Eugenio Montale e i 100 ANNI di
Ossi di seppia
tra classico e resistenza
di Riccardo
Renzi
Montale torna al centro del
dibattito culturale e accademico
italiano, non solo per la ricorrenza
simbolica, ma per l’effettiva
attualità che ancora emana da un
testo fondativo della poesia
novecentesca.
Era il 1925 quando, a Torino, il
giovane Montale pubblicava con
l’editore Piero Gobetti questa sua
prima silloge poetica, che avrebbe
segnato in profondità non soltanto
la propria parabola artistica, ma
quella di intere generazioni di
poeti a venire.
L’opera, riveduta e ampliata nel
1928, si sarebbe presto imposta come
uno dei capisaldi della poesia
italiana del secolo, tanto da
entrare a pieno titolo in quello che
potremmo definire il “canone
resistente”: una raccolta di voci
poetiche capaci di sopravvivere alle
mode, alle scuole e persino al
rischio – oggi ben presente – della
museificazione.
La commemorazione di un’opera così
centrale comporta, inevitabilmente,
una duplice operazione. Da un lato è
doveroso celebrarla, collocandola
nel suo contesto storico e
culturale, riconoscendone
l’influenza e rileggendone i versi
alla luce delle acquisizioni
critiche più recenti. Dall’altro
lato, si tratta di proteggerla – con
pari zelo – dalla minaccia
dell’abuso interpretativo, della
sacralizzazione sterile e dell’iper-testualizzazione
scolastica che spesso travolge i
“classici”.
Montale stesso, con sottile ironia,
aveva già intuito questo rischio
quando affermava: «I critici, da me
depistati…», sottolineando il
piacere quasi ludico che traeva nel
disseminare le sue poesie di
ambiguità, sottintesi e silenzi.
Ossi di seppia nasce tra il 1916 e
il 1925, in un periodo denso di
trasformazioni, sia personali che
storiche. Montale è autodidatta: si
è diplomato in ragioneria, coltiva
la passione per la letteratura e per
la musica, e frequenta circoli
culturali animati da un fermento
critico.
Appena ventottenne, pubblica questa
raccolta che si presenta da subito
come un controcanto alla tradizione
dannunziana, un rovesciamento
dell’eloquenza solenne in una lingua
spesso aspra, metallica,
frammentata, simile per certi versi
a una “controeloquenza”, come lui
stesso la definirà più tardi.
Nel clima ideologico del 1925, con
la pubblicazione del Manifesto degli
intellettuali fascisti da parte di
Giovanni Gentile, Montale compie una
scelta chiara: firma il
contro-manifesto di Croce, assumendo
una posizione di netta ma sobria
opposizione al fascismo. Non
militanza attiva, ma resistenza
morale, in linea con la concezione
crociana della letteratura come
sfera autonoma, distante dai
compromessi della politica. In
Ossi di seppia, questa
resistenza si traduce in una laicità
radicale, in un’anti-ideologia che
si esprime nell’amara sentenza di
Non chiederci la parola, manifesto
dell’impossibilità di una parola
“risolutiva”: «ciò che non siamo,
ciò che non vogliamo».
Uno degli aspetti centrali della
raccolta è la costruzione del
paesaggio, che non è mai
semplicemente descrittivo o
naturalistico, ma simbolico e
interiore. Il paesaggio ligure –
aspro, pietroso, essenziale –
diventa figura di una condizione
umana disillusa, attraversata da un
“male di vivere” che non trova
redenzione né in un orizzonte
escatologico, né in una funzione
palingenetica della poesia.
L’aridità fisica e simbolica di
Meriggiare pallido e assorto, la sua
muraglia irta di cocci aguzzi di
bottiglia, evoca una realtà
invalicabile, un confine tra l’umano
e il mondo, tra desiderio e
significato, che è anche cifra
dell’incomunicabilità e della
disarmonia.
Montale, come Morandi nella pittura
o Eliot nella poesia anglosassone
(con cui tante affinità sono state
giustamente rilevate), elegge gli
oggetti dimessi a strumenti
espressivi. La sua è una poesia che
non sublima, ma decanta, che scava
nelle fessure dell’esperienza
quotidiana per cogliere una verità
irriducibile, antiretorica, che
esclude ogni ideale consolatorio. Se
The Waste Land di Eliot ha come
fondale un paesaggio desertico,
disgregato, popolato da simboli
apocalittici, Ossi di seppia
costruisce una personale terra
desolata, in cui il deserto –
biblico e interiore – diventa scena
primaria della disillusione.
La formazione musicale di Montale –
gli studi da baritono, la passione
per Debussy – lascia un’impronta
profonda nella sua scrittura. Non
solo per le sonorità, ma per la
struttura stessa del discorso
poetico, che si fa dissonante,
antiformale, volutamente scabra.
Come Debussy frantuma l’armonia
tonale, così Montale spezza la
sintassi della lirica tradizionale,
cercando una nuova armonia fatta di
stridori, di pause, di immagini
condensate e suggestive. In questa
tensione tra suono e senso si radica
la sua musica sognata, come recita
il titolo di una poesia della
raccolta, ispirata direttamente alle
suggestioni del compositore
francese.
In parallelo, la lezione filosofica
(Nietzsche, ma anche il Leopardi più
malinconico e metafisico) lo conduce
a una concezione della poesia come
ricerca dell’essenziale, come scavo
nella contraddizione tra essere e
significato. Il cuore di Ossi di
seppia è la negazione, la
consapevolezza che la verità è forse
solo intravista, filtrata attraverso
simboli opachi, increspata da un
dolore mai redento.
Uno degli aspetti più sorprendenti
della poesia di Montale – ed è uno
dei motivi della sua permanenza – è
la capacità di farsi formula. Alcuni
versi degli Ossi sono ormai entrati
nell’uso quotidiano, anche quando
non se ne conosce più l’origine. Il
male di vivere, ciò che non siamo,
la razza di chi rimane a terra, lo
scabro e l’essenziale sono
espressioni che vivono di vita
propria, quasi fossero proverbi o
motti filosofici. È questa una delle
forme più alte di classicità: quando
la poesia si fa lingua comune,
quando trasmigra dal libro al
discorso quotidiano senza perdere la
propria densità semantica.
Non a caso Gianfranco Contini – il
più autorevole dei primi lettori
montaliani – parlava dei versi di
Montale come di apoftegmi, sentenze
folgoranti pronte a sedimentarsi nel
lessico comune. Ma questa
immediatezza è il frutto di un
lavorio sapiente, di una costruzione
poetica finissima che lavora spesso
con i materiali più ordinari del
linguaggio, con parole quotidiane
che vengono disposte in
configurazioni nuove, stranianti,
capaci di generare senso.
Cento anni dopo la sua comparsa,
Ossi di seppia resta un’opera
fondativa, non solo della poesia
italiana moderna, ma anche di un
certo modo di concepire il gesto
poetico: come atto di resistenza
alla banalità, come tentativo di
salvare, nel linguaggio, ciò che
resta dell’esperienza umana.
Montale cerca la maglia rotta nella
rete, uno spiraglio attraverso cui
intravedere l’oltre, l’altrove, la
verità che sfugge. È un’intuizione
pre-ermetica ma non oscurantista,
moderna ma non astratta, che
continua ad affascinare i lettori e
a sfidare gli interpreti.
E se da un lato il rischio è quello
della monumentalizzazione – di un
Montale scolastico, scolpito in
formule ripetute senza più
interrogazione – dall’altro è
proprio la sua “resistenza
semantica” che continua a rendere
vivo questo libro. Ogni generazione
lo riapre, lo rilegge, lo ritaglia
secondo le proprie urgenze. E ogni
volta Ossi di seppia sa
restituire, con voce sempre diversa,
quel paesaggio interiore che è anche
il nostro.
Come scrisse lo stesso Montale, “La
poesia non si spiega, si ascolta”. E
oggi più che mai, a un secolo di
distanza, abbiamo ancora bisogno di
ascoltarla.