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N. 146 - Febbraio 2020 (CLXXVII)

La “spagnola” alla fine della Grande Guerra

pandemia DA 50 milioni di vittime

di Francesco Cappellani

 

Circa un secolo fa, nei primi mesi del 1919, l’epidemia di influenza denominata “spagnola”, iniziata nella primavera del 1918, scomparve misteriosamente come altrettanto misteriosa era stata la sua comparsa e la successiva diffusione l’anno precedente. In realtà si ebbero ancora parecchi casi nei due anni seguenti, però con una mortalità ridotta fino poi a sparire del tutto, probabilmente in quanto l’immunizzazione acquisita con le ondate precedenti ne aveva attenuato gli effetti, o per una mutazione del virus influenzale in una forma meno letale.

 

Si trattò di una pandemia, cioè di una epidemia in grado di colpire quasi tutti i paesi del globo, dall’India al Brasile, dall’Iran al Sudafrica e alla Russia, fino alle isole del Pacifico e all’Alaska, infettando oltre mezzo miliardo di persone e provocando un numero di vittime stimato in circa 50 milioni, ma che studi recenti hanno aumentato a quasi il doppio, cioè intorno al 5% della popolazione mondiale di allora che contava 1,7 miliardi di individui.

 

La spagnola è stata nella storia dell’umanità la malattia epidemica che ha sterminato il maggiore numero di persone, più delle varie epidemie di colera succedutesi nella seconda metà dell’Ottocento e più della Peste Nera che imperversò in Europa tra il 1347 e il 1352 uccidendo circa 20 milioni di individui, un terzo della popolazione europea di allora, oltre a milioni di vittime in Asia e nel Vicino Oriente su cui mancano dati affidabili. Lo stesso agente patogeno di quella peste sembra avere causato altre epidemie di minore entità tra cui quella del 1630 nel Nord Italia, descritta da Manzoni ne I promessi sposi.

 

Le vittime della spagnola superarono di molto i morti di quella immane carneficina che fu la prima guerra mondiale stimati in 16 milioni. Il picco di mortalità si ebbe tra la metà di settembre 1918 e la metà di dicembre dello stesso anno con un aumento dovuto, in Europa, anche ai contagi provocati dai festeggiamenti che nell’autunno di quell’anno celebravano la pace finalmente raggiunta, con folle gioiose e gente che si abbracciava e baciava nelle piazze. Nel periodo più violento della diffusione della pandemia si verificò un abbassamento dell’aspettativa di vita di quasi 12 anni.


Una pandemia influenzale si presenta statisticamente all’incirca tre volte ogni secolo, a differenza delle epidemie stagionali che si ripetono annualmente. Le sue origine sono remote, Tucidide parlò di un morbo con esiti simili a quelli recenti oltre 2.400 anni fa; il termine “influenza” compare intorno al 1300 ed è legato alle credenze dell’epoca che attribuivano la malattia all’influsso malefico degli astri.

 

Nel XX secolo, oltre alla spagnola, vi fu l’influenza Asiatica del 1957 che provocò circa due milioni di morti, quella di Hong-Kong con quasi un milione di decessi e l’influenza o “febbre suina” del 2009, molto meno cruenta.

 

Le pandemie si scatenano quando un nuovo ceppo del virus dell’influenza viene trasmesso all’uomo da alcune specie animali come i cavalli, soprattutto nei secoli scorsi grazie alla loro larga diffusione e impiego, i suini, il pollame e anche gli uccelli che infettano gli animali domestici che a loro volta possono indurre pandemie nell’uomo: si parla infatti di influenza aviaria, suina etc.

 

I ceppi influenzali sono codificati da un termine alfa-numerico del tipo H( )N( ) dove H (emoagglutinina) e N (neuroamidasi) sono le proteine presenti sulla superficie del virus che presiedono all’adesione del virus ai recettori di superficie della cellula da infettare; i numeri in parentesi servono a indicare quale delle sedici emoagglutinine e delle nove neuroamidasi conosciute sono presenti nel ceppo. Ad esempio il virus della spagnola era H(1)N(1), quello dell’Asiatica H(2)N(2), quello dell’influenza di Hong-Kong H(3)N(2).

 

Si tratta di virus mutanti che cambiano di poco ogni anno, ma le piccole mutazioni delle proteine sulla sua superficie non sono riconosciute dai nostri anticorpi per cui l’influenza può affliggerci molte volte nella vita. Se le mutazioni del virus sono invece di notevole entità oppure sorge un nuovo virus dall’ibridazione di due ceppi differenti, il nostro sistema immunitario non è in grado di contrastarlo efficacemente per cui, senza l’aiuto di vaccini e opportune terapie, la patologia può condurre alla morte.

 

La spagnola si scatenò sull’intero globo in tre ondate successive, nella primavera del 1918, nell’autunno dello stesso anno e nell’inverno 1918-1919. Il contagio avveniva per via aerea, i sintomi erano sempre gli stessi: tosse, febbre alta, dolori alle ossa, emorragie nasali, difficoltà respiratorie e infine la comparsa di un colorito bluastro, cianotico, indice di insufficiente ossigenazione. I polmoni si riempivano di sangue e se si arrivava a questa situazione, la morte era inevitabile e arrivava in pochissimi giorni per soffocamento dovuto a edema polmonare.

 

A uccidere gran parte delle persone non fu l’influenza vera e propria, ma un’infezione polmonare secondaria, di origine batterica da stafilococco, spesso fulminante per la quale all’epoca non esistevano vaccini né rimedi farmacologici come gli antibiotici che Fleming scoprirà solo dieci anni più tardi. Il virus del 1918, come dimostrato da studi successivi, aveva delle caratteristiche genetiche che gli permettevano di invadere anche tessuti diversi da quelli delle vie respiratorie, aggravando le condizioni dell’ammalato.

 

Agli inizi le notizie sulla pandemia spagnola furono tenute nascoste dalle censure delle nazioni in conflitto passando in secondo piano rispetto ai terribili eventi bellici. Si era nella fase finale della prima guerra mondiale e non si voleva allarmare le popolazioni stremate da anni di guerra e soprattutto le truppe al fronte logorate dalla durissima vita di trincea.

 

Fu solo in Spagna, da qui poi il nome di febbre spagnola o semplicemente spagnola, paese europeo non belligerante e quindi non soggetto a censura militare, che si cominciò a parlare del morbo; l’agenzia iberica di stampa Fabra, nel febbraio 1918, trasmetteva un laconico comunicato che informava della comparsa a Madrid di “una strana forma di malattia a carattere epidemico” precisando che era di carattere benigno non essendosi verificati decessi.

 

In effetti la prima ondata nella primavera del 1918 causò delle forme influenzali che duravano pochi giorni senza conseguenze letali, ma nella tarda estate dello stesso anno la seconda ondata, a seguito di una ricombinazione del virus con un altro di origine animale, fu di una virulenza incredibile scatenando quelle infezioni pneumoniche responsabili della gran parte dei decessi.

 

Oggi si ritiene che le prime evidenze della spagnola si verificarono nella base militare di Fort Riley, in Kansas, dove era stata costruito un nuovo campo d’addestramento, Camp Funston, per alloggiare parte dei 50.000 giovani richiamati al servizio militare. Qui ai primi di marzo 1918 si registrarono un centinaio di casi di influenza che presto aumentarono al punto che fu necessario requisire un hangar per alloggiare i malati.

 

Questi soldati, come i molti altri provenienti dai diversi campi-scuola, facevano parte dell’American Expeditionary Forces, il corpo militare guidato dal generale John Pershing che, con l’entrata in guerra degli USA nel 1917, a fianco degli Alleati, sbarcheranno nel 1918 nei porti francesi. Fu questo corpo di spedizione che portò il virus in Europa.

 

La spagnola nell’autunno del 1918 iniziò rapidamente a diffondersi in Francia, nelle trincee del fronte occidentale, e poi in Gran Bretagna, in Italia e nella neutrale Spagna dove in pochi giorni oltre metà dei madrileni furono contagiati compresi il re Alfonso XIII e il primo ministro.

 

I soldati infettati al fronte venivano trasferiti su treni superaffollati nelle strutture sanitarie delle retrovie che erano stipate oltre ogni limite di feriti e ammalati, contribuendo a diffondere la malattia anche fra i civili. Inoltre la situazione igienico-sanitaria nelle zone di guerra era estremamente precaria con i soldati ammassati per mesi nelle anguste trincee tra cadaveri e fogne a cielo aperto dove prosperavano virus e batteri di ogni genere.

 

Anche lo stato della salute pubblica era critico, la scarsezza di cibo e la malnutrizione affliggevano le popolazioni e molte malattie di origine batterica come la tubercolosi rendevano più esposte al morbo virale queste persone già indebolite. La medicina non era in grado di combattere e tantomeno arginare l’epidemia, il personale medico e paramedico veniva contagiato e chi sopravviveva non poteva che assistere impotente allo sterminio dei propri pazienti.

 

I farmaci utilizzati per tentare di approntare una terapia erano il Fenazone, come antifebbrile, la tintura di Noce Vomica per stimolare il sistema nervoso, estratti dalla pianta Digitale per sostenere il cuore, e i salassi. Poi, come nota Andrea Cionci, «la fantasia di medici e farmacisti si sbizzarrì: un medico francese consigliava ai malati di bere molto vino rosso sino a che il berretto appeso al pomello della porta non fosse apparso sdoppiato. Lo scrittore veneziano Tito Spagnol fu caustico circa le cure in voga “Quattro pastiglie di chinino e un po’ di paglia per morirvi sopra”».

 

Fallita ogni terapia e profilassi si assistette al ritorno di credenze popolari, di presagi macabri di fine del mondo, e al diffondersi di cure al limite della ciarlataneria come l’uso di collane d’aglio, zuppe di cipolle e cognac e svariati intrugli tanto misteriosi quanto inefficaci. Il vescovo di Zamora in Spagna sostenne che il braccio vendicatore della giustizia eterna aveva scatenato il morbo come punizione per i nostri peccati e la nostra ingratitudine.

 

Tutto ciò accadeva verso la fine della guerra, quando le popolazioni duramente provate cominciavano finalmente a sperare nella fine delle privazioni imposte dal conflitto e di tornare a una vita normale poiché la possibilità di raggiungere la pace, sancita dai 14 punti proposti dagli Imperi Centrali al presidente americano Wilson, appariva imminente.

 

Le autorità sanitarie imposero una ferrea serie di divieti e restrizioni riducendo o eliminando gli spettacoli pubblici, le fiere e i mercati, gli assembramenti di ogni genere come le feste paesane e gli stessi funerali, per diminuire le possibilità di contagio. Su Il Popolo d’Italia Mussolini stigmatizzò la “sudicia abitudine della stretta di mano”. I viaggi in treno erano sconsigliati e la sera, dopo l’anticipata chiusura dei locali pubblici, veniva imposto una sorta di coprifuoco lasciando le città buie e deserte.

 

Come scrive Eugenia Tognotti «Con decine e decine di morti, registrate ogni giorno nelle città, era proibito suonare le campane a morto che abbattevano lo spirito pubblico. Vietati i cortei funebri e l’accompagnamento del Viatico (…) Nei piccoli centri non si trovavano neppure casse da morto, data la penuria di legname (…) Censurata, mediata dai criteri di selezione delle autorità, la registrazione nei giornali e nei documenti ufficiali, lascia in ombra lo sconvolgimento del vissuto, le angosce, gli stati d’animo, le reazioni che la Spagnola provocò tra le popolazioni civili».

 

In Italia la situazione, agli inizi della pandemia, fu particolarmente critica in quanto non ci fu una immediata collaborazione tra la sanità militare e quella civile, causando una mancanza di personale sanitario per la popolazione, data la necessità di rinforzare i presidi medici impegnati nelle zone di guerra.

 

Malgrado la censura, la gente iniziò a capire quale incredibile strage si stesse scatenando quando cominciarono ad apparire sui giornali, listati in nero, una quantità inusitata di necrologi dedicati alle vittime illustri del luogo decedute a causa di un morbo fatale e improvviso: “Basta vedere le tre colonne di morti della gente per bene del Corriere – scriveva il 12 ottobre 1918 Anna Kuliscioff a Filippo Turati – per persuadersi qual è la mortalità nei quartieri popolari”.

 

Il tasso di mortalità in Italia fu tra i più alti in Europa, secondo solo a quello registrato in Russia dove le situazioni climatiche proibitive avevano peggiorato la situazione. La spagnola colpì in Italia oltre 4,5 milioni di persone provocando tra 375 e 600 mila decessi su una popolazione che allora contava 36 milioni, paragonabile alle vittime del conflitto, 600 mila uomini. Il dato è assai approssimativo anche perché molti soldati morti in guerra di spagnola venivano invece dati come morti in combattimento per non provocare allarmismo nell’esercito.

 

La diffusione della spagnola fu favorita sicuramente dai grandi spostamenti di truppe dovuti alla guerra: nella primavera del 1918 quasi tre quarti delle truppe francesi e metà di quelle britanniche rimasero contagiate e in maggio il morbo penetrò in Germania dove si ammalarono oltre 900.000 persone. Da lì, tramite prigionieri rimpatriati, si diffuse in Russia. Il morbo colpì però ovunque, anche in paesi lontani e neutrali, non coinvolti nella guerra, con la stessa gravità e invadenza.

 

In Gran Bretagna morirono 228.000 persone, negli Stati Uniti 675.000, in Canada 50.000, in Giappone circa 400.000, in Egitto 138.000. Nelle Samoa tedesche, oggi Stato di Samoa nell’Oceano Pacifico, un quinto della popolazione fu sterminato dal morbo, in India il numero di vittime fu ingente, tra 12 e 17 milioni di abitanti. A settembre fu colpito il Sud America sembra per causa di una nave inglese arrivata a Recife in Brasile dove la spagnola provocherà 300.000 morti, tra cui il presidente Rodrigues Alves, e, nel 1919, anche l’Australia.


Molte furono le vittime famose della pandemia: in Francia muoiono di spagnola il poeta Guillaume Apollinaire e lo scrittore Edmond Rostand; in Austria i pittori Egon Schiele, ventottenne, tre giorni dopo la morte della moglie incinta di sei mesi, e Gustav Klimt già colpito da un ictus, a 56 anni; muore il sociologo Max Weber, due dei tre pastorelli veggenti di Fatima e il nonno Frederick del presidente Donald Trump. Sigmund Freud perde la figlia Sophie incinta del terzo figlio e Arthur Conan Doyle un figlio e il fratello.

 

Molti altri si ammalarono ma sopravvissero come il pittore norvegese Edvard Munch, Mustafà Kemal che diventerà poi il leader modernizzatore del suo paese, la Turchia, il Mahatma Gandhi, Tafari Makonnen, il futuro Ailé Selassié imperatore dell’Etiopia, il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson durante la Conferenza per la pace a Parigi e il suo futuro successore Franklin Delano Roosevelt, contagiato su una nave che trasportava truppe dalla Francia a New York, il giallista Dashiell Hammett, gli scrittori Ernest Hemingway e John Dos Passos ammalatisi su una nave per trasporto truppe sull’Atlantico, il romanziere D.H. Lawrence e il poeta Ezra Pound, un giovanissimo Walt Disney, lo scrittore Franz Kafka, e il filosofo sionista Martin Buber.


Decenni di studi anche recenti hanno permesso di studiare in ogni dettaglio il virus della spagnola, che fu isolato solo nel 1933, utilizzando campioni prelevati da soldati americani deceduti nel 1918 e grazie alla riesumazione di una donna Inuit morta di spagnola in Alaska, dove il permafrost aveva preservato intatto il suo tessuto polmonare.

 

Usando le moderne tecniche di analisi molecolare, i ricercatori del National Institute of Allergy and Infectious Diseases di Washington hanno determinato e pubblicato nel 2005 la mappa dell’intero codice genetico del virus scoprendo che era di origine aviaria ed era riuscito ad adattarsi perfettamente all’uomo, in quanto erano avvenute delle mutazioni tali da trasformarsi in un virus “umanizzato”, in grado di innescare il contagio da persona a persona.

 

Come abbiamo visto il flagello della spagnola fu causato da una serie di fattori sociali e sanitari concomitanti: la Grande Guerra agli sgoccioli col suo carico devastante di condizioni igieniche disastrose e la carenza di cibo, la carenza di personale medico, la carenza di sicure informazioni scientifiche sui virus e sui vaccini che spesso erano degli intrugli a base di sangue infetto di ammalati, la carenza di interscambio di informazioni tra le autorità sanitarie dei vari paesi del mondo.

 

Oggi esiste un efficiente sistema di sorveglianza globale dei virus influenzali con potenziale pandemico che comprende 114 stati e fa capo al W.H.O., la World Health Organization delle Nazioni Unite. La popolazione è più sana di un secolo fa, ci sono farmaci efficaci e la capacità di sviluppare immediatamente e produrre in quantità industriale i vaccini necessari.

 

Un recente studio di alcuni ricercatori australiani ha messo in luce che “una metanalisi delle ricerche sulla spagnola ha fatto emergere una serie di indicazioni sulle precauzioni che le autorità sanitarie nazionali ed internazionali devono intraprendere in vista di future pandemie virali (…) Una lezione importante dalla pandemia influenzale del 1918 è che una risposta pubblica ben preparata può salvare molte vite umane”.


La spagnola, pur con le sue conseguenze immani avendo provocato un numero di decessi molto più alto, almeno triplo, dei 16 milioni di morti della Grande Guerra, ha avuto un impatto minore nella memoria collettiva rispetto ai tragici eventi del primo conflitto mondiale.

 

Secondo Laura Spinney, autrice di un interessante libro sulla pandemia, questo atteggiamento lo si può spiegare considerando che le guerre “con le loro dichiarazioni, le loro tregue, i loro atti di incredibile coraggio” entrano di prepotenza nel tessuto della narrazione storica, “una pandemia influenzale, invece, non ha un inizio ed una fine precisa, e nessun eroe definito” che possa essere ricordato.

 

Inoltre, all’oblio ha contribuito la scarsa comprensione di quanto accadeva sia da parte di una popolazione oramai dolorosamente rassegnata che del mondo medico impotente e criticato perché incapace di trovare rimedi efficienti.

 

Il New York Times del 17 ottobre 1918 deplorò “il fallimento della scienza, che non ci ha protetto”. Ci fu una sorta di rimozione, si voleva scordare il drammatico passato e ricominciare, analogamente a quanto succederà dopo la seconda guerra mondiale, e così si è finito per archiviare la guerra e dimenticare la pandemia; ma questi due tragici avvenimenti hanno impresso ineluttabilmente “un’accelerazione ai cambiamenti avvenuti nella prima metà del Novecento”, e hanno contribuito a “dare forma al mondo che conosciamo”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

A. Cionci, “Il mistero dell’influenza Spagnola del 1918: la pandemia uccise 10 milioni di persone in due anni”, in La Stampa del 23/01/2018.
E. Tognotti, “La terribile febbre spagnola, prima pandemia moderna”, in La Nuova Sardegna del 3/06/2015.

K.R. Short, K. Kedzierska and C.E. van de Sandt, “Back to the future: Lessons Learned From the 1918 Influenza Pandemic”, in Frontiers in Cellular and Infection Microbiology del 8/10/2018.
L. Spinney, 1918. L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo, Marsilio, Venezia 2017.



 

 

 

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