[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 155 / NOVEMBRE 2020 (CLXXXVI)


attualità

SUL NAGORNO KARABAKH

ENNESIMO CONFLITTO ALLE PORTE D’EUROPA / PARTE I

di Gian Marco Boellisi

 

A volte ci dimentichiamo quanti conflitti e dispute territoriali irrisolte siano presenti nel mondo, e solamente quando queste stesse si riaccendono e portano sui nostri telegiornali le immagini di combattimenti dall’altra parte del globo ci si ricorda quanto sia precario l’equilibrio internazionale sul quale si poggia la nostra società. Infatti, nella maggior parte delle volte, quelli che sembrano essere scontri tra nazioni “marginali” nelle dinamiche internazionali spesso si rivelano essere confronti tra potenze ben maggiori con interessi dalle ripercussioni globali.

 

Un esempio recentissimo è stato il riaccendersi del conflitto tra Armenia e Azerbaigian nella regione del Nagorno-Karabakh, scontro nato durante gli ultimi anni dell’Unione Sovietica e da allora mai risolto del tutto. È interessante quindi analizzare le motivazioni che hanno portato queste nazioni del Caucaso allo scontro e capire quanto una guerra di lunga durata tra questi paesi porterebbe a forti squilibri per tutto il Mediterraneo.

 

Partiamo quindi dalla storia di questa particolare regione e dei rapporti tra Armenia e Azerbaigian. Il nome Nagorno-Karabakh è un’unione di parole russe e turche e significa letteralmente “Giardino nero montuoso”. È un territorio di dimensioni esigue, non particolarmente ricco di risorse naturali, circondato da alte catene montuose e da lunghe valli che si racchiudono in esse. Tuttavia questo fazzoletto di terra ricopre un grande valore strategico, trovandosi esattamente nel mezzo del Caucaso Meridionale, in una regione che negli ultimi anni sta diventando sempre più vitale per connettere l’Europa e l’Asia dal punto di vista commerciale ma soprattutto energetico.

 

L’area di nostro interesse si trova racchiusa geograficamente tra i confini azeri ma attualmente occupata manu militari dall’Armenia a seguito del conflitto tra le due nazioni dei primi anni ‘90. In passato questa regione costituiva l’antica provincia armena di Artsakh e nel corso dei secoli è passata sotto il controllo di svariati imperi, tuttavia i fatti che noi vediamo oggi sono frutto di ciò che è accaduto dopo la prima guerra mondiale.

 

Quando l’Impero Russo collassò e al suo posto venne l’Unione Sovietica, Armenia, Azerbaigian e Georgia si dichiararono indipendenti dal giogo di San Pietroburgo e formarono la Repubblica Federale Democratica Transcaucasica, la quale ebbe vita brevissima per dissidi interni tra i membri fondanti.

 

Proprio per questi dissidi tra il 1918 e il 1920 iniziarono a verificarsi degli scontri tra la Repubblica democratica armena e la Repubblica democratica azera per delle dispute di confine in tre regioni: Nakchivan, Zangezur (l’attuale provincia armena di Syunik) e nel Nagorno-Karabakh. Nonostante questi avvenimenti, la Russia non si era dimenticata del suo confine meridionale. Infatti, una volta riacquisito un briciolo di stabilità dopo la presa del potere, l’11° Armata Sovietica invase tutto il Caucaso e nel 1922 fondò la Repubblica Socialista Sovietica Federale Transcaucasica.

 

Nel cercare di amministrare la regione e prevenire ulteriori conflitti tra le proprie repubbliche, inizialmente le autorità sovietiche decisero di concedere la sovranità territoriale del Nagorno-Karabakh alla neonata RSS di Armenia. Tuttavia già il giorno successivo venne mutata questa decisione e venne quindi assegnata la sovranità alla neonata RSS di Azerbaigian, il cui Soviet paradossalmente aveva già riconosciuto il diritto dell’Armenia ad amministrare la suddetta regione. Infine nel 1923 si procedette a creare l’Oblast Autonoma del Nagorno-Karabakh, la cui capitale venne spostata da Shushi a Stepanakert.

 

In quegli anni si stima che il 94% della popolazione fosse di origine armena, essendovi qui insediata già secoli prima e sempre rimasta nella regione. La decisione sovietica quindi può essere vista in linea con le politiche di quegli anni, in quanto all’epoca l’Unione Sovietica veniva vista come un unico blocco e un unico stato, e quindi non ci si poneva il problema di chi amministrasse questa o quella regione (un po’ come sarebbe successo per la Crimea una trentina di anni dopo). Dall’altro lato però alcuni studiosi pensano che questa mossa non fosse altro che un favore per mantenere buoni rapporti con la Turchia di Atatürk, all’epoca nel pieno della sua fase di modernizzazione.

 

Lo status quo rimase intatto fino alla fine degli anni ’80, quando ormai il gigante sovietico si avvicinava alla sua morte prematura. Nel febbraio del 1988, sull’onda delle riforme progressiste di Gorbačëv, il Soviet Regionale del Nagorno-Karabakh decise di votare per unificare la regione all’Armenia staccandosi da Baku.

 

La popolazione della regione infatti lamentava che nelle scuole non vi fossero più libri in lingua armena e che il Segretario generale azerbaigiano Heydar Aliyev, futuro presidente dell’Azerbaigian stesso e padre dell’attuale capo di stato, avesse incoraggiato una forte politica di “azerizzazione” della regione, aumentando con la forza l’etnia azera nell’area. Basti pensare che in quegli anni gli armeni si erano ridotti di un quarto rispetto al 1923. Questa richiesta fu immediatamente appoggiata da numerosi personaggi di spicco della società armena, ma anche da intellettuali russi.

 

Ciò tuttavia esacerbò le tensioni tra le due repubbliche sovietiche benché ancora facenti parte dell’Unione, a testimonianza anche di come Mosca stesse perdendo la presa sui vari Soviet. Le tensioni portarono a veri e propri scontri etnici tra armeni e azeri presenti nel Nagorno-Karabakh, compresi sgomberi forzati di intere famiglie di etnia azera da vari villaggi e città.

 

Il punto di non ritorno si raggiunse nella prima metà del 1988 con il pogrom di Sumgait e svariati altri episodi simili, i quali scatenarono l’odio e la violenza tra le due etnie e portarono a numerose azioni di rappresaglia nei mesi e negli anni successivi.

 

Il Cremlino in quel decennio fu chiamato ad affrontare problemi titanici, quali la ritirata definitiva dall’Afghanistan, la crisi economica e le spinte centrifughe delle proprie Repubbliche Sovietiche. Proprio per questo motivo Mosca non riuscì a tenere sotto controllo ciò che stava accadendo tra Armenia e Azerbaigian, dove i disordini causarono centinaia di morti in vari mesi.

 

C’è anche da notare che la differenza di fede tra i due stati, gli armeni cristiani e gli azeri musulmani, ha da sempre contribuito ad aggiungere un ulteriore motivo di odio tra i due popoli, anche se non ha mai costituito direttamente la causa principale delle violenze.

 

Proprio le suddette spinte indipendentiste alla fine ebbero la meglio, portando l’Armenia a dichiarare l’indipendenza dall’U.R.S.S., il 21 settembre del 1991, e l’Azerbaigian a fare lo stesso il 18 ottobre dello stesso anno. Una volta indipendenti, le due nazioni si prepararono sin da subito alla guerra, tant’è che nel Nagorno-Karabakh sia armeni che azeri cominciarono ad armarsi.

 

Già il 2 settembre il Soviet del Nagorno-Karabakh votò la secessione da Baku legittimando la sua richiesta su una legge del 1990 che gli consentiva di non seguire la Repubblica dell’Azerbaigian nella sua decisione di separarsi dall’Unione Sovietica. Il 26 novembre il Consiglio supremo dell’Azerbaigian reagì e votò la revoca dello statuto autonomo del Nagorno-Karabakh, ribattezzandone il capoluogo Kankendi e infischiandosene del voto sulla secessione da Baku. Il 10 dicembre in Nagorno-Karabakh si tenne un referendum per la convalida del voto di autodeterminazione con un esito favorevole per il 98% dei consensi.

 

Lo stallo quindi era stato totalmente raggiunto. In aggiunta a tutto ciò, il 26 dicembre 1991 l’Unione Sovietica cessò di esistere definitivamente, spianando la strada ad anni di grande caos per tutto lo spazio ex-sovietico.

 

Per quanto il presidente russo Boris El’cin e il presidente kazako Nursultan Nazarbayev tentarono negli ultimi mesi del 1991 e nelle prime settimane del 1992 a mediare tra i due paesi, ogni sforzo di raggiungere un accordo si arenò molto presto. Fu così che a mezzogiorno del 31 gennaio 1992 iniziò ufficialmente la guerra tra Armenia e Azerbaigian. Il conflitto si protrasse fino al 1994, lasciando dietro di sé un’immane distruzione e un numero di morti elevatissimo.

 

Per quanto l’Armenia nel 1993 attraversò un momento di difficoltà nel conflitto, nel 1994 riuscì a occupare tutti i punti chiave del territorio del Nagorno-Karabakh, impedendo agli azeri di avanzare. Arrivate entrambe le nazioni a uno stallo e con l’incapacità economica di proseguire il conflitto, il 5 maggio 1994 venne firmato a Biškek, capitale del Kirghizistan, tra Armenia, Azerbaigian e Nagorno-Karabakh quello che venne definito “Accordo di Biškek”, mentre il 12 maggio fu firmato dai rispettivi ministri della difesa un cessate il fuoco a partire dal 17 maggio.

 

Le conseguenze del conflitto furono devastanti. Oltre ai 30.000 morti e agli 80.000 feriti vi furono anche diverse centinaia di migliaia di profughi che da entrambi gli schieramenti dovettero abbandonare le proprie case per allontanarsi dalle aree dei combattimenti.

 

Quando il conflitto si concluse nel 1994 la Repubblica del Nagorno-Karabakh, riconosciuta formalmente ancora oggi solamente dall’Armenia, aveva esteso il suo territorio fino agli attuali 11458 km².

 

L’intero conflitto è stato mediato e gestito dall’Osce dal cosiddetto Gruppo di Minsk, composto da Francia, Russia, Stati Uniti, Armenia, Azerbaijan, Italia, Bielorussia, Germania, Portogallo, Paesi Bassi, Turchia, Svezia e Finlandia. Nel corso degli anni sono state emanate ben 4 risoluzioni ONU inerenti allo status quo post conflitto, ovvero la 822, la 853, la 874 e la 884.

 

Queste risoluzioni stabiliscono che il Nagorno-Karabakh è una regione contesa a maggioranza etnica e chiedono il ritiro incondizionato delle truppe armene dai 7 distretti attorno a tale regione, i quali sono stati occupati durante la guerra e sono in tutto e per tutto azeri, rendendo quella armena una vera e propria occupazione militare.

 

Una soluzione pensata negli anni per arrivare a una vera pace sarebbe quella di restituire a Baku almeno 5 di questi 7 distretti, essendo al momento la continuità territoriale azera interrotta dall’occupazione armena. Inutile dirlo, Erevan non hai mai adempiuto a tali indicazioni.

 

Dalla tregua del 1994 si sono avuti negli anni diverse violazioni di questo fragilissimo equilibrio, la più importante delle quali si è avuta nel 2016 con la cosiddetta “Guerra dei Quattro Giorni”. In quest’occasione fu la Russia a far rientrare subito l’emergenza e a calmare i toni tra le due nazioni.

 

Oggi tuttavia ci troviamo di fronte a tutt’altra situazione. Per capirlo basta analizzare le spese militari dei due paesi, le quali non hanno fatto altro che aumentare negli ultimi anni. Baku è passata dallo spendere 1.529milioni di dollari nel 2017 in armamenti ai 1.624milioni di dollari nel 2018, mentre Erevan da 444milioni di dollari nel 2017 a 591milioni nel 2018.

 

Già così la differenza dopo un primo sguardo è notevole. L’Azerbaigian ha investito pesantemente nella propria difesa, aumentando il proprio arsenale sia qualitativamente che quantitativamente, comprando armi peraltro da Russia, Israele, Pakistan e Turchia. Per quanto riguarda l’Armenia il maggior fornitore di armamenti rimane la Russia, la quale in questa vicenda si può notare che ci guadagna vendendo a entrambe le parti. Un’arte vecchia quanto il mondo direbbero alcuni.

 

Tenendo conto che le tensioni tra i due paesi non si sono mai spente e che negli ultimi anni hanno speso una grande somma di denaro pubblico per rimpinguare i propri arsenali, lo scorso 27 settembre 2020 le ostilità tra Armenia e Azerbaigian sono riprese praticamente lungo tutta la Linea di Contatto, ovvero tutta la linea di demarcazione formata dopo il cessate il fuoco del 1994.

 

Nonostante si pensasse potesse essere l’ennesima scaramuccia di confine, i fatti hanno dimostrato il contrario con forti combattimenti in tutta l’area e forti perdite da entrambi i lati. Si è arrivati addirittura a proclamare la legge marziale in Azerbaigian per gravi necessità nazionali. L’intensità del conflitto è stata segnata anche dal coinvolgimento dei civili, i quali non sono stati risparmiati da bombardamenti e dall’essere costretti in svariate occasioni a lasciare le proprie abitazioni per evitare di essere colpiti.

 

Oltre ai normali movimenti di fanteria e di reggimenti corazzati, si sta assistendo anche a un impiego massiccio di forze aeree di nuova generazione, quali droni a comando remoto.

 

Alcuni analisti l’hanno addirittura ribattezzata la “prima guerra del futuro”, vedendo i droni azeri acquistati da Israele e Turchia colpire postazioni fisse, forze corazzate e depositi di munizioni armeni.

 

Attualmente le forze in campo contano 44.800 regolari per l’Armenia e 126.000 regolari per l’Azerbaigian, tuttavia i primi possono contare su 210.000 riservisti mentre i secondi su 300.000. Sia dai numeri degli effettivi sia dagli investimenti militari citati sopra, si può notare che l’Armenia risulti in svantaggio rispetto al suo avversario, almeno sulla carta.

 

Essa tuttavia conta sul fatto di detenere svariati punti strategici nella regione e che i suoi uomini possano resistere nonostante lo squilibrio di forze. Da quel che dicono le ultime notizie, le forze di Baku stanno avanzando in svariati punti della Linea di Contatto, forti del supporto aereo, anche se con estrema difficoltà vista l’aspra resistenza armena incontrata.

 

Ora che abbiamo analizzato il conflitto, il vecchio e il nuovo, è interessante comprendere l’anatomia politica degli attori coinvolti.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]