[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 213 / SETTEMBRE 2025 (CCXLIV)


ambiente

LA PAPAYA e la sua simbologia
ORIGINI, USI E tradizioni

di Giulia Cesarini Argiroffo

 

La papaya o papaia (Carica papaya) non è un albero ma un arbusto erbaceo che appartiene alla famiglia delle Caricacee. Il suo nome si può riferire tanto alla pianta quanto al suo frutto. Attualmente ne esistono molte varietà, è ormai diffusa e si coltiva in tutti i Paesi caldi del pianeta, soprattutto per il suo frutto ch’è molto apprezzato. Questa pianta è alta e talvolta può addirittura raggiungere i 10 metri di altezza, anche se esistono delle varietà nane.

In generale presenta un fusto per lo più non ramificato, coronato da un ciuffo di grandi foglie palmatolobate piuttosto flaccide e con un lungo picciolo che si dispongono a rosetta all’apice del tronco. I fiori sono riuniti in infiorescenze ascellari. Questo arbusto erbaceo è una specie dioica (pianta con fiori solo maschili o solo femminili) ma si possono trovare anche individui con fiori ermafroditi oltre a quelli unisessuali. Le sue foglie si utilizzano per preparare tisane, inoltre in alcuni Paesi si mangiano ad esempio come verdura.

Il frutto è commestibile e con una consistenza delicata; presenta grandi dimensioni e può arrivare a pesare fino a 9 Kg, anche se per questioni commerciali nella maggior parte dei casi si cerca di non far superare i 600 g. Esso ha una forma oblunga che può arrivare fino a 30 cm di lunghezza e può essere di color verde, giallo-arancione, rosa o rosso acceso. La polpa è succosa, dolce, profumata e contiene numerosi piccoli semi. In generale il frutto si mangia crudo o cotto, ha un uso simile al melone (infatti per questo in italiano prende anche il nome di “melone dei tropici”) ed è ingrediente di molti piatti soprattutto quelli tipici di diversi Paesi tropicali. Anche i semi sono commestibili e ad esempio se essiccati (spesso anche polverizzati) si utilizzano in gastronomia come spezia. La papaya si trova ormai abbastanza comunemente anche nei supermercati italiani. In Europa il frutto di questa pianta carnoso e saporito si consuma soprattutto fresco o si usa per produrre succhi, conserve e dessert.

Da tutte le parti della pianta e dai suoi frutti si può ricavare un succo lattiginoso contenente la papalina (noto anche come “pepsina vegetale”), un enzima dotato di attività proteolitica, benefica per la digestione delle proteine. Questo principio attivo viene anche generato oppure estratto in maniera industriale per fabbricare farmaci, cosmetici, birra e prodotti alimentari. In particolare il succo dei frutti acerbi di papaya si adopera anche per ammorbidire le carni. Ciò nonostante estrarre la linfa dell’albero, ch’è appunto di consistenza lattea, in modo naturale può risultare tossico per gli umani perché può provocare delle irritazioni allergiche a contatto con la pelle.

Questa pianta è originaria del Centro America, forse del Sud del Messico, nonostante non si sia potuta determinare precisamente dove. Sicuramente era già nota da secoli e in uso tra le popolazioni indigene precolombiane che la coltivavano e la consideravano un dono degli dei per le sue proprietà benefiche e salutari. Inoltre la utilizzavano, ad esempio, come alimento e come medicinale. Sin dall’Antichità e tuttora si usa avvolgere la carne in foglie di papaia per frollarla e renderla più tenera (questo è possibile grazie alle proprietà eupeptiche dell’enzima papalina).

Gli Aztechi e i Toltechi la chiamavano Chichihualzapotl che nella loro lingua, il nahuatl, significava “frutto dolce da balia”. Come facevano presente Revelli Sorini e Cutini, i Maya lo denominavano “Albero della vita”. Infatti presentava una simbologia fortemente collegata alla Fertilità. Ciò non stupisce, come notava Cattabiani, perché altri ortaggi ricchissimi di semi quali ad esempio il melone, la zucca e il cetriolo hanno evocato questo stesso simbolismo in tutto il mondo.

Dopo la scoperta dell’America i coloni spagnoli avviarono la coltivazione di papaia nei Caraibi e nelle Filippine. Successivamente nel 1598 si introdusse in India, poi si propagò per le isole degli arcipelaghi del Pacifico e dell’Africa e in seguito in tutti i Paesi tropicali del mondo.


La papaya è una pianta che oggigiorno cresce, per ragioni climatiche, praticamente solo ai tropici ed è prodotta commercialmente da molte nazioni come il Brasile, l’Indonesia, il Messico, la Tailandia, la Nigeria e l’India. Inoltre è anche una delle colture tipiche delle isole Hawaii, lo Stato degli USA che si trova nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico.

Il nome attuale di questa pianta si presume derivi dal volgare antillano papaya, che pare si debba a una corruzione del termine vernacolo caribe ababei. Come notava Attali, oggigiorno in alcuni Paesi centro-sud americani per evitare il vocabolo papaya ch’è impronunciabile perché sottintende (volgarmente e in modo offensivo) il sesso femminile, si sostituisce con altre parole, ad esempio fruta bomba, lechosa o mamón.


Inoltre è peculiare, come considerava Attali, il fatto che in Colombia sia in uso la perifrasi “passare al papaio” quale sinonimo di “fucilazione” o di “esecuzione” in generale ma le ragioni alle origini di questa espressione non sono chiare.

La papaya ha ottime e molteplici proprietà salutari e la papaina costituisce il principio attivo di molti farmaci naturisti per curare affezioni digestive ma anche altro. Inoltre contiene flavonoidi e polifenoli, efficaci antiossidanti, è ricca di vitamine (principalmente A e C), magnesio, potassio, ferro, tiamina e altro ancora. Tuttora anche la farmacopea popolare attribuisce a questo frutto molte proprietà curative, ad esempio una cucchiaiata di semi di papaia a digiuno per tre giorni consecutivi opera come eccellente vermifugo intestinale.

Attualmente esistono delle coltivazioni di papaya OGM nel mondo. Come fa presente Bressanini, il mercato europeo è tuttora precluso alle varietà transgeniche e per questa ragione il giro d’affari globale di questo frutto si è ridotto.


Invece la papaya OGM si consuma senza problemi in altri nazioni come negli USA e dal 2003 in Canada. Il Giappone è sempre stato un grande importatore di papaia dalle Hawaii ma l’approvazione della nuova varietà OGM ha richiesto molto tempo. Se infatti nel 1996 il valore delle esportazioni verso il Paese del Sole Levante ammontava a 15 milioni di dollari, potendo esportare solo papaya convenzionale, nel 2010 calò a un solo milione di dollari. La varietà OGM Rainbow fu finalmente approvata per l’importazione e il consumo in Giappone nel dicembre 2011 e dal 2012 fu possibile trovarla sugli scaffali dei supermercati nipponici.

Infatti è interessante la storia del caso delle colture di papaia delle isole Hawaii che fino alla metà del Novecento si concentravano sull’isola di Oahu, ma in quell’epoca prese il sopravvento sulle piantagioni il virus PRSV (Papaya RingSpot Virus) che è trasmesso dagli afidi e fu impossibile controllarlo. Non è fattibile curare una pianta con questa malattia impedendo che muoia. Inoltre bisogna evitare che questo virus non si diffonda anche su altre piante a esso vulnerabili, come quelle della famiglia delle Cucurbitacee (come zucche, zucchine, cocomeri e meloni) e l’unico rimedio è la distruzione totale degli esemplari infetti. Così si spostarono le piantagioni di papaya sull’isola hawaiana di Big Island, in particolare nel distretto di Puna, dove prosperò grazie al clima favorevole.

 

A Puna negli anni Settanta si trovavano il 95% delle coltivazioni di papaia. Gli scienziati però sapevano che era solo questione di tempo perché il virus facesse la propria comparsa anche lì e distruggesse quelle coltivazioni. Di conseguenza si misero al lavoro per studiare una soluzione tramite la creazione di esemplari geneticamente modificati resistenti al virus, facendo molti esperimenti. In particolare nel 1991 si identificò una pianta che pareva un buon candidato per la coltivazione commerciale. Immediatamente fu approvato un test in campo aperto per verificare che fosse effettivamente resistente al virus nelle condizioni reali e la sperimentazione ebbe successo.

Nel maggio del 1992 a Puna comparve il terribile virus PRSV che cominciò a dilagare nelle piantagioni di papaya con effetti devastanti. All’inizio si cercò di contrastare l’avanzata distruggendo le piante infette ma alla fine del 1994 l’epidemia era ormai fuori controllo. Allora si procedette a incrociare l’esemplare OGM primitivo con altre piante non-OGM sane per trasferire il gene creato in laboratorio resistente al virus. Così si crearono due nuove varietà commercialmente valide, la SunUp dalla polpa rossa e la Raibow dalla polpa gialla. Intanto l’epidemia aveva ridotto drasticamente la produzione convenzionale, mentre ad esempio la varietà Rainbow, che oltretutto maturava prima, ne produceva ben 150 tonnellate per ettaro.


Nel 1995 fu inoltrata la richiesta di autorizzazione commerciale per la papaya transgenica. La procedura burocratica USA durò quasi tre anni. Nell’aprile 1998 finalmente arrivò la licenza e a maggio le piante e i semi si distribuirono gratuitamente agli agricoltori che desideravano usarli.

Nel 1999 si ebbero i primi raccolti di papaya transgenica che incontrò i favori dei consumatori. I campi abbandonati dopo l’avvento del virus furono rapidamente ripopolati con la papaia resistente. Inoltre è stata proprio l’introduzione massiccia della papaya OGM, che arginava l’epidemia del PRSV, a rendere possibile la sopravvivenza della papaia tradizionale alle Hawaii. Attualmente spesso i campi di papaya non transgenica vengono circondati da alcune file di papaia OGM per proteggerli dal virus che è sempre in agguato. Questo è un esempio di immunità di gregge o di gruppo. Così le biotecnologie hanno salvato la coltura della papaya tipica delle Hawaii e l’intera industria della papaia, compresi i produttori di papaya biologica, che altrimenti sarebbero stati spazzati via e che hanno goduto indirettamente dei vantaggi della papaya transgenica senza neppure coltivarla.

Quindi l’agricoltura OGM e quella convenzionale possono coesistere. Ad esempio nel caso della papaya è stato dimostrato che bastano 400 metri di distanza tra le piantagioni per evitare incroci indesiderati fra gli esemplari OGM e quelli tradizionali (ma a salvarle comunque dal virus).

 

La collaborazione tra gli agricoltori in proposito però è cruciale onde evitare contaminazioni. La migliore dimostrazione del fatto che la coesistenza funziona è che le Hawaii hanno continuato a vendere al Giappone papaya rigorosamente non-OGM fino 2012. Infatti, prima di approvare lo sbarco di un carico di papaia, nei propri porti, i nipponici effettuavano test genetici e se avessero trovato tracce di contaminazione avrebbero bloccato tutte le importazioni. In breve, grazie alle biotecnologie nelle Hawaii, è stato salvato un prodotto tipico che oggi ancora si coltiva e si immette sul mercato. Gli agricoltori sono liberi di scegliere l’attività (biologica o OGM) che preferiscono o ritengono per loro economicamente più vantaggiosa.

In generale attualmente la papaya si considera un simbolo di Rigenerazione, Abbondanza e Salute.


Riferimenti bibliografici:

Aleotti, Attilio Angelo, Le Caravelle dell’abbondanza, Robin Edizioni, Torino 2022
Bressanini, Dario, OGM tra leggende e realtà. Alla scoperta delle modifiche genetiche del cibo che mangiamo, Zanichelli Editore, Bologna 2009.
Cattabiani, Alfredo, Florario, Mondadori Editore, Milano 2016.
Owusu, Heike, Simboli Maya, Inca e Aztechi, Il Punto d’Incontro Edizioni, Vicenza 2003.
Revelli Sorini, Alex, Cutini, Susanna, Dizionario Gastrosofico di culture e politiche alimentari, Ali&No Editrice, Perugia 2022.
Went, Fritzs W. e dai redattori di LIFE, Le Piante, Mondadori Editore, Milano 1965.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]