.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]

RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

storia & sport


N. 16 - Aprile 2009 (XLVII)

La follia di marzo
la storia del campionato di basket NCAA

di Simone Valtieri

 

NCAA è un acronimo in lingua inglese che sta per “National Collegiate Athletic Association”. In pratica è l’istituto che governa lo sport universitario negli Stati Uniti e che organizza i tornei sportivi nazionali a cui partecipano rappresentative di studenti provenienti da ogni angolo del Paese.

 

Il piatto forte dei campionati NCAA sono le prime divisioni di football americano e soprattutto di pallacanestro, anche se non mancano tornei di altri sport di squadra e non. L’apice dell’interesse si raggiunge nel mese di marzo, quando con cadenza annuale è prevista la fase finale itinerante del torneo di basket.

 

Le 65 formazioni più meritevoli degli Stati Uniti accedono al tabellone nazionale ad eliminazione diretta, dopo una lunga stagione regolare di qualificazione a livello locale.

 

Il coinvolgimento del pubblico americano per questo torneo è qualcosa di incredibilmente sentito, tanto da essersi meritato il soprannome di “march madness” (la follia di marzo).

Si stima che negli Stati Uniti siano più le persone che seguono i campionati NCAA, che assegnano titoli regionali e servono da qualificazione per la fase finale, piuttosto che il campionato professionistico nazionale della NBA. Questo deriva dal fatto che le grandi franchigie della National Basketball Association sono sì diffuse sul territorio, ma catalizzano l’attenzione di soli 28 grandi centri urbani americani e di uno canadese, lasciando scoperti più della metà degli stati.

 

Le università sono invece ben più radicate in tutto il territorio, quasi ogni città ne ha una, e le formazioni iscritte ai tornei di prima divisione sono oltre trecento. Se ci si aggiunge che, a differenza delle formazioni NBA, le università non possono essere trasferite da una città all’altra e che per spirito di appartenenza, chi ne frequenta una, vi rimane legato a vita, si capisce come sia coinvolto in maniera diretta un numero maggiore di persone.

La “march madness” è malattia pura. Gli americani impazziscono letteralmente e, un po’ come accade in Italia con il calcio, la pallacanestro diventa per un mese intero argomento prevalente di discussione in ogni angolo del Paese.

 

Nei vari locali pubblici sono appesi grandi tabelloni con la griglia delle partite da giocare e ad ogni vittoria della squadra locale, o della rappresentante della propria conference, si scatenano vere e proprie feste popolari. Tra l’altro c’è il caso che a giocare nelle varie squadre ci sia il figlio dell’amico, quando non un proprio parente o comunque un “ragazzo del quartiere”, quindi si può ben immaginare quanto le varie comunità si possano sentire coinvolte in un avvenimento che per un mese catalizza l’attenzione di tutta una nazione.

C’è un secondo elemento che accresce l’interesse nei riguardi del torneo NCAA. Ogni giocatore che arriva alla fase finale ha la possibilità di mettersi in luce davanti al Paese intero e soprattutto agli occhi degli osservatori mandati dalle 30 franchigie professionistiche.

 

Tutto serve per inseguire il sogno di essere ingaggiato da una delle formazioni più importanti e per accaparrarsi il miglior piazzamento possibile nel Draft dell’estate seguente. Il Draft è il democratico sistema di ingaggio dei giovani più bravi che assegna il diritto di scegliere i migliori talenti alle squadre peggio classificate nell’ultima stagione NBA, allo scopo di equilibrare ogni anno il campionato.

Scendendo nel dettaglio: La NCAA, con sede ad Indianapolis, nello stato dell’Indiana, segue la crescita dei giovani talenti sportivi americani e li indirizza, quando i risultati lo permettono, al mondo del professionismo.

 

Per quello che riguarda la pallacanestro, il campionato è organizzato in 32 conference locali, ossia 32 mini-campionati con numero di squadre variabile da 8 a 16. Sei sono le cosiddette “major conferences”: Big East (raggruppa alcuni atenei del nord est degli Stati Uniti), Big Twelve (nel “midwest”), Big Ten (nel “middle east”), ACC (Atlantic Coast Conference), SEC (South Eastern Conference) e PAC-10 (costa pacifica).

 

Ogni campionato promuove una squadra alle fasi finali, per un totale di 32 team su 65. La NCAA si riserva il diritto di scegliere le altre 33 formazioni, tra quelle che maggiormente si sono distinte durante le varie stagione regolare. E’ ovvio comunque che molte delle squadre scelte vengano “pescate” dalle sei maggiori conferences, per cui ognuna delle majors ha un numero di squadre invitate che varia dalle tre alle sei.

La fase finale a 65 squadre prevede un match di spareggio iniziale (opening round game) tra le due formazioni meno quotate del torneo. Si decide poi il tabellone nella cosiddetta “Selection Sunday” e si articola il campionato in quattro griglie più piccole da sedici squadre ciascuna: East, South-East, Midwest e West.

 

Le qualificate alle semifinali di ogni zona, ossia le formazioni che superano la prima settimana prendono il nome di “Sweet Sixteen”, ossia le “dolci sedici”, quindi si riducono a otto (“Elite Eight”) e le vincenti accedono alla ambitissima “Final Four”.

 

Il torneo si svolge ogni anno a cavallo tra la fine di marzo e l’inizio del mese di aprile e rappresenta il culmine della “march madness”, in cui, come per il Superbowl e per le finali NBA, il Paese intero si incolla alla televisione per seguire le gesta dei giovani e promettenti cestisti.

Le regole sono leggermente diverse da quelle NBA: ogni azione offensiva dura 35 secondi contro i 24 previsti dalla lega professionistica. I tempi sono due da 20 minuti (quattro da 12 nella NBA) e soprattutto si privilegia il gioco di squadra e la disciplina, secondo la teoria che l’università deve insegnare a vivere e non solo a giocare a basket.

 

I primi vincitori ufficialmente riconosciuti del torneo nazionale sono le “papere” dell’Oregon. Come da tradizione americana infatti, il nome di ogni squadra sportiva, sia essa di professionisti o di dilettanti, è abbinato ad un appellativo che riconduce al folklore o alla fauna del luogo, in questo caso “Ducks”. La “University of Oregon” guidata da coach Howard Hobson, sconfisse nel 1939 Ohio State per 46-33. Come Mvp (Most valuable player, ossia il miglior giocatore) dell’incontro fu scelto Jimmy Hull di Ohio, fatto curioso in quanto elemento della squadra sconfitta.

Nel ’50 c’è la prima vera sorpresa della storia NCAA, quasi un miracolo. A vincere è CCNY (City College of New York), un piccolo ateneo cittadino noto come “Harvard dei poveri” in quanto offriva ai residenti istruzione di qualità a basso costo. Non dava borse di studio, quindi non poteva attirare i migliori atleti: di conseguenza, l’unico modo per accedere, era avere voti alti, cosa non molto appetita dai giocatori, così quelli migliori preferivano altri college.

 

Nonostante ciò, coach Nat Holman vinse inaspettatamente il titolo e anche l’NIT (National Invitation Tournament), prestigioso torneo a inviti che si svolge successivamente alla Final Four.

I “Beavers”del City College di New York vincono il loro unico titolo NCAA in quelli che saranno poi ricordati dalla storia come gli anni dei fortissimi Kentucky Wildcats e del loro celebre coach Adolph Rupp.

 

I “gatti selvatici” si impongono nel ’48, ’49, ’51 e ’58, perdendo una storica finale nel 1966 contro Texas Western. La vicenda di quella partita e di quella squadra della cittadina di El Paso è narrata in un film, “Glory Road” di James Gartner. La particolarità di quella formazione stava nella scelta di coach Don Haskins, al tempo molto coraggiosa e maturata tra mille difficoltà e contestazioni, di schierare un quintetto interamente composto da giocatori di colore. Il match giocato alla Cole Field House di College Park, in Maryland, terminò 72-65 per la formazione texana che ricevette alla fine della partita i complimenti, tra gli altri, del capitano di Kentucky: un certo Pat Riley.

Gli anni Sessanta e Settanta sono quelli dell’incredibile serie di vittorie maturate da UCLA, l’università della California di Los Angeles, guidata dal leggendario coach John Wooden. Dal 1964 al 1975 sono dieci i titoli conseguiti dal college californiano in un torneo duro e selettivo come la NCAA, in cui di anno in anno i quintetti cambiano per ovvie ragioni di ciclo scolastico e dove nel tabellone ad eliminazione diretta in partita unica non è concesso sbagliare neanche un incontro. L’abilità di Wooden è stata quella di creare ogni anno un quintetto vincente, di volta in volta con i giocatori che aveva a disposizione.

 

Qualche numero per raccontare la grandezza del personaggio che, forse a buon diritto, è considerato il miglior allenatore della storia dello sport: vince dieci titoli in dodici anni, ottiene quattro volte la stagione perfetta (30 vittorie e zero sconfitte), detiene il record di vittorie consecutive di match (88) e di campionati (sette dal ’67 al 73’) e resta sulla panchina dei suoi amati Bruins (orsi bruni) per ben 27 anni, dal 1948 al 1975.

Al di là dei suoi pur incredibili successi sportivi, “The Coach”, come veniva chiamato John Wooden, che oggi ha quasi 99 anni, è passato alla storia come insegnante di vita: i suoi principi, riuniti in uno schema denominato “Piramide del successo”, sono stati di esempio in campo e fuori per alcuni dei più grandi giocatori della storia, tra cui Kareem Abdul-Jabbar e Bill Walton.

Gli anni Settanta sono anche quelli di Bobby Knight, coach degli Indiana Hoosiers, campione nel ’76, ’81 e ’87. Coach Knight, ritiratosi da pochi anni, era noto per i suoi modi e metodi durissimi ed allenò, tra gli altri, una futura star NBA come Isiah Thomas.

 

Nel ’79 si ricorda una storica finale, se non altro per i contendenti: da una parte Michigan State di “Magic” Johnson e dall’altra Indiana State di Larry Bird. Vincono gli “Spartans” di Michigan State per 75-64 e Johnson si aggiudica il primo round di un duello entusiasmante con Bird che continuerà per tutti gli anni Ottanta nella NBA all’interno della splendida rivalità sportiva tra Los Angeles Lakers e Boston Celtics.

Nel 1982 è una matricola a far esultare i tifosi dei Tar Heels dell’università di North Carolina, con un canestro sulla sirena ai danni di Georgetown, che assegna il titolo all’università di Chapel Hill: il suo nome è Michael Jordan. MJ passerà solo nel 1984 alla NBA, visto che al tempo ancora non si usava molto pescare giocatori che ancora dovevano terminare gli studi, e diventerà per tutti il cestista più forte di ogni epoca con la maglia dei Chicago Bulls.

 

A proposito della università della North Carolina, va sicuramente menzionata la storica rivalità con i vicini di casa di Duke, con sede a Durham a pochi chilometri di distanza da Chapel Hill.

 

Nella storia della NCAA le due piazze limitrofe si sono aggiudicate sette titoli, quattro per North Carolina guidata in due occasioni da coach Dean Smith, e tre per i “Blue Devils” di Duke.

Negli anni Novanta un nome su tutti è sicuramente quello di “Coach K”, all’anagrafe Mike Krzyzewski, ancora oggi allenatore di Duke, che si aggiudica con la sua formazione i campionati ’91, ’92 e 2001. Considerato un grande motivatore nonché un eccellente educatore, ha nel suo palmares anche un oro olimpico, vinto nel 2008 con gli USA, col grande merito di essere riuscito a disciplinare le bizzose stelle NBA, in genere troppo individualiste e passibili di figuracce contro squadre meglio organizzate (come ai giochi olimpici del 2004 e ai campionati mondiali del 2006).

 

Negli ultimi anni è degna di nota l’impresa dei Florida Gators, capaci di vincere due finali consecutive (doppietta che in gergo tecnico si chiama “back to back”) nel ’06, ‘07 sotto la guida di coach Billy Donovan.

La storia del basket universitario americano non si esaurisce certo nelle poche righe di questo articolo. Gli aneddoti che hanno accompagnato settanta anni di storia sono innumerevoli: dai cosiddetti “Fab Five” di Michigan (Chris Webber, Jalen Rose, Juwan Howard, Jimmy King e Ray Jackson) che nel 1993 persero la finale quando Webber chiamò un time-out che non aveva più, beccandosi un decisivo fallo tecnico, alla sconosciuta George Mason University che nel 2006 giunse alla Final Four schierando una squadra di “bassotti”, senza dimenticare i successi e i programmi vincenti di atenei quali Syracuse (coach Jim Boeheim), Connecticut (Jim Calhoun), Arizona (Lute Olson) e gli accesissimi incontri tra le “Big Five” di Philadelphia, le cinque università della città.

 

Le vicende del basket universitario hanno e continuano a regalare agli appassionati emozioni e storie indimenticabili che coinvolgono tutti, dallo studentello del primo anno che pieno di sogni e aspettative varca per la prima volta la soglia di un ateneo, fino al nuovo presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che non ha nascosto la sua innata passione per la palla a spicchi, compilando in diretta tv la griglia dei pronostici dell’edizione 2009.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]

.

.