[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 209 / MAGGIO 2025 (CCXL)


moderna

OSPEDALE DI SAN FRANCESCO GRANDE A PADOVA
UN NUOVO INIZIO

di Giuseppe Tramontana

 

Ciò che le medicine non curano, lo cura il bisturi,
ciò che il bisturi non cura, lo cura il fuoco,
ciò che il fuoco non cura, va reputato insanabile.

 

Dando uno sguardo alla Pianta di Padova di Giovanni Valle (1784) – disegno trascritto su 20 lastre in rame di vario formato (Ghironi, Mazzi 1985: 37) che risulta essere, nella sua edizione originale, una delle più importanti e celebri carte della città – con le vie che si dipanano dal centro storico fino alla grande confluenza di Prato della Valle, quasi a ridosso della Basilica di Sant’Antonio, appare del tutto evidente una sorta di triangolo, di cui le vie San Francesco, del Santo e Galileo Galilei (ex Vignali) risultano essere i lati. È qui che si ritrova una delle pagine più gloriose di tutta la vicenda storica del francescanesimo patavino, legata alla presenza di cinque punti di irradiamento: l’ospedale, il convento, la chiesa di S. Francesco, la Scuola della Carità e il tempietto di Santa Margherita.

 

È risaputo che l’ospedale di San Francesco dell’Osservanza e gli attigui chiesa e convento furono eretti da Baldo e Sibilia Bonafari nel secondo decennio del Quattrocento. Baldo era originario di Piombino. Di lui si hanno notizie a partire dal 1381, quando è attestato come studente di diritto nello Studium patavino.

 

Prima di addottorarsi era entrato al servizio di Francesco I da Carrara, il quale nel 1387 fu lo inviò presso Ugolotto Biancardo per lamentarsi della mancata consegna di Vicenza ai signori di Padova. L’anno successivo, con l’ascesa dei Visconti, il Bonafari lasciò la città e seguì Francesco II Novello in esilio. Quando Francesco Novello tornò a Padova, nel 1390, fu nominato referendario e mantenne questo ruolo sino alla definitiva caduta dei carraresi.

 

Nello stesso anno ricevette la licenza in utroque iure. Ma, come si sa, il 21 novembre 1405, “allorché da qualche giorno ormai le insegne di San Marco sventolavano su porta San Giovanni e il sussulto di una rivolta popolare aveva reso vana ogni difesa” (Puppi-Universo, 1982: 85), Padova si diede a Venezia. Il successivo 30 gennaio 1406, con la cosiddetta “bolla d’oro”, avverrà solennemente il passaggio della città del Santo sotto le insegne veneziane.

 

Nel frattempo, il 19 gennaio, Francesco Novello era stato condannato a morte nelle segrete del palazzo dei Dogi su sentenza inappellabile del Consiglio dei Dieci, mentre i suoi collaboratori, compreso Baldo Bonafari, venivano condannati all’esilio. L’ex consigliere dei Carraresi tornerà a Padova solo nel 1413, giusto in tempo per porre la prima pietra dell’Ospedale Grande di San Francesco.

 

Invece Sibilia, donna esile e fortemente religiosa, era vedova di Bonaccorso dei Naseri di Montagnana, consigliere di Francesco il Vecchio da Carrara, anch’egli abitante in contrada S. Margherita. Aveva sposato Baldo il 21 maggio 1393. Era nata intorno alla metà del Trecento da Gualperto Cetto, un ricco mercante, proprietario terriero, prestatore di denaro, che la lasciò erede del suo patrimonio sul quale pesava però l’impegno, imposto dal diritto canonico, di restituire gli interessi usurari estorti dal padre durante la vita.

 

Fu proprio lo spirito di carità cristiana,e soprattutto il legame con l’ordine francescano – al quale, secondo Gerardo Zelante (Zelante, 1921: 29-31) era vicino in particolare baldo Bonafari – che spinse i coniugi a edificare un ospedale, una chiesa e un convento che potessero accogliere poveri e ammalati e dare residenza ai frati dell’Ordine dei Minori Osservanti di San Francesco. Questi frati, in effetti, presenti a Padova fin dai primi anni del Quattrocento nel piccolo convento e ospizio di Sant’Orsola, furono anche i consiglieri spirituali di Baldo e Sibilia.

 

Baldo stipulò, tramite i suoi procuratori, i contratti per la costruzione dell’ospedale e della chiesa di San Francesco. Come rileva Francesca Fantini D’Onofrio, si trattava di atti che davano istruzioni ai muratori e alle maestranze, che dettavano indicazioni ai tagliapietra per la fornitura di colonne e mensole in pietra di Montemerlo o di Monselice e che commissionavano ai carpentieri la fornitura di legno di larice per le opere di sostegno e di orditura.

 

Il primo contratto è datato 6 agosto 1414. In esso uno dei due procuratori di Baldo, Galvano Lattuga (l’altro era Ludovico Dal Legname), ordinava la realizzazione di cinquanta colonne in pietra di Montemerlo ai tagliapietra Jacopino fu Pietro da Milano, Gabriele fu Franceschino e Berto fu Zenone. Da tale atto emerge anche che l’edificio avrebbe dovuto avere pianta rettangolare e quadrata (Fantini D’Onofrio, 2004: 15). Il 25 ottobre 1414 venne posata la prima pietra, nel 1416 si cominciò la costruzione della chiesa su un terreno libero situato nella medesima contrada di Santa Margherita e adiacente alla fabbrica dell’ospedale.

 

A dire il vero, un atto del gennaio 1414, citato da Collodo, indica la volontà del Bonafari di costruire un ospedale e, per far ciò, chiedeva il passaggio del monastero femminile di San Prosdocimo a un altro ordine osservante. A tal proposito, una rappresentanza dei ceti cittadini venne convocata dal vescovo per avereun parere su tale operazione. L’assenso venne dato, ma il progetto non si realizzò. Ciò nonostante, un ospedale, come si sa, sarebbe stato realizzato benché Baldo non ne avrebbe vistoil completamento giacché sarebbe morto nella tarda primavera del 1418. Da questo momento Sibilia ne sarebbe divenuta amministratrice unica fino alla sua morte avvenuta il 12 dicembre 1421, dopo una lunga malattia.

 

Va sottolineato come la volontà di costruire un ospedale che non servisse solo da ricovero per paupere set indigentes (cosa che avveniva in tutti gli hospitalia delle varie città italiane ed europee), ma fosse soprattutto dedicato alla cura e all’assistenza degli ammalati, era legata anche a fattori contingenti ossia agli attacchi pestilenziali subiti da Padova nel corso del Quattrocento. “Il tessuto urbano” scrive Sante Bortolami “dovette contare le conseguenze delle crisi epidemiche iniziate verso la metà del XIV secolo. Gli attacchi pestilenziali continuarono, con intensità diversa, per tutto il Quattrocento” (Bortolami 2009: 179).

 

Nel 1405 un’epidemia devastante aveva colpito la città. E probabilmente, in quell’occasione, anche Sibilia si era ammalata, visto che in quell’anno aveva predisposto un primo testamento che conteneva già disposizioni in merito alla realizzazione di un ospedale. Altri attacchi epidemici si sarebbero avuti nel 1427-1428, nel 1436, nel 1438-1440, nel 1456-1457, nel 1464, nel 1478 e nel 1484-1485.

 

Ovviamente, come sottolineano Grossi e Jori, la peste portò a un crollo della popolazione, che scese dai 32.000 abitanti del secolo precedente ai 18.120 del 1411, ai 16.736 del 1430 (Grossi-Jori, 2014: 103). La diminuzione della popolazione ebbe ripercussioni negative sulla disponibilità di manodopera e sulle iniziative imprenditoriali, causando un rallentamento delle attività economiche. In questo senso, vanno inquadrati l’aumento degli abbandoni degli infanti e la recrudescenza del pauperismo nonché la crescita esponenziale di soggetti bisognosi di cure mediche. È palese, quindi, come la nascita dell’ospedale di San Francesco si sia inserito nel vasto movimento di riforma del sistema di assistenza ai poveri, caratteristico del XV secolo.

 

Infatti, proprio in quel lungo secolo, soprattutto grazie alle idee francescane, stavano sorgendo nelle città italiane diversi ospedali “Grandi”, creati per superare il vecchio concetto medievale di assistenza. Per Venezia, quello di Padova fu il primo dei “Grandi ospedali” di Terraferma (Pastori Bassetto, 2004: 18). Con una notevole peculiarità: nasceva soprattutto per prestare cure mediche agli ammalati.

 

Nel gennaio 1419, nella sala grande dell’ospedale, alla presenza del podestà di Padova Fantino Dandolo, i rappresentanti della confraternita di Santa Maria della Carità e quelli di Sibilia Bonafari, Prosdocimo Conti e Biagio da Merlara, giurarono una convenzione che avevano concordato dopo laboriosa a e contrastata trattativa. Essa prevedeva l’iscrizione di Sibilia nella fraglia e il diritto dell’associazione di usare per le sue necessità una sala e due stanze dell’ospedale, e una cappella nella chiesa di San Francesco; fratelli poveri della confraternita, per un massimo di dieci, avevano il diritto al ricovero gratuito in ospedale.

 

Erano cadute, invece, le richieste della fraglia di controllare l’assistenza ospedaliera e di ricevere una cospicua elemosina annuale di frumento. Pochi mesi dopo, Sibilia, espresse le direttive per il futuro dell’ospedale, stabilì alcuni legati, nominò suoi eredi universali i poveri ricoverati nell’ospedale di San Francesco e prescrisse che il convento fosse abitato solo dai francescani osservanti, che dovevano celebrare nella chiesa attigua. Eletti gli esecutori e commissari testamentari a vita i collaboratori di fiducia, attribuì al collegio dei giuristi il patronato ovvero il governo dell’ospedale. Circa tre settimane dopo, il 12 dicembre 1421, Sibilia cessò di vivere. L’ospedale non era ancora pronto, ma con il suo patrimonio già assisteva donne, amiche e protette di Sibilia e nello stesso anno arrivarono le prime donazioni e i primi lasciti che rivelano la notevole risposta della società padovana alla nuova iniziativa (Collodo, 1983: 35-36).

 

Il “governo” dell’ospedale suscitò contrasti. Infatti, se non si hanno notizie di momenti conflittuali con le autorità civili, le divergenze si ebbero con il vescovado e le autorità religiose. I motivi del contendere erano molteplici e andavano dal solo diritto di visita del vescovo (previsto certamente da Sibilia, ma con l’esclusione di altre forme di ingerenza nella gestione dell’ospedale), al rifiuto della giurisdizione del tribunale ecclesiastico per dirimere le eventuali controversie sorte all’interno della struttura, fino alla questione della nomina del priore. Quest’ultima contesa si trascinò fino al 1441, allorché, finalmente, l’ospedale ebbe il suo primo priore, il dottore in diritto civile Bartolomeo Colle figlio di Muzio da Urbino. A lui successe nel 1452 Giacomo Bonifaci Dall’Olio, un mercante guardiano della Carità, che restò in carica fino al 1460.

 

La costruzione

 

Come si è già visto, l’area destinata a ospitare la struttura assistenziale apparteneva già ai Bonafari ed era in gran parte situato nelle adiacenze della loro domus, presso l’attuale via S. Francesco, a ovest dalla via del Santo, a sud della contrada dei Vignali (oggi via Galilei) e a est dell’area su cui poco dopo verrà innalzato il convento di S. Francesco. Il nuovo complesso nacque in una posizione insolita, tra le attuali via San Francesco, via del Santo e via Galileo Galilei, ossia lungo una via di transito, che non rispondeva ai dettami urbanistico-sanitari del tempo, specie se si considera che la struttura per volere dei testatori avrebbe accolto malati di tutti i tipi e tra questi anche i contagiosi e i sifilitici. L’ingresso principale era da via San Francesco, uno scalone conduceva ai piani nobili superiori. Qui probabilmente si riuniva il consiglio d’amministrazione. L’ospedale era composto da più edifici a due piani, con diverse corti interne. Era articolato in due reparti, uno femminile e uno maschile. Come sottolinea Giulio Bresciani Alvarez, si trattava di inserire il nuovo edificio in un contesto urbano interessato da sempre da insediamenti immobiliari comprendenti orti, case e cortili, un contesto disimpegnato dai due tracciati di contrà Pontecorvo (oggi via S. Francesco) e via del Santo, convergenti in punti nodali della città. Funzione più modesta, in quanto zona quasi esclusiva di orti, aveva invece via Vignali, che chiudeva a levante il triangolo costituente l’intero isolato (Bresciani Alvarez, 1983: 60).

 

Come abbiamo constatato,il primo contratto, datato 6 agosto 1414,sottoscritto da Galvano Lattuga, uno dei procuratori di Baldo, ordinava ai tagliapietra Jacopino fu Pietro da Milano, Gabriele fu Franceschino e Berto fu Zenone la realizzazione di cinquanta colonne in pietra di Montemerlo, cinquanta mensole di pietra di Nanto da collocarsi come capitelli in pilastrismagnisinferioribus, cioè situati al piano terreno, e altrettanti mensole pro bodonalibus de lapidibusMontisilicis, ossia elementi di appoggio ai muri delle grandi travi in legno impiegati nei solai e nelle coperture. Alcuni mesi dopo, il 23 novembre, il Lattuga prese accordi Leoncio fu Jacopo della Valsugana per la fornitura di una cospicua partita di legname che, a più riprese, sarebbe dovuta arrivare nel giugno 1415 (a S. Giovanni), nel settembre dello stesso anno (a S. Michele) e, infine nel maggio del 1416. Intanto il 18 dicembre dello stesso 1414 Baldo sottoscrisse un contratto con Mastro Matteo da Ravenna, affiancato dal Maestro Cristoforo di Zenone da Verona e dal Maestro Giovanni di Francesco. A essi toccava il compito di eseguire le opere murarie riguardanti “unushospitaliscum porticali fiendocumpodiolos che dovevano andare circumcirca dicta hospitalia... superiusinferius, espressione che si può riferire sia al porticato esterno sia a un chiostro doppio, soluzione questa già adottata nei loggiati della reggia carrarese e poi, allo scadere del secolo, in tantecostruzioni monastiche padovane” (Bresciani Alvarez, 1983: 62).Man mano che i lavori avanzavano, si presentavano nuove esigenze e nuove maestranze.

 

Il 28 giugno 1415 un contratto venne stipulato dal Lattuga con i fabbri Domenico di Marco e Gabriele di Giovanni. Lo stesso contratto prevedeva la fornitura di ferro necessario a rinforzare gli archi destinati alla protezione delle finestre. Il 15 aprile 1417 lo stesso materiale verrà ordinato per la costruzione di porticali ecclesiae et hospitalis. Quasi un anno dopo, il 6 aprile 1418, un altro contratto prevedeva la realizzazione di lavori in legname per la chiesa e per lo speale de femine. A tal fine Lattuga si accordava con i marangoni Antonio de Zigyo e Domenico detto Ruzante, che avrebbero dovuto posare travi ai solai di due piani, assi e cantinelle. Poi venne incaricato Maestro Nicolò Gobo di creare una scala in legno per collegare i due piani dello speale de femine, concluso intorno al 1429. Fu lo stesso Gobo a realizzare servizi igienici e locali per i ricoveri di materiali. Altre coperture lignee di solai vennero realizzate nel 1430, come rivela un contratto stipulato il 4 maggio di quell’anno tra i marangoni Gasparo e Bertolotto, associati al già noto Domenico Ruzante, con i commissari Lodovico Buzzacarini, Biagio da Merlara, Ludovico Dal Legname e Gualperto. Altri lavori, poi, vennero effettuati tra il 1433 e il 1436, allorché l’ospedale acquisì le proprietà dei da Pergine, confinanti con il convento.

 

L’impianto della struttura era verosimilmente in sintonia con quelle dell’epoca in cui sorse. La costruzione del San Francesco, infatti, si inseriva in un momento di grande rinnovamento edilizio degli ospedali italiani: erano quelli gli anni in cui si costruirono l’ospedale Maggiore di Milano e quello degli Innocenti a Firenze. L’aspetto monumentale e di rappresentanza dell’edificio era dato, oltre che dalla facciata e dal portico su via S. Francesco, anche dal vasto cortile interno a portici e loggiati. Dal punto di vista stilistico-architettonico, vennero usate – caso più unico che raro nel contesto padovano – le arcate a sesto rialzato nel prospetto del portico, dotato di una moderata finestratura. Il cortile interno risultava articolato a doppio ordine, dunque a porticato e loggiato. Al piano terreno le arcate erano sostenute dalla sequenza di pilastri a sezione ottagonale in mattoni. Il loggiato superiore all’interno del cortile probabilmente era costituito da un continuum di colonne e pilastri posti a sorreggere un sistema architravato ligneo (Bresciani Alvarez, 1983: 69). All’interno del complesso edilizio, trovavano spazio una grande cisterna, dei pozzi, un grande orto, una stalla, una spezieria, un’unica “medicaria”, abitazioni per il personale, una lavanderia, diverse cucine, cantine e magazzini. Nel 1706 verrà allestita anche una stanza per praticare le autopsie in presenza degli studenti: fino a quel momento erano state eseguite in luoghi improvvisati.

 

Non è noto l’anno in cui l’ospedale sia entrato in funzione e forse bisogna attestarsi a una data a ridosso del quarto decennio del secolo(Giovanni da Rimini, studente dello Studium, che abitava nell’ospedale insieme a un altro allievo di nome Bainira, probabilmente tra i primi ospiti dell’istituto,nel 1431-32, acquistò vino e frumento, in Collodo, 1983: 52, n. 94), dopo la costruzione della cisterna (1427), il completamento del reparto femminile (1429), e la realizzazione della nuova sala per la Confraternita della Carità (1430). Tuttavia, già da alcuni anni la nuova fondazione aveva innovato la toponomastica della città: risale al 1426 la prima testimonianza relativa alla denominazione di contrada dell’ospedale di S. Francesco in sostituzione di quella di S. Margherita e successivamente il nuovo toponimo cominciò a essere utilizzato in luogo di contrada S. Lorenzo e di contrada Pontecorvo, situate lungo il medesimo asse stradale, rispettivamente a est e ovest di S. Francesco.

 

L’area ospedaliera continuò a ingrandirsi. Secondo i dati contenuti negli atti rogati dal priore Bartolomeo da Urbino negli anni 1447-51, le due sezioni – maschile e femminile – della struttura erano disposte a semicerchio, orientato a sud-est rispetto alla chiesa di S. Francesco, e costituite da più edifici a doppio piano, percorsi dal lato donne da pozoli che guardavano rivolte verso la corte interna; entrambe le sezioni disponevano, poi, di un’infermeria, di due sale grandi sovrapposte, di camere singole e multiple. In comune erano la medicaria e la spezieria, benché fossero situate nella parte maschile. Viceversa, cucina, forno e cisterna erano collocati nella parte femminile, pur avendo una funzione in comunitaria.

 

Sul lato rivolto verso la strada principale si trovava la sala nuova della confraternita della Carità, la quale separava gli ambienti ospedalieri dal convento dei frati. Intorno al 1448, la residenza del priore fu spostata dal lato della strada verso l’interno del complesso e precisamente dietro la sacrestia della chiesa, al cui esterno si trovava una scala di pietra che conduceva all’ospedale. In questa stessa zona doveva trovarsi anche il cimitero che accoglieva le salme dei deceduti in ospedale.

 

L’organico, gli ospiti, i rapporti con lo Studium

 

In merito all’organico del personale, oltre ai cappellani che avevano la cura d’anime, e al priore che insieme al collegio dei giuristi aveva la responsabilità del governo della struttura e della direzione amministrativa,vi erano il fattore, che presiedeva all’amministrazione generale, il vicepriore e la prioressa, sovraintendenti rispettivamente la sezione maschile e femminile e coadiuvati dal canipario e dalla massara. Ai servizi generici, da quelli della cucina e lavanderia alla coltivazione dell’orto e ai lavori in stalla era destinato un numeroso stuolo di inservienti e operai.

Praticamente impossibile è conoscere il numero delle presenze giornaliere o dei posti letto. Relativamente ai ricoverati, di certo dovettero essere svariate decine. Secondo il proposito dei fondatori e le tradizioni dell’epoca, nell’istituto trovavano assistenza non solo gli infermi, ma anche quanti per età avanzata, mancanza di mezzi, solitudine avevano bisogno di cure. Nell’istituto accorrevano a cercare ospitalità anche i poveri che non provenivano dall’ambiente locale.

 

Un caso del genere fu quello Gilberto del fu Dionisio Veronese da Saletto (Montagnana), la cui famiglia all’inizio del Quattrocento era stata fittavola dei Bonafari appunto a Saletto: nel 1454 donò all’ospedale sei piccoli spezzoni di terra, salvo usufrutto, in cambio di ricovero, vitto e vestito. Nel 1446 è invece attesta la presenza del maestro veneziano Antonio Arpi e di sua moglie Andriola: entrambi donano i beni in loro possesso (per la donna, i beni dotali) in cambio di ricovero, vitto e vestiti. Collodo segnala, inoltre, “perché cade in un periodo di forte ostilità nei confr4onti degli ebrei”, la presenza nel 1470 e nel 1471 dell’ebrea Anna Alemanna, che donò all’ospedale i suoi diritti su un investimento di 200 ducati, fatto in società con un correligionario defunto (Collodo, 1983: 40). Nell’istituto trovarono ricovero anche gli scolari poveri dello Studium. Fra di essi tre studenti di medicina: Santino Conti studente in arti (1444), Pietro di Francia, scolaro in medicina (1447) e Nicolò di Leone, studente calabrese in arti e medicina (1447-1450). Scolaro in diritto canonico era invece Antonio da Montefiori, in ospedale tra il 1448 e il 1451. Studenti di diritto erano poi i riminesi Giovanni da Rimini, Antonio di Nicolò (pure cappellano tra il 1448 e il 1451), Andrea da Rimini e Antonio di Nicolò Saladino, presente dal 1447 al 1451). La popolazione dell’istituto comprendeva anche un certo numero di preti come Francesco del fu Angelo da Venezia, presente sicuramente nel 1449 e il presbitero Antonio da Lucari (in loco nel 1450).

 

Di diversa provenienza sociale e di ben altra base economica godeva Maria, vedova di Domenico Carmagnola, che dopo essere entrata in ospedale forse per necessità, aveva deciso di restarci, aderendo all’ordine delle terziarie francescane. Un’altra donna che intraprese un percorso simile fu Taddea Agosti, vedova Papafava, che abitò in S. Francesco nel triennio 1447-1450, dopo aver aderito alla religiosità francescana, maturata da circa un ventennio per influenza del priore Bartolomeo da Urbino, in buoni rapporti con lei da parecchi anni. Avevano accompagnato Taddea la nuora Ricca, vedova pure lei, e la famula Agnese da Creazzo, al suo servizio dal 1439. Dopo essere entrata nell’ordine, Taddea rimase in ospedale per tutta la vita, dedicandosi all’assistenza dei degenti. Terziario francescano era pure Guidone Lamberti, presente sicuramente negli anni 1447-1451. La presenza di terziari fornì un contributo notevole per soddisfare le necessità di servizio non specializzato, per il quale occorreva l’impiego di una manodopera volontaria: per incentivare una simile scelta, la bolla di papa Eugenio IV diretta all’ospedale nel 1442, garantiva l’indulgenza di un anno a chi si fosse reso disponibile a servire volontariamente nell’istituto.

 

Altra fonte di lavoro non remunerato erano gli ospiti in buona salute. Nonostante il servizio volontario o comunque non retribuito, il contributo alle spese di assistenza da parte dei degenti che se lo potevano permettere, il continuo flusso di elemosine, i legati testamentari e gli abbondanti redditi derivanti dai beni in capo all’ospedale, le spese erano notevolissime, considerati i costi per il mantenimento degli ospiti e del personale, il costo delle medicine, gli esborsi per la manutenzione edilizia, le tasse straordinarie, le spese legali a cause delle numerose controversie che gli amministratori della struttura dovettero affrontare.

 

Non si sa molto del personale sanitario operante nella struttura durante i primi anni di vita. Lo storico della medicina Loris Premuda cita il chirurgo Nicolò De Musicis in servizio nel 1534, precisando tuttavia che già dal 1519 si ha notizia di tre medici che lavorano nell’edificio: un medico physico (“per visitar tutti li poveri infermi della casa, si homeni che donne”), un medico cirogico(“per medicar d’onguenti tutti li poveri impiegadi dell’ospedal”), che aveva sotto di sé un barbiero (dedito a “salassar tanto homeni che donne”), e un medegotto, che doveva risiedere nell’ospedale e non poteva uscire senza permesso del priore “perché come viene qualche ferito fresco, li ebbe poner le stoppe, e far altro che fosse necessario, che ricercasse fretta”. Inoltre, un haromatario o speciale si occupava della “specieria e di tutte le cose pertinenti ad essa” (Giormani, 1983: 165). Ogni mattina visitano le infermerie, prescrivono i farmaci necessari, soccorrono i feriti, stabiliscono la dieta più adeguata. Gli assistenti invece si occupano dell’accettazione dei malati, dei casi urgenti e riferiscono ai medici l’andamento dei pazienti. Stretti furono fin da subito i legami tra ospedale e Studium. Nel marzo del 1529 prestava servizio al S. Francesco il chirurgo Nicolò de Musicis, che dal 1526 occupava la cattedra di chirurgia all’Università. Incarichi presso l’ospedale avevano avuto anche i cattedratici di fama Carlo Patin, titolare della prima cattedra di chirurgia nel 1681, Ermenegildo Pera, allievo di Benedetto Selvatico, medico assistente in ospedale nel 1635, che, dopo sette anni di assistenza due di protomedico a Portogruaro e dodici a Feltre, ottenne la cattedra di medicina teorica nel 1657, Agostino Pivati, che svolge l’incarico di medico assistente prima di partire per Costantinopoli al seguito del bailo Giovanni Morosini, Michelangelo Molinetto, allievo del padre Antonio, docente, nel 1674, a 22 anni, all’università, e infine, l’ungherese Stefano Orbok de Kökös,laureatosi in filosofia e medicina nel 1626, che morì a 33 anni, il 13 aprile 1628, e venne sepolto nel cimitero dell’ospedale. Tradizione vorrebbe che l’ospedale di San Francesco sia stata la prima sede dell’insegnamento clinico al mondo, a opera di Giovanni Battista da Monte, docente di medicina pratica ordinaria a Padova dal 1539 e di teorica dal 1543. A lui spetterebbe il merito di aver integrato le lezioni universitarie con la pratica clinica presso il letto del malato, condotta proprio al San Francesco. A sostenere questa tesi, nell’Ottocento, era stato il medico Giovanni Rasori seguito poi da Giuseppe Cervetto e molti altri storici della medicina (Ongaro, 2004, p. 33). Tuttavia, come racconta Premuda, Giuseppe Orsolato a fine secolo, sulla base di documenti d’archivio, mise in discussione questo primato, sostenendo come in realtà non fosse possibile dimostrare un inserimento di Da Monte nell’ospedale di San Francesco, quanto piuttosto la sua sporadica presenza in occasione di qualche consulto richiesto dai medici della struttura. A lui si deve, in ogni caso, l’aver riconosciuto l’importanza del metodo, della pratica clinica nell’insegnamento universitario. Il primo accenno a una relazione tra l’attività ospedaliera e quella universitaria – sebbene non istituzionalizzata – risale al 1577-78 quando Marco degli Oddi, primario dell’ospedale e dal 1578 docente di medicina teorica straordinaria, e Albertino Bottoni, professore di medicina pratica straordinaria, accompagnarono gli studenti al San Francesco per le esercitazioni pratiche. Si dovette attendere il 1619 perché un insegnamento universitario esplicitasse l’obbligo di visitare i malati dell’ospedale di San Francesco. E funel 1764, con la ducale firmata dal doge Alvise IV Mocenigo l’8 gennaio, che venne riconosciuta la prima cattedra di medicina pratica con l’obbligo per i docenti di condurre dieci o dodici studenti appositamente scelti per visitare i malati dell’ospedale, sancendo ufficialmente la presenza universitaria tra le mura dell’istituto e istituendo al suo interno due cliniche, la medica e la chirurgica.

 

Dopo la visita, il docente avrebbe dovuto tenere una lezione in un locale dell’università. Ogni anno, la prima lezione doveva essere svolta in latino. Il corso sarebbe durato fino ad agosto, ma i malati sarebbe stati da lui visitati anche nei due mesi di vacanza.

 

Conclusioni

 

Se, da un lato, le due nuove cliniche procurarono una notevole fama al San Francesco; dall’altra, gravarono sul bilancio dell’ospedale dato che erano necessitavano più medicinali, assistenza e servizi. Di fronte ai nuovi impegni, la struttura non sembra più in grado di risponde. Nel tempo iniziarono a sorgere emergenze sanitarie e difficoltà economiche, nonostante le donazioni e i beni accumulati negli oltre tre secoli di vita. Anche se dalla metà del Seicento continuarono a essere eseguiti lavori di ampliamento e ristrutturazione che interessarono un po’ tutti i fabbricati, con il passare degli anni il numero dei malati superò di gran lunga la ricettività prevista per il San Francesco. Le prime conseguenze tangibili furono l’aggravarsi delle condizioni igieniche e un deficitario bilancio economico, che, a sua volta, rendeva irrisolvibili i problemi esistenti.

 

Questa situazione indusse consiglio e priore a valutare la costruzione di una nuova struttura più ampia e adatta alle esigenze del tempo, che però tenesse ancora conto del legame tra pratica clinica e didattica accademica. Nella seconda metà del Settecento sorse la nuova sede, il Giustinianeo, edificata poco distante dalla vecchia struttura, la quale nel 1798 venne ufficialmente chiusa all’attività sanitaria. Tuttavia, si cercò di usare lo straordinario complesso edilizio per altre finalità. Così, a poco poco, alienazione dopo alienazione, trasformazioni che si succedettero a trasformazionifecero perdere la memoria della destinazione d’uso originaria e portarono infine la struttura a uno stato d’abbandono. Solo negli anni 2000 si assistette a un suo piano di recupero promosso dalla Provincia di Padova, proprietaria dell’edificio dal 1959, su progetto dell’Università di Padova. Lo scopo era quello di ospitarvi un nuovo, grande museo della medicina, il Musme – realizzato effettivamente tra il 2014 e il 2015 – che oggi restituisce al grande pubblico la storia della scuola medica padovana.

 

 

Riferimenti bibliografici: 

 

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