LA PAPAYA
e
la
sua
simbologia
ORIGINI,
USI E tradizioni
di Giulia Cesarini Argiroffo
La papaya o papaia (Carica papaya)
non è un albero ma un arbusto
erbaceo che appartiene alla famiglia
delle Caricacee. Il suo nome si può
riferire tanto alla pianta quanto al
suo frutto. Attualmente ne esistono
molte varietà, è ormai diffusa e si
coltiva in tutti i Paesi caldi del
pianeta, soprattutto per il suo
frutto ch’è molto apprezzato. Questa
pianta è alta e talvolta può
addirittura raggiungere i 10 metri
di altezza, anche se esistono delle
varietà nane.
In generale presenta un fusto per lo
più non ramificato, coronato da un
ciuffo di grandi foglie
palmatolobate piuttosto flaccide e
con un lungo picciolo che si
dispongono a rosetta all’apice del
tronco. I fiori sono riuniti in
infiorescenze ascellari. Questo
arbusto erbaceo è una specie dioica
(pianta con fiori solo maschili o
solo femminili) ma si possono
trovare anche individui con fiori
ermafroditi oltre a quelli
unisessuali. Le sue foglie si
utilizzano per preparare tisane,
inoltre in alcuni Paesi si mangiano
ad esempio come verdura.
Il frutto è commestibile e con una
consistenza delicata; presenta
grandi dimensioni e può arrivare a
pesare fino a 9 Kg, anche se per
questioni commerciali nella maggior
parte dei casi si cerca di non far
superare i 600 g. Esso ha una forma
oblunga che può arrivare fino a 30
cm di lunghezza e può essere di
color verde, giallo-arancione, rosa
o rosso acceso. La polpa è succosa,
dolce, profumata e contiene numerosi
piccoli semi. In generale il frutto
si mangia crudo o cotto, ha un uso
simile al melone (infatti per questo
in italiano prende anche il nome di
“melone dei tropici”) ed è
ingrediente di molti piatti
soprattutto quelli tipici di diversi
Paesi tropicali. Anche i semi sono
commestibili e ad esempio se
essiccati (spesso anche
polverizzati) si utilizzano in
gastronomia come spezia. La papaya
si trova ormai abbastanza
comunemente anche nei supermercati
italiani. In Europa il frutto di
questa pianta carnoso e saporito si
consuma soprattutto fresco o si usa
per produrre succhi, conserve e
dessert.
Da tutte le parti della pianta e dai
suoi frutti si può ricavare un succo
lattiginoso contenente la papalina
(noto anche come “pepsina
vegetale”), un enzima dotato di
attività proteolitica, benefica per
la digestione delle proteine. Questo
principio attivo viene anche
generato oppure estratto in maniera
industriale per fabbricare farmaci,
cosmetici, birra e prodotti
alimentari. In particolare il succo
dei frutti acerbi di papaya si
adopera anche per ammorbidire le
carni. Ciò nonostante estrarre la
linfa dell’albero, ch’è appunto di
consistenza lattea, in modo naturale
può risultare tossico per gli umani
perché può provocare delle
irritazioni allergiche a contatto
con la pelle.
Questa pianta è originaria del
Centro America, forse del Sud del
Messico, nonostante non si sia
potuta determinare precisamente
dove. Sicuramente era già nota da
secoli e in uso tra le popolazioni
indigene precolombiane che la
coltivavano e la consideravano un
dono degli dei per le sue proprietà
benefiche e salutari. Inoltre la
utilizzavano, ad esempio, come
alimento e come medicinale. Sin
dall’Antichità e tuttora si usa
avvolgere la carne in foglie di
papaia per frollarla e renderla più
tenera (questo è possibile grazie
alle proprietà eupeptiche
dell’enzima papalina).
Gli Aztechi e i Toltechi la
chiamavano Chichihualzapotl
che nella loro lingua, il nahuatl,
significava “frutto dolce da balia”.
Come facevano presente Revelli
Sorini e Cutini, i Maya lo
denominavano “Albero della vita”.
Infatti presentava una simbologia
fortemente collegata alla Fertilità.
Ciò non stupisce, come notava
Cattabiani, perché altri ortaggi
ricchissimi di semi quali ad esempio
il melone, la zucca e il cetriolo
hanno evocato questo stesso
simbolismo in tutto il mondo.
Dopo la scoperta dell’America i
coloni spagnoli avviarono la
coltivazione di papaia nei Caraibi e
nelle Filippine. Successivamente nel
1598 si introdusse in India, poi si
propagò per le isole degli
arcipelaghi del Pacifico e
dell’Africa e in seguito in tutti i
Paesi tropicali del mondo.
La papaya è una pianta che
oggigiorno cresce, per ragioni
climatiche, praticamente solo ai
tropici ed è prodotta
commercialmente da molte nazioni
come il Brasile, l’Indonesia, il
Messico, la Tailandia, la Nigeria e
l’India. Inoltre è anche una delle
colture tipiche delle isole Hawaii,
lo Stato degli USA che si trova nel
bel mezzo dell’Oceano Pacifico.
Il nome attuale di questa pianta si
presume derivi dal volgare antillano
papaya, che pare si debba a una
corruzione del termine vernacolo
caribe ababei. Come notava Attali,
oggigiorno in alcuni Paesi
centro-sud americani per evitare il
vocabolo papaya ch’è impronunciabile
perché sottintende (volgarmente e in
modo offensivo) il sesso femminile,
si sostituisce con altre parole, ad
esempio fruta bomba, lechosa o mamón.
Inoltre è peculiare, come
considerava Attali, il fatto che in
Colombia sia in uso la perifrasi
“passare al papaio” quale sinonimo
di “fucilazione” o di “esecuzione”
in generale ma le ragioni alle
origini di questa espressione non
sono chiare.
La papaya ha ottime e molteplici
proprietà salutari e la papaina
costituisce il principio attivo di
molti farmaci naturisti per curare
affezioni digestive ma anche altro.
Inoltre contiene flavonoidi e
polifenoli, efficaci antiossidanti,
è ricca di vitamine (principalmente
A e C), magnesio, potassio, ferro,
tiamina e altro ancora. Tuttora
anche la farmacopea popolare
attribuisce a questo frutto molte
proprietà curative, ad esempio una
cucchiaiata di semi di papaia a
digiuno per tre giorni consecutivi
opera come eccellente vermifugo
intestinale.
Attualmente esistono delle
coltivazioni di papaya OGM nel
mondo. Come fa presente Bressanini,
il mercato europeo è tuttora
precluso alle varietà transgeniche e
per questa ragione il giro d’affari
globale di questo frutto si è
ridotto.
Invece la papaya OGM si consuma
senza problemi in altri nazioni come
negli USA e dal 2003 in Canada. Il
Giappone è sempre stato un grande
importatore di papaia dalle Hawaii
ma l’approvazione della nuova
varietà OGM ha richiesto molto
tempo. Se infatti nel 1996 il valore
delle esportazioni verso il Paese
del Sole Levante ammontava a 15
milioni di dollari, potendo
esportare solo papaya convenzionale,
nel 2010 calò a un solo milione di
dollari. La varietà OGM Rainbow fu
finalmente approvata per
l’importazione e il consumo in
Giappone nel dicembre 2011 e dal
2012 fu possibile trovarla sugli
scaffali dei supermercati nipponici.
Infatti è interessante la storia del
caso delle colture di papaia delle
isole Hawaii che fino alla metà del
Novecento si concentravano
sull’isola di Oahu, ma in
quell’epoca prese il sopravvento
sulle piantagioni il virus PRSV
(Papaya RingSpot Virus) che è
trasmesso dagli afidi e fu
impossibile controllarlo. Non è
fattibile curare una pianta con
questa malattia impedendo che muoia.
Inoltre bisogna evitare che questo
virus non si diffonda anche su altre
piante a esso vulnerabili, come
quelle della famiglia delle
Cucurbitacee (come zucche, zucchine,
cocomeri e meloni) e l’unico rimedio
è la distruzione totale degli
esemplari infetti. Così si
spostarono le piantagioni di papaya
sull’isola hawaiana di Big Island,
in particolare nel distretto di Puna,
dove prosperò grazie al clima
favorevole.
A Puna negli anni Settanta si
trovavano il 95% delle coltivazioni
di papaia. Gli scienziati però
sapevano che era solo questione di
tempo perché il virus facesse la
propria comparsa anche lì e
distruggesse quelle coltivazioni. Di
conseguenza si misero al lavoro per
studiare una soluzione tramite la
creazione di esemplari geneticamente
modificati resistenti al virus,
facendo molti esperimenti. In
particolare nel 1991 si identificò
una pianta che pareva un buon
candidato per la coltivazione
commerciale. Immediatamente fu
approvato un test in campo aperto
per verificare che fosse
effettivamente resistente al virus
nelle condizioni reali e la
sperimentazione ebbe successo.
Nel maggio del 1992 a Puna comparve
il terribile virus PRSV che cominciò
a dilagare nelle piantagioni di
papaya con effetti devastanti.
All’inizio si cercò di contrastare
l’avanzata distruggendo le piante
infette ma alla fine del 1994
l’epidemia era ormai fuori
controllo. Allora si procedette a
incrociare l’esemplare OGM primitivo
con altre piante non-OGM sane per
trasferire il gene creato in
laboratorio resistente al virus.
Così si crearono due nuove varietà
commercialmente valide, la SunUp
dalla polpa rossa e la Raibow dalla
polpa gialla. Intanto l’epidemia
aveva ridotto drasticamente la
produzione convenzionale, mentre ad
esempio la varietà Rainbow, che
oltretutto maturava prima, ne
produceva ben 150 tonnellate per
ettaro.
Nel 1995 fu inoltrata la richiesta
di autorizzazione commerciale per la
papaya transgenica. La procedura
burocratica USA durò quasi tre anni.
Nell’aprile 1998 finalmente arrivò
la licenza e a maggio le piante e i
semi si distribuirono gratuitamente
agli agricoltori che desideravano
usarli.
Nel 1999 si ebbero i primi raccolti
di papaya transgenica che incontrò i
favori dei consumatori. I campi
abbandonati dopo l’avvento del virus
furono rapidamente ripopolati con la
papaia resistente. Inoltre è stata
proprio l’introduzione massiccia
della papaya OGM, che arginava
l’epidemia del PRSV, a rendere
possibile la sopravvivenza della
papaia tradizionale alle Hawaii.
Attualmente spesso i campi di papaya
non transgenica vengono circondati
da alcune file di papaia OGM per
proteggerli dal virus che è sempre
in agguato. Questo è un esempio di
immunità di gregge o di gruppo. Così
le biotecnologie hanno salvato la
coltura della papaya tipica delle
Hawaii e l’intera industria della
papaia, compresi i produttori di
papaya biologica, che altrimenti
sarebbero stati spazzati via e che
hanno goduto indirettamente dei
vantaggi della papaya transgenica
senza neppure coltivarla.
Quindi l’agricoltura OGM e quella
convenzionale possono coesistere. Ad
esempio nel caso della papaya è
stato dimostrato che bastano 400
metri di distanza tra le piantagioni
per evitare incroci indesiderati fra
gli esemplari OGM e quelli
tradizionali (ma a salvarle comunque
dal virus).
La collaborazione tra gli
agricoltori in proposito però è
cruciale onde evitare
contaminazioni. La migliore
dimostrazione del fatto che la
coesistenza funziona è che le Hawaii
hanno continuato a vendere al
Giappone papaya rigorosamente
non-OGM fino 2012. Infatti, prima di
approvare lo sbarco di un carico di
papaia, nei propri porti, i
nipponici effettuavano test genetici
e se avessero trovato tracce di
contaminazione avrebbero bloccato
tutte le importazioni. In breve,
grazie alle biotecnologie nelle
Hawaii, è stato salvato un prodotto
tipico che oggi ancora si coltiva e
si immette sul mercato. Gli
agricoltori sono liberi di scegliere
l’attività (biologica o OGM) che
preferiscono o ritengono per loro
economicamente più vantaggiosa.
In generale attualmente la papaya si
considera un simbolo di
Rigenerazione, Abbondanza e Salute.
Riferimenti bibliografici:
Aleotti, Attilio Angelo, Le
Caravelle dell’abbondanza, Robin
Edizioni, Torino 2022
Bressanini, Dario, OGM tra
leggende e realtà. Alla scoperta
delle modifiche genetiche del cibo
che mangiamo, Zanichelli
Editore, Bologna 2009.
Cattabiani, Alfredo, Florario,
Mondadori Editore, Milano 2016.
Owusu, Heike, Simboli Maya, Inca
e Aztechi, Il Punto d’Incontro
Edizioni, Vicenza 2003.
Revelli Sorini, Alex, Cutini,
Susanna, Dizionario Gastrosofico
di culture e politiche alimentari,
Ali&No Editrice, Perugia 2022.
Went, Fritzs W. e dai redattori di
LIFE, Le Piante, Mondadori
Editore, Milano 1965.