confine tra Libia ed Egitto, incidente dal quale l’equipaggio è uscito miracolosamente illeso.

Non si conta il numero degli incidenti, non solo mortali, che ogni edizione avvengono durante il percorso. Il caso più celebre è quello di Hubert Auriol, già vincitore della corsa in sella a una BMW nell’81 e nell’83, che cade rovinosamente nell’edizione ’87 spezzandosi entrambe le caviglie. Auriol tornerà però a disputare una Dakar su auto e vincerà nel 1992, riuscendo a diventare il primo pilota a trionfare nel massacrante rally, sia su due ruote sia su quattro.

 

Il secondo a riuscire nell’intento sarà Stephane Peterhansel, che, risultati alla mano, si può considerare il vero re della Dakar. Il francese vince cinque volte su Yamaha tra il 1991 e il 1998, prima di passare alla Mitsubishi con cui trionfa tra le macchine nel 2004, 2005 e 2007.

 

A tentare l’impresa furono comunque altri bravi piloti, tra cui Edi Orioli, italiano di Udine, che si afferma quattro volte nelle moto e tenta l’impresa, senza gloria, anche sulle quattro ruote. Orioli resta uno tra i più affermati motociclisti della Dakar, battuto per numero di vittorie nelle moto, solamente dal già citato Peterhansel, con cui ha dato vita a memorabili sfide, e dal francese Cyril Neveu, anch’esso con cinque affermazioni.

Come detto, il percorso cambierà numerose volte, anche se per un buon periodo di tempo verranno mantenute fisse, con poche eccezioni, città di partenza e di arrivo. Il rally transiterà per i primi anni dall’Algeria, prima di doverla abbandonare a causa della instabile situazione politica di quel Paese.

 

Si sceglieranno quindi percorsi alternativi di accesso ai porti africani (infatti dopo i primi giorni di gara in terra europea, tutti i concorrenti venivano trasferiti via mare o via cielo sulle coste del Maghreb), quali Tunisi e Tripoli.

 

Nell’edizione del 1992 la carovana attraverserà non soltanto l’Africa settentrionale, ma anche parecchi stati centrali e meridionali terminando la sua corsa a Città del Capo. E’ nel 1995 che si cambia città di partenza: Granada, in Spagna, per due anni.

 

Nel 1997 il percorso esclude l’Europa e la partenza è da Dakar con giro di boa ad Agadez e arrivo ancora a Dakar.

 

Da qui in poi, tranne nel 2000 (Dakar-Cairo) e nel 2003 (Marsiglia-Sharm El Sheikh), si cerca di mantenere la tradizionale città di arrivo in Dakar e si varia di anno in anno la sede della partenza: Parigi, Granada, Arras, Marsiglia, Clermont-Ferrand, Barcellona, Lisbona. Il tutto fino alla cancellazione del 2008 e alla decisione degli organizzatori di spostarsi in Sud America con arrivo e partenza da Buenos Aires.

Con questo nuovo tragitto si perdono peculiarità e luoghi storici della Dakar. Non si passerà più, ad esempio, tra vecchi villaggi, dune sabbiose o davanti a tribù di nomadi col chech in testa, tipico copricapo in cotone che appare stilizzato anche nel logo della manifestazione.

 

Si abbandona il deserto del Ténéré, luogo simbolo dove spesso si transitava davanti allo storico “Albero del Ténéré”, in realtà un totem in metallo eretto al posto del vecchio albero abbattuto da un camionista ubriaco.

 

Non si rischierà più di incontrare sulla propria strada mandrie di cammelli (magari sostituiti dai lama…), ma d’altra parte si ridurranno di molto i rischi di attentati e rappresaglie, sempre paventati durante tutta la storia della manifestazione.

 

Si perderanno in ogni caso i luoghi che hanno fatto la leggenda dei piloti più vincenti, come Ari Vatanen, finlandese che vinse quattro edizioni del raid, o dei vari Jean Louis Schlesser, Pierre Lartigue, René Metge e Hiroshi Masuoka tra le auto, Gaston Rahier, Richard Sainct, Cyril Despres, Nani Roma oltre ai già citati Orioli e Neveu tra le moto, senza dimenticare il re indiscusso di entrambe le categorie Stephane Peterhansel, o i plurivincitori nella durissima categoria dei camion, come il ceco Karel Loprais, sei vittorie, e il russo Vladimir Chaugine, cinque.

Le marche che hanno vinto più edizioni sono la Mitsubishi tra le auto, con dodici affermazioni, la Yamaha tra le moto, con nove vittorie, sebbene tutte e sette le ultime edizioni siano state vinte da piloti in sella a una KTM, e la Kamaz, con sette successi tra i camion. Vincere un Raid Dakar per queste case costruttrici significa non soltanto prestigio, ma anche visibilità e maggiori vendite, motivo per cui molte importanti aziende si cimentano nella tortuosa gara orgogliosi di vendere al pubblico auto che, se sono riuscite a vincere la Dakar, sono adatte per ogni genere di percorso.

Restano comunque nei libri di storia, imprese e aneddoti di quasi trent’anni di corsa africana: nel 1988 venne rubata la Peugeot 405 di Vatanen, leader della corsa, da un garage di Bamako, salvo poi riapparire successivamente, suscitando sospetti di furti organizzati per apportare delle riparazioni, vietate dal regolamento. L’episodio, volente o nolente, costerà col senno di poi a Vatanen, il record di cinque affermazioni.

 

L’edizione di quell’anno sarà poi vinta dal campione mondiale di rally e connazionale Juha Kankkunen. L’anno dopo è celebre l’episodio della monetina da 10 franchi usata da Jean Todt, allora manager Peugeot, per decidere quale dei suoi due piloti, tra lo stesso Vatanen e Jackie Ickx, dovesse avere la precedenza sull’altro in caso di arrivo appaiato. La sorte questa volta arrise al finlandese che vincerà la sua terza Dakar.

 

Curioso anche l’episodio che vide protagonista nell’81 Cyril Neveu. Il centauro francese rimase a dir poco stupito nel vedere, issata su un totem in un villaggio, una motocicletta Yamaha. Era lo stesso mezzo abbandonato in panne nel deserto l’anno prima dal connazionale Marelle e ritrovato dagli abitanti della zona che la elessero a divinità.

Si perderanno anche i cosiddetti balise, dei segnali che potevano essere un palo, un cippo, una gomma, posti in mezzo al nulla del deserto per orientarsi, quando ancora il Gps era vietato dal regolamento. Balise è anche diventato il nome della piccola trasmittente in dotazione ai concorrenti, da attivare solamente in caso di emergenza, pena la squalifica. Nelle ultime Dakar comunque, per dare valore ai piloti dotati di miglior senso di orientamento, sono state organizzate alcune tappe “Marathon” particolari, dove il segnale Gps veniva criptato ed era consentito, per la felicità dei romantici, il solo utilizzo della bussola.

La Dakar va dunque in archivio nel 2007, come già detto a causa delle minacce dei terroristi l’edizione del 2008 non si è disputata.

 

Quella che comincia il 3 gennaio 2009, sebbene il nome sia lo stesso, è un’altra corsa. Anch’essa rischiosa, dura, forse osteggiata e contestata, ma che non potrà mai avere in sé le caratteristiche di pericolosità, la bellezza dei paesaggi e il senso di avventura assoluto che il raid africano ha avuto ogni anno.

 

A chi ha sempre contestato una manifestazione tanto pericolosa lo stesso Thierry Sabine rispondeva fatalista: “C’est la Dakar”, come a dire, prendetela com’è.

 

La Dakar è una sfida al mondo e ai propri limiti, è provare emozioni forti e profonde, è il “succo della vita”, secondo Ciro De Petri, che di Dakar ne ha disputate undici in sella a una moto, aggiungendo che proprio per questo suo non seguire una strada predefinita “la Dakar è sinonimo di libertà”, una libertà che non si trova in altre gare e che probabilmente s’è persa per sempre con la decisione, in ogni caso necessaria, di spostare il rally in un altro continente.

 

La Dakar chiude con un bilancio di 54 morti e di migliaia di “vivi”, che sono tutti coloro che vi hanno partecipato almeno una volta, dando forse un senso alla loro vita.

 

L’appuntamento per un’altra storia è il 3 gennaio a Buenos Aires, ma questa, come forse avrebbe detto Thierry Sabine se oggi fosse stato in vita, “N’est pas la Dakar”.



 

 

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