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N. 29 - Maggio 2010 (LX)

obiezione di coscienza
spunti laici

di Cristiano Zepponi

 

“La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici. L’ordinamento delle Forze Armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”.

L’art. 52 della Costituzione, al momento della formulazione, prescriveva l’obbligatorietà del servizio militare – si consideri che la leva di massa era storicamente considerata una conquista rivoluzionaria – nonostante l’insistenza delle voci che, nel corso dei lavori preparatori, avevano proposto la creazione di un esercito di mestiere.

Già nel corso di questi lavori, tuttavia, emerse il problema dell’obiezione di coscienza: per dirla con Capitini, “l’opposizione a partecipare alla preparazione e all’esecuzione della guerra, vista particolarmente come uccisione di esseri umani” per motivi che la coscienza “trae da sé stessa”, al cui interno si possono distinguere una pluralità di posizioni: “di essa vi sono diversi gradi, tra i quali la propria coscienza sceglie, e può essere quello semplicemente di non uccidere, e di accettare ogni altro servizio, ma può essere anche quello di rifiutare ogni altro servizio attinente alla guerra e alla sua esecuzione, compreso il lavoro di fabbricazione di munizioni […] talvolta gli obiettori accettano il servizio di raccolta e di soccorso ai feriti, anche davanti alle linee di combattimento e sotto il fuoco, ritenendo che aiutare un ferito è opera umana da compiere in ogni caso, quale che sia l’uso che poi il ferito farà, secondo la sua coscienza, delle energie riacquistate. Vi sono obiettori di coscienza che intendono tenersi lontano da tutto ciò che è guerra, e compensano la collettività dei benefici che essa dà loro con altri servizi”.

Qualcosa di ben diverso, dunque, dal capriccio, dall’arbitrio, da un ribellismo sterile e aprioristico; qualcosa di ben diverso sia dal rifiuto di sottoporsi ad un “servizio di lavoro” (dato il duro prezzo pagato) sia dall’avversione psicologica al sangue ed alla sofferenza (basti pensare agli obiettori impegnati a raccogliere brandelli d’uomini nella terra di nessuno): una “severa decisione” formatasi nel corso di anni, quindi, indifferente all’esercito e al popolo contro cui si combatte (“L’obiettore di coscienza non trae le sue ragioni dal fatto che l’esercito e il popolo contro cui eserciterebbe la guerra è quello e non un altro, contro il quale, invece, sarebbe dispostissimo ad armarsi: egli pone il rifiuto di ogni guerra, non accettandola né in quel caso né in altri, e non perché si tratti di un popolo per il quale abbia simpatia, ma perché si tratta di umanità, di ‘prossimo’ in senso universale”), secondo molti lecita alla luce dell’ art. 2 della Costituzione in virtù del quale “la Repubblica garantisce e riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, anche come “diritto di non sopportare coercizioni intollerabili della coscienza” (“Obiezione vuol dire l’atto di gettare qualche cosa contro; e in questo caso è la coscienza”).

L’art. 52 sembrò, a quella componente laica interessata al problema, rivelarsi scarsamente rispettoso delle opinioni, dei sentimenti morali, delle convinzioni dei cittadini, mancando il riconoscimento di quel “diritto a non uccidere” che sarebbe stato insistentemente richiesto negli anni successivi.

Fu così che, in sede Costituente, l’on. Caporali propose un emendamento che assicurasse “l’esenzione dal portare le armi per coloro i quali vi obiettino ragioni filosofiche e religiose di coscienza”), richiamandosi a simili disposizioni in vigore all’estero (Olanda e R.F.T., ad esempio); il proponente spiegò infatti che “obiettare vuol dire compiere un atto meritorio, condannando quello che la guerra ha di più crudele e di orribile; e vuol dire soprattutto negare la guerra […] gli obiettori di coscienza non sono degli irregolari, essi non devono confondersi con i disertori, essi chiedono di servire la Patria in umiltà rivendicando il diritto di non tradire i principi spirituali ai quali sono legati, alle loro convinzioni umane […] costituiscono la pattuglia avanzata della nuova umanità, che si ostina a credere nella maestà della vita contro tutte le forze che tendono a degradarla”.

Al termine del dibattimento prevalse comunque il comma (proposto da Gasparotto, Laconi, Targetti, Merlin) che sarebbe divenuto definitivo, e che prescrive: “il servizio militare è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge”.

Questi “modi e limiti” sarebbero stati presto introdotti, e la legislazione avrebbe previsto numerosi casi di inidoneità e indisponibilità al servizio militare, dispensandone donne, inabili e ministri di culto, prevedendo la possibilità di appellarsi a ragioni di salute o di famiglia: si sarebbe trascinato a lungo, invece, il problema dell’obiezione.

L’OBIEZIONE DI COSCIENZA IN ITALIA: ALCUNI ESEMPI

Dall’unità d’Italia alla Seconda Guerra Mondiale, i casi di vera e propria obiezione di coscienza appaiono molto rari, e si riducono, in effetti, a una manciata di episodi relativi alla Grande Guerra.

Negli stessi anni in cui il mondo anglosassone cominciava a fare i conti con la questione, sorgevano le prime associazioni internazionali (Fellowship of Reconciliation, The War Resisters International, Peace News) e centinaia di giovani mostravano di preferire prigione o servizio civile all’arruolamento si registrarono i primi casi in Italia.

Obiettore fu Luigi Luè di S. Colombano al Lambro (Milano), di professione zoccolaio, scopertosi ostile all’esercito nel corso del 1901 (quando una pattuglia, di cui faceva parte, minacciò di fucilare un gruppo di contadini in sciopero) e rapidamente influenzato dal pensiero tolstoiano: nel 1917 si rifiutò di combattere e fu condannato a sette anni di reclusione, nonostante la personale simpatia del giudice capitano incaricato del processo.

Come lui Giovanni Gagliardi di Castelvetro Piacentino (Piacenza), inizialmente ateo e poi votatosi al cristianesimo evangelico indipendente, che oltre alla prigione subì un internamento in manicomio, e poi Remigio Cuminetti, testimone di Geova, che si rifiutò di portare le stellette sulla divisa e di andare al fronte, e seguì lo stesso destino di Gagliardi (galera, manicomio, angherie fasciste nel dopoguerra).

Dopo la Seconda Guerra Mondiale fu la volta di altri due casi: quello di Rodrigo Castiello di Cuneo, membro dei pentecostali, giudicato nel ’47 e poi prosciolto per amnistia, e quello - l’anno successivo - di Enrico Ceroni, testimone di Geova, il quale – dopo aver svolto regolarmente diversi compiti al Centro di Addestramento di Casale Monferrato – si rifiutò di scrivere “la bandiera è sacra”, sostituendo la frase con “secondo la Sacra Scrittura nessuna bandiera è sacra”, e rifiutò allo stesso modo le stellette, prima di vedersi comminati cinque mesi e venti giorni di reclusione.

Proprio in quei mesi, però, qualcosa si mosse: nell’ottobre e nel novembre del 1947 Aldo Capitini, in alcune lettere agli amici, cominciò a parlare della compilazione di un volantino sull’obiezione di coscienza; nell’estate del ’48, poi, lo stesso Capitini – in un articolo dal titolo “Opposizione alla guerra” – propose, tra le altre cose, di “sollecitare una legge per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza”, e di “mettere allo studio l’istituzione di un servizio civile di lavoro a fianco del servizio militare per cui i giovani chiamati possano scegliere”.

PIETRO PINNA

Tuttavia, nonostante i primi vagiti della campagna a favore dell’obiezione di coscienza, fu la vicenda di Pietro Pinna a guadagnarsi l’attenzione dell’opinione pubblica e ad accelerare il processo che avrebbe infine portato al riconoscimento legislativo dell’obiezione stessa.

Pinna, ragioniere di Finale Ligure e residente a Ferrara, al momento della chiamata alle armi – nel maggio del 1948 – ottenne un rinvio di cinque mesi e poi entrò alla scuola allievi ufficiali di Lecce.

Era già molto dubbioso: e l’incontro con Capitini – nel corso di un convegno del Movimento di religione – contribuì a rafforzare la convinzione che “nel servizio militare si tradisce continuamente la propria coscienza e si comprime la propria personalità”.

Il giorno del giuramento, dunque, l’allievo decise di obiettare, e presentò un’esposizione scritta al Ministero della Difesa – prima di essere escluso dal corso ed inviato, per adempiere ai suoi obblighi, al I C.A.R. di Casale Monferrato, dove non vollero ascoltarne le “chiacchiere” e fu posto agli arresti per “rifiuto di obbedienza”: un reato, questo, che – una volta scontata la pena – prevedeva l’obbligo di ricominciare il servizio militare dal punto in cui era stato interrotto, fino all’obiezione successiva (aggravata dalla recidiva), potendo continuare così questa situazione “paradossale e tragica” fino ai quarantacinque anni, ovvero l’età di esonero dalla leva.

Senza contare, infine, che le condizioni e il trattamento dei detenuti nelle carceri militari restavano decisamente peggiori rispetto alle comuni, patrie galere.

Fu Capitini – che sulle prime aveva scelto di non rispondere alle lettere del giovane, per non condizionarne la decisione - a prodigarsi perché il caso Pinna acquisisse notorietà, contattando politici, pacifisti, giornalisti (gli scrisse ad esempio il 13 febbraio 1949: “di ciò che Le accade ho informato molti, anche un parlamentare”, ovvero Umberto Calosso) e prendendo le sue parti di fronte al Tribunale Militare di Torino. Capitini, infatti, spiegò poi che “se forse senza di lui il problema avrebbe toccato un po’ di opinione pubblica, certamente, senza quel suo apporto, il tema dell’obiezione di coscienza non avrebbe fatto quegli immediati e sicuri progressi, acquistato quel rilievo e quel credito da imporsi come problema davanti alla nazione”; e da quel momento prese ad interessarsi del problema, stimolando un cambiamento che fosse insieme giuridico e culturale (“I due aspetti dell’obiezione di coscienza sono: quello legale [arrivare ad una legge che riconosca l’obiezione di coscienza]; quello più propriamente morale e religioso [iniziare coerentemente un atteggiamento dell’animo diverso da quello di fare la guerra, dell’armarsi, dell’uccidere]).

Pinna, trasferito al carcere militare di Torino, sottoposto ad interrogatori, test vari, perizie psichiatriche (che lo trovarono sano di mente ma giudicarono le sue idee frutto de “l’alzata d’ingegno di una mediocre mente giovanile, tendente al dogmatismo”), non fu spinto da motivazioni di fede: non era, cioè, inquadrabile nelle religioni istituzionalizzate (criticava anzi la Chiesa, ridottasi “in definitiva, ad un vuoto formalismo esteriore e non a quel concetto vivificatore che costituisce l’essenza della religione”, per il tradimento degli “interessi spirituali in essa riposti” e per il suo atteggiamento politico “di preminente appoggio alle forze conservatrici”), ma solo in una religiosità spontanea, intima, filosofica, nell’identificazione completa di morale, vita fattiva e fedeltà agli ideali professati. Proprio per questo, a differenza dei due predecessori post-bellici – appartenenti a gruppi religiosi che non avevano interesse a creare un “caso” ed a scontrarsi con lo Stato, e che concepivano la loro scelta come esclusivamente individuale – divenne l’icona del movimento che cominciava a premere per la “legalizzazione” dell’obiezione.

Perché, in definitiva, lo voleva.

Fu lo stesso scherno degli avversari, poi, a far sì che la sua vicenda dilagasse presto oltre i confini nazionali (la vedova del presidente Wilson gli inviò un telegramma di sostegno, mentre Tatiana Tolstoj Suhotin, figlia di Leone, scrisse di aver “pianto di gioia leggendo ciò che fanno questi coraggiosi giovani”, e si chiese: “chissà se essi non avranno aperto la via per facilitare il cammino degli altri?”), nonostante l’ostilità della Chiesa Cattolica e la sostanziale indifferenza di PCI e PSI, che – pur rispettando il gesto – non appoggiarono la battaglia di Pinna.

Il 31 marzo del 1949 i deputati Calosso, Bianchi, Longhena e Benanni interrogarono il Ministero della Difesa e chiesero per gli obiettori la possibilità di essere destinati a “servizi dove non si uccide, ma si può essere uccisi”; il 30 agosto dello stesso anno, quindi, si aprì il processo contro Pinna, nel corso del quale il tribunale militare di Torino insistette sul reato di disobbedienza (“volontà cosciente del fatto negativo, in contrasto con l’ordine ricevuto e nella conoscenza del contenuto dell’ordine stesso”) e sulla necessità di conformarsi ai voleri generali, mentre i difensori (avv. Segre e Buda) sostennero l’incompetenza dello stesso tribunale riguardo una questione che aveva caratteri suoi propri, del tutto diversi dalla disobbedienza e dall’indisciplina.

Ad ogni modo, nonostante la presenza di un folto pubblico, il sostegno internazionale, la disponibilità del giovane (“Mi si dice che il dovere di ogni cittadino è innanzitutto quello di servire la patria. Ma io non mi sogno neppur lontanamente di rifiutarmi a questo. Chiedo solo che la patria realizzi un servizio in cui i suoi figli non siano costretti a tradire i principi della loro coscienza di uomini ed essi allora (ed io con loro, primo) saranno felici ed onorati di servirla e di donarlesi”) , Pinna fu condannato per disobbedienza a dieci mesi di reclusione, per quanto il presidente della corte esprimesse la necessità di colmare la lacuna del codice militare riguardo l’obiezione.

Eppure, l’odissea non si concluse nelle aule del tribunale: Pinna, infatti, doveva ancora completare il servizio militare, e tornò a rifiutare le mansioni di scrivano – offertegli come compromesso – al comando territoriale di Napoli.

Fu così imprigionato di nuovo e di nuovo processato per direttissima in ottobre, e la notizia, diffusa dalla radio, di nuovo si guadagnò l’attenzione dell’opinione pubblica e della politica, anche estera (ventitré parlamentari inglesi, presieduti dal laburista reverendo R. W. Sorensen, firmarono una lettera indirizzata al Presidente del Consiglio De Gasperi per intercedere in suo favore, scrivendo di voler in questo modo “vivamente pregare Vostra Eccellenza di rivedere il caso di questo giovane, che ha già dimostrato la sua sincerità con la fermezza dei suoi principi durante la lunga prigionia” e “rispettosamente richiamare la favorevole attenzione di Vostra Eccellenza sulla proposta dei giudici al processo Pinna, di introduzione nella legislazione militare italiana di una clausola per il riconoscimento del diritto di obiezione di coscienza al servizio militare e di esenzione completa per coloro che dimostrino la loro assoluta sincerità”, ricordando inoltre che “da noi, in Gran Bretagna, come negli Stati Uniti d’America e in molte altre nazioni d’Europa e del Mondo, tale riconoscimento è ammesso”).

Stavolta, però, la procedura del processo sollevò molti dubbi (e spinse l’on. Calosso a presentare un’interpellanza alla Camera), specie riguardo il comportamento dell’avvocato difensore d’ufficio, che si fece accusatore del ragazzo, e l’eccessiva presenza di militari nell’aula (quattro colonnelli nella corte e due fra i testimoni).

Alla proclamazione della condanna ad altri otto mesi di reclusione, una voce si levò dal pubblico: “Bravo Pietro! Oggi sei solo, ma domani saremo cento, mille!”. La voce – ovvero Giustiniano Incarnati, studente d’ingegneria – fu immediatamente arrestata per apologia di reato; e nel corso di pochi mesi sarebbe toccato a Francesco Buraglio (Alessandria), Antonio Pantoni (Melfi), Pietro Ferrua (anarchico di La Spezia), Mario Barbani (Ozzano Emilia) ed Elevoine Santi (Sala Bolognese), tutti e cinque obiettori influenzati dalla vicenda giudiziaria di Pinna.

Quest’ultimo, poi, dopo la carcerazione a Sant’Elmo oppose un altro rifiuto alla leva finchè fu visitato, gli fu riscontrata una neurosi cardiaca – opportunamente predisposta, nonostante i favorevoli risultati degli esami precedenti - e fu riformato: un esito comune nelle vicende degli obiettori, molto spesso esonerati per motivi medici dal servizio – adducendo opportune e improbabili patologie - dagli stessi militari, preoccupati dal danno d’immagine causato dal ciclo continuo di arresti e rilasci.

STRASCICHI GIURIDICI

La vicenda di Pietro Pinna ottenne comunque l’effetto di attirare l’attenzione sul problema, anche a livello giurisprudenziale: ci si accorse infatti come nell’ordinamento italiano mancasse una regolamentazione degli organi e della procedura che avrebbero dovuto accertare la “vera” obiezione di coscienza.

Per ovviare a questa situazione un disegno di legge fu annunciato il 3 ottobre del 1949 e presentato il 23 novembre dello stesso anno ad opera del socialista Calosso e del cattolico Giordani, che unirono le loro due precedenti proposte: ma la proposta di legge, inviata all’esame della Commissione legislativa competente, non tornò mai in Parlamento. D’altronde, come aveva risposto De Gasperi ai parlamentari britannici, si trattava di un istituto giuridico introducibile “solo con estrema cautela nelle Nazioni che hanno esercito permanente e servizio militare obbligatorio”.

Lo stesso Capitini, comunque, non nascose i limiti della legge, che definì “difettosissima”, rimarcando d’altronde come “con una simile legge si arricchirebbe il regolamento dell’esercito di un articolo che dice che chi fa obiezione di coscienza sarà privato del soldo, etc., eccettuati due o tre casi che sarebbero riconosciuti, proprio per poter meglio battere gli altri”.

E tuttavia, dopo questa proposta, per tutto il decennio successivo l’attenzione dell’opinione pubblica andò progressivamente disinteressandosi all’argomento, mentre continuavano a susseguirsi le voci di un prossimo intervento del legislatore in materia.

L’obiezione di coscienza perse dunque di visibilità: nonostante il 28 ed il 29 ottobre 1950 si svolgesse il primo convegno italiano dedicato all’esame dei problemi dell’obiezione di coscienza, con la presenza – ovviamente – di Capitini, che d’altra parte l’estate precedente aveva partecipato ai lavori del Congresso mondiale delle Religioni; nonostante nel ’56 si tenesse un secondo congresso sul tema, arricchito dalla presenza di diversi intellettuali; nonostante la proposta di legge dei deputati del PSI annunciata il 20 luglio 1957; e nonostante, per ultima, la pubblicazione de “L’obiezione di coscienza in Italia”del “solito” Capitini.

Negli anni ’60 il tema riemerse in seguito allo scalpore suscitato dalle obiezioni illustri, e collettivamente sostenute da gruppi decisi a pubblicizzarle, di nuovi personaggi: tra questi soprattutto il cattolico Gozzini, primo obiettore per motivi religiosi, del cui caso si occupò ancora Aldo Capitini tentando di mobilitare l’opinione pubblica per strappare una legge ormai attesa da un decennio e scrivendo a Pertini di una “battaglia decisiva”; oppure, fu richiamato da alcuni gesti simbolici (il “processo all’obiettore” del centro valdese Agape; la decisione di girare in Italia il film “Non uccidere”, incentrato proprio sull’obiezione, e il successivo diniego delle autorità), capaci d’attrarre attenzioni e sostegno.

Nel ’61, comunque, nacque a Roma un Comitato nazionale destinato a promuovere e organizzare gli sforzi miranti al riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza, ancora arenato – come nel decennio precedente – principalmente sull’interpretazione di quell’art. 52 della Costituzione (e da quel concetto, “sacro dovere del cittadino”…) con cui abbiamo cominciato questa trattazione, e su quel pregiudizio di vecchia data secondo il quale l’obiezione di coscienza, se garantita all’ingegnoso (eufemismo) popolo italiano, sarebbe sfociata nell’abuso sfrenato.

Tuttavia, il consenso intorno all’obiezione di coscienza (sostenuta dall’azione dei Gruppi d’Azione Nonviolenta, o G.A.N., fondati nel ’63 e diffusi in diverse città italiane) ricominciò allora a crescere, come testimoniato dagli attacchi degli avversari – sempre più caotici, disordinati, rabbiosi. E mentre le proposte di legge, per la maggior parte avanzate dal P.S.I., continuavano a naufragare inesorabilmente (quella, molto liberale, del deputato democristiano Pistelli risale al 1964), e ci si contentava ancora delle dichiarazioni possibilistiche delle autorità, si registrò la presa di posizione di don Milani e la continuazione delle condanne esemplari: per citare due casi, quella del cattolico Fabrizio Fabbrini (poi presidente del M.I.R., Movimento Internazionale della Riconciliazione, gruppo guida nella lotta per l’obiezione), che per aver abbandonato la divisa a soli dieci giorni dalla fine del periodo di leva fu condannato a un anno e otto mesi di carcere, e quella di Luigi Pagliarino (Asti), che nel ’66 si guadagnò la quinta condanna (tanto da portare ad una riflessione emblematica: “Se la legge proseguisse il suo corso inarrestabile, egli sarà condannato a un totale di ventiquattro anni di carcere per non aver imparato a uccidere”).

VERSO LA LEGGE

Nel corso dello stesso ’66, comunque, fu approvata una legge – proposta dal democristiano Pedini – che introduceva una sorta di servizio sostitutivo rispetto a quello militare per una quota estremamente limitata di giovani con titolo di studio e contratto di lavoro in Paesi extraeuropei. Mentre il P.C.I. cominciava ad appoggiare le battaglie degli obiettori, che numericamente erano andati crescendo per tutti gli anni ’60 – passando dai 4 del 1961 ai 41 del ’66 - anche il Partito Radicale si aggiunse alle fila delle forze favorevoli a legiferare sull’obiezione di coscienza, e nel ’69 si costituì una Lega per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza per iniziativa di quei parlamentari che avevano depositato disegni di legge su questo tema: tutto questo portò, verso la fine del decennio, ad una maggiore apertura e disponibilità delle gerarchie militari nei confronti dell’obiezione – a dire il vero, più per contrastare la diffusione di concezioni antimilitariste all’interno di caserme che sempre più spesso conoscevano fenomeni di contestazione che per motivazioni progressiste – senza peraltro che si incrinasse, invece, la durezza della detenzione degli obiettori e la severità della repressione nei loro confronti.

Anche per i militari cominciava a diventare necessaria una legge: la strada, in pratica, era spianata.

Oltre al progetto di legge di iniziativa popolare elaborato dal Movimento nonviolento di Mestre due nuovi disegni di legge furono consegnati al Senato (Anderlini-Marcora) e tre alla Camera (Fracanzani-Servadei-Martini); nel febbraio del 1971, poi, la Commissione difesa del Senato cominciò l’esame in sede referente del testo elaborato da una commissione ristretta, ed approvò un disegno di legge che sarebbe stato ferocemente contestato dagli obiettori (l’obiettore doveva aver fatto “manifesta professione” dei suoi motivi di coscienza, una commissione li avrebbe indagati, l’alternativa proposta era quella di “servizio militare non armato” per non dare adito a tendenze antimilitariste, il servizio civile sarebbe stato più lungo di quello militare, in caso di guerra gli obiettori sarebbero stati impiegati in incarichi di particolare pericolosità), prima di decadere – quasi sulla linea del traguardo – a causa della sospensione dei lavori parlamentari per l’elezione del Presidente della Repubblica prima e per lo scioglimento delle Camere poi.

Fu così che si recuperò il progetto di legge Marcora dell’anno precedente, dopo i ritocchi imposti dal direttivo della D.C. divenuto particolarmente restrittivo (i motivi giustificatori dell’obiezione avrebbero dovuto “essere attinenti a una concezione generale della vita basata su profondi convincimenti religiosi o filosofici di cui sia stata fatta in precedenza manifesta professione”, la commissione avrebbe dovuto vagliare “il fondamento dei motivi addotti”, il servizio militare non armato sarebbe durato venticinque mesi, in tempo di guerra gli obiettori sarebbero stati impiegati “anche per attività pericolose”).

Fu così che la legge sull’obiezione di coscienza vide infine la luce il 15 dicembre del 1972, dopo quindici anni di travagli.

 

LEGGE 15-12-1972 N° 772

Norme per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza


Art.1.

Gli obbligati alla leva che dichiarino di essere contrari in ogni circostanza all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza, possono essere ammessi a soddisfare l’obbligo del servizio militare nei modi previsti dalla presente legge.
I motivi di coscienza addotti debbono essere attinenti a una concezione generale della vita basata su profondi convincimenti religiosi o filosofici o morali professati dal soggetto.
Non sono comunque ammessi ad avvalersi della presente legge coloro che al momento della domanda risulteranno titolari di licenze o autorizzazioni relative alle armi indicate, rispettivamente negli articoli 28 e 30 del testo unico della legge di pubblica sicurezza o siano stati condannati per detenzione o porto abusivo di armi.
 

Art.2.

I giovani indicati nel primo comma dell’articolo 1 devono presentare domanda motivata ai competenti organi di leva entro 60 giorni dall’arruolamento.
Gli abili ed arruolati, ammessi al ritardo e al rinvio del servizio militare per i motivi previsti dalla legge, che non avessero presentato domanda nei termini stabiliti dal comma precedente, potranno produrre ai predetti organi di leva entro il 31 dicembre dell’anno precedente alla chiamata alle armi .


Art.3.

Il Ministro per la difesa, con proprio decreto, decide sulla domanda sentito il parere di una commissione circa la fondatezza e la sincerità dei motivi addotti dal richiedente.
Il Ministro decide entro sei mesi dalla presentazione della domanda.
La presentazione alle armi è sospesa sino a quando il Ministro per la difesa non si sia pronunciato sulla domanda.
 

Art.4.

La commissione di cui all’articolo precedente è nominata con decreto del Ministro per la difesa ed è composta come segue:
* da un magistrato di cassazione con funzioni direttive, designato dal Consiglio superiore della magistratura, presidente;
* da un ufficiale generale o ammiraglio in servizio permanente, nominato dal Ministro per la difesa;
* da un Professore universitario di ruolo di discipline morali, designato dal Ministro per la Pubblica istruzione;
* da un sostituto avvocato generale dello Stato, designato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito l’avvocato generale dello Stato;
* da un esperto in psicologia designato dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
Le funzioni di segretario sono svolte da un funzionario della carriera direttiva amministrativa del Ministero della difesa.
La commissione raccoglie e valuta tutti gli elementi utili ad accertare la validità dei motivi addotti dal richiedente.
La commissione dura in carica tre anni e i suoi componenti possono essere riconfermati non su di una volta.
Il ministro per la difesa ha facoltà di nominare una o più commissioni.
 

Art.5.

I giovani ammessi ai beneÞci della presente legge devono prestare servizio militare non armato, o servizio sostitutivo civile, per un tempo superiore di otto mesi alla durata del servizio di leva cui sarebbero tenuti.
Il Governo della Repubblica è autorizzato ad emanare le norme regolamentari relative all’attuazione della presente legge.
Qualora l’interessato opti per il servizio sostitutivo civile, il Ministro per la difesa, nell’attesa dell’istituzione del Servizio civile nazionale, distacca gli ammessi presso enti, organizzazioni o corpi di assistenza, di istruzione, di protezione civile e di tutela ed incremento del patrimonio forestale, previa stipulazione, ove occorra, di speciali convenzioni con gli enti, organizzazioni o corpi presso i quali avviene il distacco.

Art.6.

Decade dal beneficio dell’ammissione al servizio civile sostitutivo chi:
a) omette, senza giusto motivo, di presentarsi entro quindici giorni da quello stabilito, all’ente, organizzazione o corpo cui è stato assegnato;
b) commette gravi mancanze disciplinari o tiene condotta incompatibile con le finalità dell’ente, organizzazione o corpo cui appartiene.
Il provvedimento è adottato dal Ministro, sentito il parere della commissione di cui all’articolo 4.
 

Art.7.

Colui che presta servizio sostitutivo civile nei modi previsti dalla presente legge, non può assumere impieghi o uffici pubblici o privati o iniziare attività professionali. Il trasgressore sarà punito con la pena della reclusione Þno a un anno.
Per colui che già si trovasse nell’esercizio delle attività e delle funzioni di cui al primo comma si applicano le disposizioni valevoli per i cittadini chiamati al servizio militare.
 

Art.8.

Chiunque ammesso ai beneÞci della presente legge, rifiuti il servizio militare non armato o il servizio sostitutivo civile è punito, se il fatto non costituisca più grave reato, con la reclusione da due a quattro anni.
Alla stessa pena soggiace, sempre che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, al di fuori dei casi di ammissione ai beneÞci della presente legge, rifiuta, in tempo di pace, prima di assumerlo, il servizio militare di leva, adducendo i motivi di cui all’articolo 1.
L’espiazione della pena esonera dalla prestazione del servizio militare di leva.
L’imputato e il condannato possono far domanda di essere nuovamente assegnati, nel caso di cui al primo comma, o di essere ammessi, nel caso di cui al secondo comma, ad un servizio militare non armato o a un servizio sostitutivo civile.
L’imputato e il condannato ai sensi del secondo comma possono far domanda di essere arruolati nelle forze armate.
Sulle domande decide il Ministro per la difesa, sentita, nei casi di cui al quarto comma, la commissione prevista dall’articolo 4.
L’accoglimento delle domande estingue il reato e, se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione della condanna, le pene accessorie ed ogni altro effetto penale. Il tempo trascorso in stato di detenzione è computato in diminuzione della durata prescritta per il servizio militare, armato o non armato, o per il servizio sostitutivo civile .
 

Art.9.

A coloro che siano stati ammessi a prestare servizio militare non armato o servizio sostitutivo civile è permanentemente vietato detenere ed usare le armi e munizioni, indicate rispettivamente negli articoli 28 e 30 del testo unico della legge di pubblica sicurezza, nonché fabbricare e commerciare, anche a mezzo di rappresentante, le armi e le munizioni predette.
È fatto divieto alle autorità di pubblica sicurezza di rilasciare o rinnovare ai medesimi alcuna autorizzazione relativa all’esercizio delle attività di cui al comma precedente.
Chi trasgredisce ai adesso viti di cui al primo comma è punito, qualora il fatto non costituisca reato più grave, con l’arresto da un mese a tre anni e con l’ammenda di lire 40 mila a 170 mila e, inoltre, decade dai beneÞci previsti dalla presente legge.
 

Art.10.

In tempo di guerra gli ammessi a prestare servizio militare non armato o servizio civile sostitutivo possono essere assegnati a servizi non armati, anche se si tratti di attività pericolose.
 

Art.11.

I giovani ammessi ad avvalersi delle disposizioni della presente legge sono equiparati ad ogni effetto civile, penale, amministrativo, disciplinare, nonché nel trattamento economico, ai cittadini che prestano il normale servizio militare.

 

Art.12.

Coloro che, anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge, siano stati imputati o condannati per i reati militari determinati da obiezioni di coscienza, possono, entro trenta giorni dalla data stessa, presentare la domanda di cui al precedente articolo 2 , dichiarando di assoggettarsi alla prestazione del servizio militare non armato o del servizio sostitutivo civile ai sensi del precedente articolo 5. Il Ministro per la difesa deve provvedere alla decisione sulle domande nel termine abbreviato di trenta giorni dalla presentazione della domanda. L’inosservanza del termine di cui al comma precedente comporta accoglimento della domanda.
La competente autorità giudiziaria sospende l’azione penale Þno alla decisione del Ministro.
In caso di accoglimento della domanda cessano gli effetti penali delle sentenze di condanna già pronunciata, anche se divenute irrevocabili. Il tempo trascorso in stato di detenzione sarà computato in diminuzione della durata prescritta per il servizio militare non armato o per il servizio sostitutivo civile.
In ogni caso, se il tempo trascorso in stato di detenzione sarà stato superiore a un anno, il detenuto sarà inviato in congedo illimitato.

 

Art.13.

Gli arruolati che alla data di entrata in vigore della presente legge siano in attesa di chiamata alle armi possono produrre ai componenti organi di leva la domanda di ammissione ai beneÞci della presente legge entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge stessa.

 



 

 

 

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[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

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