OSPEDALE DI SAN FRANCESCO GRANDE A
PADOVA
UN NUOVO INIZIO
di Giuseppe
Tramontana
Ciò che le medicine non curano, lo
cura il bisturi,
ciò che il bisturi non cura, lo cura
il fuoco,
ciò che il fuoco non cura, va
reputato insanabile.
Dando uno sguardo alla Pianta di
Padova di Giovanni Valle (1784)
– disegno trascritto su 20 lastre in
rame di vario formato (Ghironi,
Mazzi 1985: 37) che risulta essere,
nella sua edizione originale, una
delle più importanti e celebri carte
della città – con le vie che si
dipanano dal centro storico fino
alla grande confluenza di Prato
della Valle, quasi a ridosso della
Basilica di Sant’Antonio, appare del
tutto evidente una sorta di
triangolo, di cui le vie San
Francesco, del Santo e Galileo
Galilei (ex Vignali) risultano
essere i lati. È qui che si ritrova
una delle pagine più gloriose di
tutta la vicenda storica del
francescanesimo patavino, legata
alla presenza di cinque punti di
irradiamento: l’ospedale, il
convento, la chiesa di S. Francesco,
la Scuola della Carità e il
tempietto di Santa Margherita.
È risaputo che l’ospedale di San
Francesco dell’Osservanza e gli
attigui chiesa e convento furono
eretti da Baldo e Sibilia Bonafari
nel secondo decennio del
Quattrocento. Baldo era originario
di Piombino. Di lui si hanno notizie
a partire dal 1381, quando è
attestato come studente di diritto
nello Studium patavino.
Prima di addottorarsi era entrato al
servizio di Francesco I da Carrara,
il quale nel 1387 fu lo inviò presso
Ugolotto Biancardo per lamentarsi
della mancata consegna di Vicenza ai
signori di Padova. L’anno
successivo, con l’ascesa dei
Visconti, il Bonafari lasciò la
città e seguì Francesco II Novello
in esilio. Quando Francesco Novello
tornò a Padova, nel 1390, fu
nominato referendario e mantenne
questo ruolo sino alla definitiva
caduta dei carraresi.
Nello stesso anno ricevette la
licenza in utroque iure. Ma,
come si sa, il 21 novembre 1405,
“allorché da qualche giorno ormai le
insegne di San Marco sventolavano su
porta San Giovanni e il sussulto di
una rivolta popolare aveva reso vana
ogni difesa” (Puppi-Universo,
1982: 85), Padova si diede a
Venezia. Il successivo 30 gennaio
1406, con la cosiddetta “bolla
d’oro”, avverrà solennemente il
passaggio della città del Santo
sotto le insegne veneziane.
Nel frattempo, il 19 gennaio,
Francesco Novello era stato
condannato a morte nelle segrete del
palazzo dei Dogi su sentenza
inappellabile del Consiglio dei
Dieci, mentre i suoi collaboratori,
compreso Baldo Bonafari, venivano
condannati all’esilio. L’ex
consigliere dei Carraresi tornerà a
Padova solo nel 1413, giusto in
tempo per porre la prima pietra
dell’Ospedale Grande di San
Francesco.
Va sottolineato come la volontà di
costruire un ospedale che non
servisse solo da ricovero per
paupere set indigentes
(cosa che avveniva in tutti gli
hospitalia delle varie città
italiane ed europee), ma fosse
soprattutto dedicato alla cura e
all’assistenza degli ammalati, era
legata anche a fattori contingenti
ossia agli attacchi pestilenziali
subiti da Padova nel corso del
Quattrocento. “Il tessuto urbano”
scrive Sante Bortolami “dovette
contare le conseguenze delle crisi
epidemiche iniziate verso la metà
del XIV secolo. Gli attacchi
pestilenziali continuarono, con
intensità diversa, per tutto il
Quattrocento” (Bortolami
2009: 179).
Nel 1405 un’epidemia devastante
aveva colpito la città. E
probabilmente, in quell’occasione,
anche Sibilia si era ammalata, visto
che in quell’anno aveva predisposto
un primo testamento che conteneva
già disposizioni in merito alla
realizzazione di un ospedale. Altri
attacchi epidemici si sarebbero
avuti nel 1427-1428, nel 1436, nel
1438-1440, nel 1456-1457, nel 1464,
nel 1478 e nel 1484-1485.
Ovviamente, come sottolineano Grossi
e Jori, la peste portò a un crollo
della popolazione, che scese dai
32.000 abitanti del secolo
precedente ai 18.120 del 1411, ai
16.736 del 1430 (Grossi-Jori,
2014: 103). La diminuzione della
popolazione ebbe ripercussioni
negative sulla disponibilità di
manodopera e sulle iniziative
imprenditoriali, causando un
rallentamento delle attività
economiche. In questo senso, vanno
inquadrati l’aumento degli abbandoni
degli infanti e la recrudescenza del
pauperismo nonché la crescita
esponenziale di soggetti bisognosi
di cure mediche. È palese, quindi,
come la nascita dell’ospedale di San
Francesco si sia inserito nel vasto
movimento di riforma del sistema di
assistenza ai poveri, caratteristico
del XV secolo.
Infatti, proprio in quel lungo
secolo, soprattutto grazie alle idee
francescane, stavano sorgendo nelle
città italiane diversi ospedali
“Grandi”, creati per superare il
vecchio concetto medievale di
assistenza. Per Venezia, quello di
Padova fu il primo dei “Grandi
ospedali” di Terraferma (Pastori
Bassetto, 2004: 18). Con una
notevole peculiarità: nasceva
soprattutto per prestare cure
mediche agli ammalati.
Nel gennaio 1419, nella sala grande
dell’ospedale, alla presenza del
podestà di Padova Fantino Dandolo, i
rappresentanti della confraternita
di Santa Maria della Carità e quelli
di Sibilia Bonafari, Prosdocimo
Conti e Biagio da Merlara, giurarono
una convenzione che avevano
concordato dopo laboriosa a e
contrastata trattativa. Essa
prevedeva l’iscrizione di Sibilia
nella fraglia e il diritto
dell’associazione di usare per le
sue necessità una sala e due stanze
dell’ospedale, e una cappella nella
chiesa di San Francesco; fratelli
poveri della confraternita, per un
massimo di dieci, avevano il diritto
al ricovero gratuito in ospedale.
Erano cadute, invece, le richieste
della fraglia di controllare
l’assistenza ospedaliera e di
ricevere una cospicua elemosina
annuale di frumento. Pochi mesi
dopo, Sibilia, espresse le direttive
per il futuro dell’ospedale, stabilì
alcuni legati, nominò suoi eredi
universali i poveri ricoverati
nell’ospedale di San Francesco e
prescrisse che il convento fosse
abitato solo dai francescani
osservanti, che dovevano celebrare
nella chiesa attigua. Eletti gli
esecutori e commissari testamentari
a vita i collaboratori di fiducia,
attribuì al collegio dei giuristi il
patronato ovvero il governo
dell’ospedale. Circa tre settimane
dopo, il 12 dicembre 1421, Sibilia
cessò di vivere. L’ospedale non era
ancora pronto, ma con il suo
patrimonio già assisteva donne,
amiche e protette di Sibilia e nello
stesso anno arrivarono le prime
donazioni e i primi lasciti che
rivelano la notevole risposta della
società padovana alla nuova
iniziativa (Collodo,
1983: 35-36).
Il “governo” dell’ospedale suscitò
contrasti. Infatti, se non si hanno
notizie di momenti conflittuali con
le autorità civili, le divergenze si
ebbero con il vescovado e le
autorità religiose. I motivi del
contendere erano molteplici e
andavano dal solo diritto di visita
del vescovo (previsto certamente da
Sibilia, ma con l’esclusione di
altre forme di ingerenza nella
gestione dell’ospedale), al rifiuto
della giurisdizione del tribunale
ecclesiastico per dirimere le
eventuali controversie sorte
all’interno della struttura, fino
alla questione della nomina del
priore. Quest’ultima contesa si
trascinò fino al 1441, allorché,
finalmente, l’ospedale ebbe il suo
primo priore, il dottore in diritto
civile Bartolomeo Colle figlio di
Muzio da Urbino. A lui successe nel
1452 Giacomo Bonifaci Dall’Olio, un
mercante guardiano della Carità, che
restò in carica fino al 1460.
La costruzione
Come si è già visto, l’area
destinata a ospitare la struttura
assistenziale apparteneva già ai
Bonafari ed era in gran parte
situato nelle adiacenze della loro
domus, presso l’attuale via
S. Francesco, a ovest dalla via del
Santo, a sud della contrada dei
Vignali (oggi via Galilei) e a est
dell’area su cui poco dopo verrà
innalzato il convento di S.
Francesco. Il nuovo complesso nacque
in una posizione insolita, tra le
attuali via San Francesco, via del
Santo e via Galileo Galilei, ossia
lungo una via di transito, che non
rispondeva ai dettami
urbanistico-sanitari del tempo,
specie se si considera che la
struttura per volere dei testatori
avrebbe accolto malati di tutti i
tipi e tra questi anche i contagiosi
e i sifilitici. L’ingresso
principale era da via San Francesco,
uno scalone conduceva ai piani
nobili superiori. Qui probabilmente
si riuniva il consiglio
d’amministrazione. L’ospedale era
composto da più edifici a due piani,
con diverse corti interne. Era
articolato in due reparti, uno
femminile e uno maschile. Come
sottolinea Giulio Bresciani Alvarez,
si trattava di inserire il nuovo
edificio in un contesto urbano
interessato da sempre da
insediamenti immobiliari
comprendenti orti, case e cortili,
un contesto disimpegnato dai due
tracciati di contrà Pontecorvo (oggi
via S. Francesco) e via del Santo,
convergenti in punti nodali della
città. Funzione più modesta, in
quanto zona quasi esclusiva di orti,
aveva invece via Vignali, che
chiudeva a levante il triangolo
costituente l’intero isolato
(Bresciani Alvarez, 1983: 60).
Come abbiamo constatato,il primo
contratto, datato 6 agosto
1414,sottoscritto da Galvano
Lattuga, uno dei procuratori di
Baldo, ordinava ai tagliapietra
Jacopino fu Pietro da Milano,
Gabriele fu Franceschino e Berto fu
Zenone la realizzazione di cinquanta
colonne in pietra di Montemerlo,
cinquanta mensole di pietra di Nanto
da collocarsi come capitelli in
pilastrismagnisinferioribus,
cioè situati al piano terreno, e
altrettanti mensole pro
bodonalibus de lapidibusMontisilicis,
ossia elementi di appoggio ai muri
delle grandi travi in legno
impiegati nei solai e nelle
coperture. Alcuni mesi dopo, il 23
novembre, il Lattuga prese accordi
Leoncio fu Jacopo della Valsugana
per la fornitura di una cospicua
partita di legname che, a più
riprese, sarebbe dovuta arrivare nel
giugno 1415 (a S. Giovanni), nel
settembre dello stesso anno (a S.
Michele) e, infine nel maggio del
1416. Intanto il 18 dicembre dello
stesso 1414 Baldo sottoscrisse un
contratto con Mastro Matteo da
Ravenna, affiancato dal Maestro
Cristoforo di Zenone da Verona e dal
Maestro Giovanni di Francesco. A
essi toccava il compito di eseguire
le opere murarie riguardanti “unushospitaliscum
porticali fiendocumpodiolos che
dovevano andare circumcirca dicta
hospitalia... superiusinferius,
espressione che si può riferire sia
al porticato esterno sia a un
chiostro doppio, soluzione questa
già adottata nei loggiati della
reggia carrarese e poi, allo scadere
del secolo, in tantecostruzioni
monastiche padovane” (Bresciani
Alvarez, 1983: 62).Man mano che i
lavori avanzavano, si presentavano
nuove esigenze e nuove maestranze.
Il 28 giugno 1415 un contratto venne
stipulato dal Lattuga con i fabbri
Domenico di Marco e Gabriele di
Giovanni. Lo stesso contratto
prevedeva la fornitura di ferro
necessario a rinforzare gli archi
destinati alla protezione delle
finestre. Il 15 aprile 1417 lo
stesso materiale verrà ordinato per
la costruzione di porticali
ecclesiae et hospitalis. Quasi
un anno dopo, il 6 aprile 1418, un
altro contratto prevedeva la
realizzazione di lavori in legname
per la chiesa e per lo speale de
femine. A tal fine Lattuga si
accordava con i marangoni Antonio de
Zigyo e Domenico detto Ruzante, che
avrebbero dovuto posare travi ai
solai di due piani, assi e
cantinelle. Poi venne incaricato
Maestro Nicolò Gobo di creare una
scala in legno per collegare i due
piani dello speale de femine,
concluso intorno al 1429. Fu lo
stesso Gobo a realizzare servizi
igienici e locali per i ricoveri di
materiali. Altre coperture lignee di
solai vennero realizzate nel 1430,
come rivela un contratto stipulato
il 4 maggio di quell’anno tra i
marangoni Gasparo e Bertolotto,
associati al già noto Domenico
Ruzante, con i commissari Lodovico
Buzzacarini, Biagio da Merlara,
Ludovico Dal Legname e Gualperto.
Altri lavori, poi, vennero
effettuati tra il 1433 e il 1436,
allorché l’ospedale acquisì le
proprietà dei da Pergine, confinanti
con il convento.
L’impianto della struttura era
verosimilmente in sintonia con
quelle dell’epoca in cui sorse. La
costruzione del San Francesco,
infatti, si inseriva in un momento
di grande rinnovamento edilizio
degli ospedali italiani: erano
quelli gli anni in cui si
costruirono l’ospedale Maggiore di
Milano e quello degli Innocenti a
Firenze. L’aspetto monumentale e di
rappresentanza dell’edificio era
dato, oltre che dalla facciata e dal
portico su via S. Francesco, anche
dal vasto cortile interno a portici
e loggiati. Dal punto di vista
stilistico-architettonico, vennero
usate – caso più unico che raro nel
contesto padovano – le arcate a
sesto rialzato nel prospetto del
portico, dotato di una moderata
finestratura. Il cortile interno
risultava articolato a doppio
ordine, dunque a porticato e
loggiato. Al piano terreno le arcate
erano sostenute dalla sequenza di
pilastri a sezione ottagonale in
mattoni. Il loggiato superiore
all’interno del cortile
probabilmente era costituito da un
continuum di colonne e pilastri
posti a sorreggere un sistema
architravato ligneo (Bresciani
Alvarez, 1983: 69). All’interno del
complesso edilizio, trovavano spazio
una grande cisterna, dei pozzi, un
grande orto, una stalla, una
spezieria, un’unica “medicaria”,
abitazioni per il personale, una
lavanderia, diverse cucine, cantine
e magazzini. Nel 1706 verrà
allestita anche una stanza per
praticare le autopsie in presenza
degli studenti: fino a quel momento
erano state eseguite in luoghi
improvvisati.
Non è noto l’anno in cui l’ospedale
sia entrato in funzione e forse
bisogna attestarsi a una data a
ridosso del quarto decennio del
secolo(Giovanni da Rimini, studente
dello Studium, che abitava
nell’ospedale insieme a un altro
allievo di nome Bainira,
probabilmente tra i primi ospiti
dell’istituto,nel 1431-32, acquistò
vino e frumento, in Collodo, 1983:
52, n. 94), dopo la costruzione
della cisterna (1427), il
completamento del reparto femminile
(1429), e la realizzazione della
nuova sala per la Confraternita
della Carità (1430). Tuttavia, già
da alcuni anni la nuova fondazione
aveva innovato la toponomastica
della città: risale al 1426 la prima
testimonianza relativa alla
denominazione di contrada
dell’ospedale di S. Francesco in
sostituzione di quella di S.
Margherita e successivamente il
nuovo toponimo cominciò a essere
utilizzato in luogo di contrada S.
Lorenzo e di contrada Pontecorvo,
situate lungo il medesimo asse
stradale, rispettivamente a est e
ovest di S. Francesco.
L’area ospedaliera continuò a
ingrandirsi. Secondo i dati
contenuti negli atti rogati dal
priore Bartolomeo da Urbino negli
anni 1447-51, le due sezioni –
maschile e femminile – della
struttura erano disposte a
semicerchio, orientato a sud-est
rispetto alla chiesa di S.
Francesco, e costituite da più
edifici a doppio piano, percorsi dal
lato donne da pozoli che
guardavano rivolte verso la corte
interna; entrambe le sezioni
disponevano, poi, di un’infermeria,
di due sale grandi sovrapposte, di
camere singole e multiple. In comune
erano la medicaria e la spezieria,
benché fossero situate nella parte
maschile. Viceversa, cucina, forno e
cisterna erano collocati nella parte
femminile, pur avendo una funzione
in comunitaria.
Sul lato rivolto verso la strada
principale si trovava la sala nuova
della confraternita della Carità, la
quale separava gli ambienti
ospedalieri dal convento dei frati.
Intorno al 1448, la residenza del
priore fu spostata dal lato della
strada verso l’interno del complesso
e precisamente dietro la sacrestia
della chiesa, al cui esterno si
trovava una scala di pietra che
conduceva all’ospedale. In questa
stessa zona doveva trovarsi anche il
cimitero che accoglieva le salme dei
deceduti in ospedale.
L’organico, gli ospiti, i rapporti
con lo
Studium
In merito all’organico del
personale, oltre ai cappellani che
avevano la cura d’anime, e al priore
che insieme al collegio dei giuristi
aveva la responsabilità del governo
della struttura e della direzione
amministrativa,vi erano il fattore,
che presiedeva all’amministrazione
generale, il vicepriore e la
prioressa, sovraintendenti
rispettivamente la sezione maschile
e femminile e coadiuvati dal
canipario e dalla massara. Ai
servizi generici, da quelli della
cucina e lavanderia alla
coltivazione dell’orto e ai lavori
in stalla era destinato un numeroso
stuolo di inservienti e operai.
Praticamente impossibile è conoscere
il numero delle presenze giornaliere
o dei posti letto. Relativamente ai
ricoverati, di certo dovettero
essere svariate decine. Secondo il
proposito dei fondatori e le
tradizioni dell’epoca, nell’istituto
trovavano assistenza non solo gli
infermi, ma anche quanti per età
avanzata, mancanza di mezzi,
solitudine avevano bisogno di cure.
Nell’istituto accorrevano a cercare
ospitalità anche i poveri che non
provenivano dall’ambiente locale.
Un caso del genere fu quello
Gilberto del fu Dionisio Veronese da
Saletto (Montagnana), la cui
famiglia all’inizio del Quattrocento
era stata fittavola dei Bonafari
appunto a Saletto: nel 1454 donò
all’ospedale sei piccoli spezzoni di
terra, salvo usufrutto, in cambio di
ricovero, vitto e vestito. Nel 1446
è invece attesta la presenza del
maestro veneziano Antonio Arpi e di
sua moglie Andriola: entrambi donano
i beni in loro possesso (per la
donna, i beni dotali) in cambio di
ricovero, vitto e vestiti. Collodo
segnala, inoltre, “perché cade in un
periodo di forte ostilità nei
confr4onti degli ebrei”, la presenza
nel 1470 e nel 1471 dell’ebrea Anna
Alemanna, che donò all’ospedale i
suoi diritti su un investimento di
200 ducati, fatto in società con un
correligionario defunto (Collodo,
1983: 40). Nell’istituto trovarono
ricovero anche gli scolari poveri
dello Studium. Fra di essi
tre studenti di medicina: Santino
Conti studente in arti (1444),
Pietro di Francia, scolaro in
medicina (1447) e Nicolò di Leone,
studente calabrese in arti e
medicina (1447-1450). Scolaro in
diritto canonico era invece Antonio
da Montefiori, in ospedale tra il
1448 e il 1451. Studenti di diritto
erano poi i riminesi Giovanni da
Rimini, Antonio di Nicolò (pure
cappellano tra il 1448 e il 1451),
Andrea da Rimini e Antonio di Nicolò
Saladino, presente dal 1447 al
1451). La popolazione dell’istituto
comprendeva anche un certo numero di
preti come Francesco del fu Angelo
da Venezia, presente sicuramente nel
1449 e il presbitero Antonio da
Lucari (in loco nel 1450).
Di diversa provenienza sociale e di
ben altra base economica godeva
Maria, vedova di Domenico
Carmagnola, che dopo essere entrata
in ospedale forse per necessità,
aveva deciso di restarci, aderendo
all’ordine delle terziarie
francescane. Un’altra donna che
intraprese un percorso simile fu
Taddea Agosti, vedova Papafava, che
abitò in S. Francesco nel triennio
1447-1450, dopo aver aderito alla
religiosità francescana, maturata da
circa un ventennio per influenza del
priore Bartolomeo da Urbino, in
buoni rapporti con lei da parecchi
anni. Avevano accompagnato Taddea la
nuora Ricca, vedova pure lei, e la
famula Agnese da Creazzo, al
suo servizio dal 1439. Dopo essere
entrata nell’ordine, Taddea rimase
in ospedale per tutta la vita,
dedicandosi all’assistenza dei
degenti. Terziario francescano era
pure Guidone Lamberti, presente
sicuramente negli anni 1447-1451. La
presenza di terziari fornì un
contributo notevole per soddisfare
le necessità di servizio non
specializzato, per il quale
occorreva l’impiego di una
manodopera volontaria: per
incentivare una simile scelta, la
bolla di papa Eugenio IV diretta
all’ospedale nel 1442, garantiva
l’indulgenza di un anno a chi si
fosse reso disponibile a servire
volontariamente nell’istituto.
Altra fonte di lavoro non remunerato
erano gli ospiti in buona salute.
Nonostante il servizio volontario o
comunque non retribuito, il
contributo alle spese di assistenza
da parte dei degenti che se lo
potevano permettere, il continuo
flusso di elemosine, i legati
testamentari e gli abbondanti
redditi derivanti dai beni in capo
all’ospedale, le spese erano
notevolissime, considerati i costi
per il mantenimento degli ospiti e
del personale, il costo delle
medicine, gli esborsi per la
manutenzione edilizia, le tasse
straordinarie, le spese legali a
cause delle numerose controversie
che gli amministratori della
struttura dovettero affrontare.
Non si sa molto del personale
sanitario operante nella struttura
durante i primi anni di vita. Lo
storico della medicina Loris Premuda
cita il chirurgo Nicolò De Musicis
in servizio nel 1534, precisando
tuttavia che già dal 1519 si ha
notizia di tre medici che lavorano
nell’edificio: un medico physico
(“per visitar tutti li poveri
infermi della casa, si homeni che
donne”), un medico cirogico(“per
medicar d’onguenti tutti li poveri
impiegadi dell’ospedal”), che aveva
sotto di sé un barbiero
(dedito a “salassar tanto homeni che
donne”), e un medegotto, che
doveva risiedere nell’ospedale e non
poteva uscire senza permesso del
priore “perché come viene qualche
ferito fresco, li ebbe poner le
stoppe, e far altro che fosse
necessario, che ricercasse fretta”.
Inoltre, un haromatario o
speciale si occupava della
“specieria e di tutte le cose
pertinenti ad essa” (Giormani, 1983:
165). Ogni mattina visitano le
infermerie, prescrivono i farmaci
necessari, soccorrono i feriti,
stabiliscono la dieta più adeguata.
Gli assistenti invece si occupano
dell’accettazione dei malati, dei
casi urgenti e riferiscono ai medici
l’andamento dei pazienti. Stretti
furono fin da subito i legami tra
ospedale e Studium. Nel marzo
del 1529 prestava servizio al S.
Francesco il chirurgo Nicolò de
Musicis, che dal 1526 occupava la
cattedra di chirurgia
all’Università. Incarichi presso
l’ospedale avevano avuto anche i
cattedratici di fama Carlo Patin,
titolare della prima cattedra di
chirurgia nel 1681, Ermenegildo
Pera, allievo di Benedetto
Selvatico, medico assistente in
ospedale nel 1635, che, dopo sette
anni di assistenza due di
protomedico a Portogruaro e dodici a
Feltre, ottenne la cattedra di
medicina teorica nel 1657, Agostino
Pivati, che svolge l’incarico di
medico assistente prima di partire
per Costantinopoli al seguito del
bailo Giovanni Morosini,
Michelangelo Molinetto, allievo del
padre Antonio, docente, nel 1674, a
22 anni, all’università, e infine,
l’ungherese Stefano Orbok de Kökös,laureatosi
in filosofia e medicina nel 1626,
che morì a 33 anni, il 13 aprile
1628, e venne sepolto nel cimitero
dell’ospedale. Tradizione vorrebbe
che l’ospedale di San Francesco sia
stata la prima sede
dell’insegnamento clinico al mondo,
a opera di Giovanni Battista da
Monte, docente di medicina pratica
ordinaria a Padova dal 1539 e di
teorica dal 1543. A lui spetterebbe
il merito di aver integrato le
lezioni universitarie con la pratica
clinica presso il letto del malato,
condotta proprio al San Francesco. A
sostenere questa tesi,
nell’Ottocento, era stato il medico
Giovanni Rasori seguito poi da
Giuseppe Cervetto e molti altri
storici della medicina (Ongaro,
2004, p. 33). Tuttavia, come
racconta Premuda, Giuseppe Orsolato
a fine secolo, sulla base di
documenti d’archivio, mise in
discussione questo primato,
sostenendo come in realtà non fosse
possibile dimostrare un inserimento
di Da Monte nell’ospedale di San
Francesco, quanto piuttosto la sua
sporadica presenza in occasione di
qualche consulto richiesto dai
medici della struttura. A lui si
deve, in ogni caso, l’aver
riconosciuto l’importanza del
metodo, della pratica clinica
nell’insegnamento universitario. Il
primo accenno a una relazione tra
l’attività ospedaliera e quella
universitaria – sebbene non
istituzionalizzata – risale al
1577-78 quando Marco degli Oddi,
primario dell’ospedale e dal 1578
docente di medicina teorica
straordinaria, e Albertino Bottoni,
professore di medicina pratica
straordinaria, accompagnarono gli
studenti al San Francesco per le
esercitazioni pratiche. Si dovette
attendere il 1619 perché un
insegnamento universitario
esplicitasse l’obbligo di visitare i
malati dell’ospedale di San
Francesco. E funel 1764, con la
ducale firmata dal doge Alvise IV
Mocenigo l’8 gennaio, che venne
riconosciuta la prima cattedra di
medicina pratica con l’obbligo per i
docenti di condurre dieci o dodici
studenti appositamente scelti per
visitare i malati dell’ospedale,
sancendo ufficialmente la presenza
universitaria tra le mura
dell’istituto e istituendo al suo
interno due cliniche, la medica e la
chirurgica.
Dopo la visita, il docente avrebbe
dovuto tenere una lezione in un
locale dell’università. Ogni anno,
la prima lezione doveva essere
svolta in latino. Il corso sarebbe
durato fino ad agosto, ma i malati
sarebbe stati da lui visitati anche
nei due mesi di vacanza.
Conclusioni
Se, da un lato, le due nuove
cliniche procurarono una notevole
fama al San Francesco; dall’altra,
gravarono sul bilancio dell’ospedale
dato che erano necessitavano più
medicinali, assistenza e servizi. Di
fronte ai nuovi impegni, la
struttura non sembra più in grado di
risponde. Nel tempo iniziarono a
sorgere emergenze sanitarie e
difficoltà economiche, nonostante le
donazioni e i beni accumulati negli
oltre tre secoli di vita. Anche se
dalla metà del Seicento continuarono
a essere eseguiti lavori di
ampliamento e ristrutturazione che
interessarono un po’ tutti i
fabbricati, con il passare degli
anni il numero dei malati superò di
gran lunga la ricettività prevista
per il San Francesco. Le prime
conseguenze tangibili furono
l’aggravarsi delle condizioni
igieniche e un deficitario bilancio
economico, che, a sua volta, rendeva
irrisolvibili i problemi esistenti.
Questa situazione indusse consiglio
e priore a valutare la costruzione
di una nuova struttura più ampia e
adatta alle esigenze del tempo, che
però tenesse ancora conto del legame
tra pratica clinica e didattica
accademica. Nella seconda metà del
Settecento sorse la nuova sede, il
Giustinianeo, edificata poco
distante dalla vecchia struttura, la
quale nel 1798 venne ufficialmente
chiusa all’attività sanitaria.
Tuttavia, si cercò di usare lo
straordinario complesso edilizio per
altre finalità. Così, a poco poco,
alienazione dopo alienazione,
trasformazioni che si succedettero a
trasformazionifecero perdere la
memoria della destinazione d’uso
originaria e portarono infine la
struttura a uno stato d’abbandono.
Solo negli anni 2000 si assistette a
un suo piano di recupero promosso
dalla Provincia di Padova,
proprietaria dell’edificio dal 1959,
su progetto dell’Università di
Padova. Lo scopo era quello di
ospitarvi un nuovo, grande museo
della medicina, il Musme –
realizzato effettivamente tra il
2014 e il 2015 – che oggi
restituisce al grande pubblico la
storia della scuola medica padovana.
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