[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

195 / MARZO 2024 (CCXXVI)


arte

ricordando Osvaldo Licini a 130 anni dalla nascita
un artista e poeta di rilievo
di Riccardo Renzi

 

Il 22 marzo ricorrono i 130 anni dalla nascita del pittore Osvaldo Lici e per celebrarlo voglio raccontare il “Licini scrittore” sino a oggi poco studiato, infatti il presente lavoro non si occuperà, tranne poche eccezioni, di Osvaldo Licini artista, che poco ci compete, ma del Licini scrittore e letterato. Licini, al momento, è considerato uno dei maggiori esponenti italiani dell’astrattismo artistico della prima metà del Novecento. Il giudizio sull’artista, però, non fu sempre questo, per un lungo periodo cadde nel dimenticatoio e solo negli ultimi trent’anni lo si è andato riscoprendo e valorizzando. Motivo questo, che bene spiegherebbe l’aumento vertiginoso delle quotazioni delle sue opere.

Licini nacque il 22 marzo 1894 da Vincenzo e da Amedea Corazza a Monte Vidon Corrado, nelle Marche, dove trascorse l'infanzia con il nonno Filippo, essendosi la sua famiglia trasferita a Parigi già dal 1885. Presso la capitale francese il padre, abile disegnatore e cromolitografo, iniziò a lavorare come cartellonista. La madre invece diresse un atelier di moda e la sorella, Esmé, fu ballerina all'Opéra. A soli quattordici anni il il pittore marchigiano si iscrisse all'Accademia di belle arti di Bologna, che frequentò fino al 1914, quando conseguì il diploma. Frequentò l’Accademia assieme a Morandi, Vespignani, Bacchelli, Pozzati e Tozzi. In quel periodo Licini partecipava a circoli intellettuali animati da discussioni di poesia e arte, da Soffici a la Voce, passando per Cézanne e gli Impressionisti. Con Morandi aderì al futurismo partecipando ad alcune serate del movimento a Modena nel 1913 e, successivamente, a Bologna e a Firenze. Licini si autodefinì sempre “pittore”, ma si interessò anche di letteratura e si cimentò sia nella poesia che nella narrativa.

Durante l'estate del 1913 a Monte Vidon Corrado il Licini scrisse i Racconti di Bruto, sulle quali torneremo in seguito. Nel marzo del 1914 partecipò per la prima volta a una esposizione – mostra dei "secessionisti" fu chiamata all'epoca – con Morandi, Pozzati, Vespignani e Bacchelli nei sotterranei dell'hotel Baglioni di Bologna, presenziata da Marinetti, Carrà, Boccioni e Russolo. La partecipazione del pubblico, incuriosito dalla novità, fu molto ampia tanto che i giovani artisti poterono usufruire degli inaspettati guadagni derivanti dalla vendita dei biglietti d'ingresso. Scarse risultano le tracce della produzione liciniana di questo periodo. L'Autoritratto (1913: Livorno, collezione Licini) e il ritratto di Giacomo Vespignani (1913), che con alcuni piccoli paesaggi "arabeschi" – come li definì l'artista – furono esposti a Bologna, sembrano, comunque, suggerire una consonanza formale con il coevo goticismo dei ritratti di Derain nell'impianto verticale dell'opera, nel ritmo segmentato dell'immagine, nel colore scabro, asciutto, al limite del monocromo. Nel 1915 si trasferì per un breve periodo a Parigi e presso il Café de la Rotonde conobbe e frequentò, Pablo Picasso, Jean Cocteau, Blaise Cendrars, Ortiz de Zarate, Moïse Kisling. Tra il 1922 e il 1925, ritornato al suo paese natio, intraprese uno stimolante dialogo culturale con gli amici marchigiani Felice e aErmenegildo Catalini, Gino Nibbi, Acruto Vitali.

Acruto Vitali, artista e poeta per Licini fu un mentore, in particolar modo per quanto concerne la poesia. Fu Vitali che gli fece conoscere Sandro Penna, fu sempre lui che lo avvicinò alla poesia francese, facendogli apprezzare la poetica di Rimbaud. Insieme coltivarono l’amore per Leopardi e la sua poesia. Per il pittore di Monte Vidone, Leopardi fu un’ossessione. Spesso si recava a casa dell’amico sangiorgese per farsi recitare qualche verso del poeta recanatese e puntualmente al termine di ogni recitazione, affermava che prima o poi avrebbe dedicato al poeta una serie di quadri. Un giorno Licini si recò da Vitali con un piccolo quadro sotto braccio e gli disse: «Ecco qua il mio Leopardi», era un’Amalassunta luna.

L’Amalassunta è il soggetto più noto della pittura liciniana. Per il pittore essa è «la luna nostra bella, la mia luna», dunque la luna marchigiana, osservabile solo dalle nostre colline. Il nome deriverebbe dalla regina Amalassunta, figlia del re degli Ostrogoti, Teodorico. Ella, durante il suo regno (526-535), spostò la capitale da Ravenna a Fermo, facendo vivere alla città un periodo di grande splendore.

Licini ebbe un rapporto del tutto particolare con il paesaggio marchigiano, amava profondamente la sua terra e i borghi che in essa sorgono come punte di diamante. Straordinario fu il suo legame con Grottazzolina, per la assiduità con cui frequentava la famiglia Catalini, originaria proprio del piccolo borgo marchigiano. Numerose lettere ai fratelli Felice e aErmenegildo Catalini ne testimoniano la profonda amicizia. Ermenegildo avvocato e professore di letteratura fornì all’amico tutti i libri di cui necessitava. Usando la ferrovia Adriatico-Appennino, Licini, con i due fratelli e l’amico sangiorgese Acruto Vitali, amava fare gite nei borghi situati lungo la tratta e spesso il gruppetto si fermava proprio a Grottazzolina, dove Licini amava dipingere. Il rapporto straordinario che ebbe con il territorio lo differenziò da tutti gli altri artisti, come Leopardi con la poesia, Licini con la pittura riuscì a mitizzare le nostre colline e i nostri borghi, rendendoli un unicum.

Dopo questa breve introduzione al “personaggio”, ritenuta quasi obbligatoria, si andrà a esaminare il Licini letterato, rispettivamente narratore, critico letterario e poeta.

La stesura dei Racconti di Bruto avvenne nell’estate del 1913, mentre si trovava presso la sua terra natia. L’opera si compone di cinque brevi storie che hanno come protagonisti, oltre al cinico Bruto-Licini, Giorgio e Giacomo, suoi compagni di studi. Archetipo autobiografico della ribellione, se non personificazione vera e propria del concetto di ribellione, il Bruto liciniano è una figura sospesa tra la provocazione avanguardistica e la perdita di senso del reale surrealista. Allo stesso tempo però rappresenta la prima apparizione del tema dell'erranza e del flâneur, che, «attraversando come topos della condizione poetica moderna la cultura europea tra Otto e Novecento, avrà una rilevanza centrale nella poetica dell'artista».

Licini non fu immediatamente soddisfatto della stesura dei Racconti, perciò per averene un parere più oggettivo inviò al musicista F. Balilla Pratella il primo racconto, intitolato La passeggiata sentimentale, chiedendogli anche di intercedere per la sua pubblicazione nella rivista del futurismo fiorentino, Lacerba, diretta da Papini e Soffici. La richiesta non ebbe esito positivo, probabilmente perché il gusto coprofilo, l'intonazione scurrile e l'eccessiva e gratuita crudeltà del testo dovettero apparire troppo dirompenti per un periodico che cercava comunque un ampio consenso. Licini narratore forse si era presentato troppo estremista anche per i futuristi. Andiamo però ora a esaminare alcuni tratti salienti dell’opera. Nel “Bruto” liciniano l’erotismo è elemento fondante del personaggio stesso. Un erotismo sguaiato e coprofilo, cortometraggio surreale di una virilità esplosa, di una sensualità cieca e senza vera aspettazione dell’altra metà. In Licini si può parlare di assenza della donna. “Dodò” la bellissima donna che si accompagna con “Bruto” sembra assistere, più che partecipare alle performances dell’amico: «afferrò Dodò, la rovesciò, la morsicò, la leccò, la baciò; dopo questi e altri maltrattamenti a lei e alle sue cose, ecco la sua reazione. Dodò si sollevò curiosa e lesse, poi si mise a ridere forte: “sei matto!?”». La donna qui è poco più che un oggetto di “giuoco”. Nei racconti esplode tutto il cagnesco cinismo presente nell’autore: «Bruto saltò dalla finestra di casa, saltò il cancello dell’orto, scavalcò la fratta e cadde sull’erba. Poi morsicò l’erba. Quando Bruto fu stanco alzò gli occhi e vide sulla testa i rami di un gran fico montò su e mangiò fichi a crepapelle».

Bruto, alter ego del giovane Licini, è un ragazzo iperattivo e a tratti quasi animalesco. Il protagonista dei Racconti continuerà a vivere nel pittore anche in età adulta. Licini è personaggio ben vivo nei racconti dei compaesani: il suo linguaggio naturale e colorito, le sue stravaganze d’uomo maturo che conserva atteggiamenti adolescenziali, i suoi gesti assurdi e surreali colpivano la gente di Monte Vidon Corrado. Tali testimonianze sono state raccolte nel catalogo di una mostra che il paese dedicò all’artista nel ventesimo anniversario della morte: «Sentiamo una voce pronunciare frasi, per noi sconnesse, ci avvicinammo a una grossa quercia, la in cima vedemmo Osvaldo Licini che distribuiva sproloqui a tutto e a tutti». Un’ulteriore testimonianza ci giunge da Alfredo Memo: «L’ho visto più di una volta seduto sopra al tetto di casa dove improvvisamente scoppiava in fragorose risate». Il Pittore era dunque rimasto un fanciullo che adorava arrampicarsi e amava i giochi rischiosi, come testimoniato da Giulio Tosi: «Amava i giochi rischiosi, e per poco non ci rimise la vita cadendo da una colonna che si trovava all’ingresso del paese alta più di cinque metri».

Licini fu anche un abile critico letterario, faceva parte infatti di varie redazioni di riviste letterarie e un episodio significativo che lo riguarda lo lega a un altro personaggio del Fermano, Franco Matacotta. Matacotta su suggerimento della poetessa Sibilla Aleramo nel 1942 inviò una copia dei Poemetti alla redazione della rivista Valori Primordiali, l’allora direttore, Franco Ciliberti, girò la richiesta a Licini, che era membro della redazione e conterraneo di Matacotta, ma egli con tre lettere bollo l’opera e non la recensì, definendola ricolma di leopardismo e «scolpita di un rettorico bolso». Probabilmente Matacotta non venne mai a sapere di tale giudizio, poiché Licini concluse la terza lettera con la raccomandazione a Ciliberti «resti tra noi».

Tale comportamento da parte del pittore fu veramente strano, poiché egli è sempre stato con i giovani aperto e amicale. Le testimonianze di tale comportamento sono numerose, le prime risalgono addirittura ai mesi di insegnamento di disegno tecnico tra il 1921 e il 23’ presso la Scuola tecnica di Fermo. Licini fu però molto deciso nella stroncatura della raccolta matacottiana: «Ho riletto i Poemetti con la speranza di potermi ricredere, di salvarlo in qualche modo. Niente da fare. Qualche briciola, qualche immagine discreta si perde nel gran mare magno della pseudo poesia leopardiana rettorica bolsa. Matacotta primordiale! Ma siamo matti! Tutti quegli angeli azzurri e cherubini e candide colombe…sono più temibili dell’ultimo Severini neoclassico». Il sospetto è che il pittore abbia attaccato il giovane poeta poiché ha visto la sua opera come un’intromissione nel suo campo di studio e d’indagine, infatti immediatamente si nota come i temi trattati dai due, uno nella pittura, l’altro nella poesia, siano sostanzialmente gli stessi, si va da un forte leopardismo al tema degli angeli caduti. A questo va aggiunto ciò che si è detto in precedenza, cioè che Licini non era semplicemente uno studioso di Leopardi, ma un cultore, da parte sua c’era una vera e propria venerazione per il poeta recanatese, perciò un utilizzo improprio delle sue forme poetiche e concettuali non sarebbe mai stato bene accetto.

Licini collaborò come redattore alla rivista Valori Primordiali per circa quattro anni, ma dagli scambi epistolari con Vitali sappiamo che collaborò saltuariamente anche con altre riviste. Tra queste ricordiamo quelle con il Corriere Padano e con Il Milione Bollettino della Galleria di Milano. Uno dei pezzi più interessanti che andò a pubblicare fu quello nel numero 1 del 1934 della rivista L’Orto, intitolato Ricordo di Modigliani. «Una sera al Caffè del Petit Napolitain a una tavolata di pittori, Modigliani disegnò il mio ritratto. La sua faccia era tutta un raggrinzimento. Le famose smorfie di Modigliani, quando disegnava, non furono mai una posa. “Disegnare è possedere” gridava “un atto di conoscenza e di possesso più profondo r concreto del coito, che solo il sogno o la morte possono dare”. Si poneva di fronte all’uomo, questo enigma-miracolo delle forme, tutto il suo istinto carnale e mistico proteso al congiungimento magico per cui ogni distanza e limite tra sé e quel mondo annullava. Di queste fusioni armoniche del suo “angiolo”, con le forme, testimoniano i disegni, che sono la prova più convincente di come egli abbia saputo trascendere la realtà: ritmi brevi, pure essenzialità, virgulti di forza per fulminei concentrati umani». Ciò che salta immediatamente all’occhio della scrittura saggistica liciniana è l’essenzialità, è una scrittura minimalista che in poche righe riesce a dare il concetto del tutto, ma che in parte ancora risente dell’influenza futurista, non dimentichiamo che siamo nel 34’.

Dell’anno successivo sono i suoi interventi sul Bollettino della Galleria del Milione. Interessante è la sua Lettera aperta al Milione: «Noi non ci conosciamo, amici del Milione. Per caso ci siamo trovati in quella nona saletta della Quadriennale, dove la gente passa allegra, indignata o indifferente. E ci siamo riconosciuti fratelli in spirito. E mi avete invitato a esporre a Milano. Vi confesso che lo faccio un poco malvolentieri. Alle vostre insistenze mi sono piegato per quella disciplina che impone la nostra regola. E poi vi avverto che i miei capolavori sono ancora tutti da fare. Ne tengo più d’uno in cantiere. Ma non sono ancora pronti per scendere in mare. Dunque fino a quattro anni fa ho fatto tutto quello che ho potuto per fare della buona pittura dipingendo dal vero. Poi ho cominciato a dubitare. Dubitare non è una debolezza, ma è un lavoro di forza, come forgiare, ha detto Cartesio». In questo articoletto, che poi continua nella descrizione della propria pittura, ciò che balza all’occhio è l’uso della punteggiatura, un uso persistente, impetuoso, quasi sovrabbondante, che va continuamente a interrompere la fluidità del discorso, come a far inciampare il lettore.

Particolare è lo pseudo-saggio che pubblicò in Corriere Padano nel 1937 dal titolo Natura di un discorso: «Lo Scorpione credeva d’essere lui il più bello e voleva proclamare regina e venere la Scorpiona. Ma l’uomo disse che era lui il più bello e proclamò sé stesso re del mondo. Poi sono venuti Ojetti, Waldemar George, e tutti i Marani della terra, e l’uomo fu incoronato di nuovo Re del mondo. Si tornò a ripetere che l’uomo era il microcosmo dell’universo, che l’uomo era il metro, la misura di tutte le cose, che tutto era nel tutto, e che col metro estratto dalle viscere dell’uomo si poteva ricavare la chiave del cosmo. Vecchie più del cocco queste frasi dovevano servire a estrarre il ragno dal baco: l’arte. E furono dette per la salvezza dell’Arte Mediterranea». Il saggio, con un incipit che molto ricorda i Racconti di Bruto, cerca di smontare le teorie antropocentriche e ancor di più quelle eurocentriche nella concezione dell’arte.

Sino a ora si è trattato il Licini narratore e saggista, vorremo ora in questa sede affrontare la poetica liciniana, ove emerge il Licini più intimo e autentico. Nei componimenti liciniani emerge tutto il suo amore per Leopardi e per la luna leopardiana, queste alcune sue righe a essa dedicate:


Ecco la luna bella
Mi vedi là su mi vedi volare là su
Sulla luna
Eccomi
Come volo per tutto il mondo tutto l’universo
L’infinito è mio.


Il componimento si trovava all’interno di una lettera indirizzata all’amico Vitali e poi pubblicata nel volume Acruto Vitali, poeta e pittore (1903-1990). L’intellettuale sangiorgese fu una sorta di maestro poetico per Lici, fu proprio lui infatti che gli fece conoscere Sandro Penna e che lo iniziò alla poesia maledettista francese, inoltre i due condividevano l’amore per Leopardi. Uno dei suoi testi poetici più noti è quello che compose dopo aver trascorso una giornata sul Monte Sibilla assieme all’amico Vitali:


Grande sole impennato al risveglio,
lancia, esplodi, il buio mio cuore frantuma.
Io sono quel tuo figlio ultimo nato,
danzante figlio d’armonia rapace,
con la carogna d’anima alla bocca,
da tue furenti lance trapassato.
Ho messo la strada sotto ai piedi
Che il mio bastone scandisce da finto pellegrino
A migrare a godere soffrendo.
Condannato (l’ora del riscatto non è suonata).
Oh dirupata, impervia,
sulla fatalità di questa marcia,
stella, sempre più mancabile e lontana.


Anche questo componimento è stato pubblicato postumo, si trovava in un’epistola inoltrata al solito Vitali. Qui Licini, da una parte rimane legato al leopardismo delle operette Morali, proprio sul concetto dell’uomo-natura, ma dall’altra si allontana da questo assumendo un linguaggio poetico derivante dalle esperienze futuriste e avanguardiste, linguaggio che si discosta totalmente dal primo componimento riportato dedicato alla luna e che molto richiama il linguaggio narrativo sviluppato in Racconti di Bruto. Un linguaggio aggressivo, violento e pieno di suono.
Licini fu un intellettuale completo, che fece molteplici esperienze e visse attivamente l’arte, dalla prosa alla pittura, passando per la critica letteraria e artistica, e la poesia.

 
Riferimenti bibliografici:
 

R. Milani, Forme del silenzio e della contemplazione. I paesaggi di Morandi e Licini, in Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, pp. 65-72.

F. Pirani, Osvaldo Licini, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 65 (2005), https://www.treccani.it/enciclopedia/osvaldo-licini_%28Dizionario-Biografico%29/

M. Patti, Verso la modernità: Licini, Morandi e la mostra dell’Hotel Baglioni, in Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, p. 77.

Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011.

M. Patti, Verso la modernità: Licini, Morandi e la mostra dell’Hotel Baglioni, in Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, p. 79.

D. Pupilli, Carte fermane. Figure e aspetti della cultura fermana contemporanea, Fermo, Andrea Livi editore, 2021, p. 43.

L. Trapè, Licini Leopardi e il paesaggio sublime, Macerata, Ephemeria edizioni, 2019, p. 23.

R. Renzi, Acruto Vitali: dalla poesia alla pittura, in Letteratura e pensiero, n. 16, aprile-giugno 2023, pp. 231-236.

M. De Micheli, Osvaldo Licini, Pisa, Giardini, 1974, p. 51.

F. Matacotta, Poemetti (1936-1940), Roma, Edizioni di Prospettive, 1941.

G. Manacorda, I due modi della parola di Matacotta, in Omaggio a Matacotta, a cura di Luigi Martellini, Fermo, Tipolitografica Fermana, 1982, p. 11.

C. Verducci, Franco Matacotta testimone del suo tempo, in Franco Matacotta poeta dell’impegno civile e politico, Fermo, Andrea Livi editore, 2018, pp. 7-15.

Archivio Ciliberti della Biblioteca di Como, lettera del 30 aprile 1942.

R. Renzi, Ritratto di Franco Matacotta tra poesia, amicizie e inediti, in Letteratura e pensiero, n. 19, gennaio-marzo 2024, pp. 120-142.

O. Licini, Natura di un discorso, in Corriere Padano, 9 ottobre 1937

 Licini Morandi. Divergenze parallele, a cura di M. Pasquali e D. Simoni, Calenzano, Grafica Lito, 2011, p. 248.

O. Licini, Lettera aperta al Milione, in Bollettino della Galleria del Milione, n. 39, 1935.

O. Licini, Natura di un discorso, in Corriere Padano, 9 ottobre 1937.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]