[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 210 / GIUGNO 2025 (CCXLI)


arte

Eugenio Montale e i 100 ANNI di Ossi di seppia

tra classico e resistenza
di Riccardo Renzi

 

Montale torna al centro del dibattito culturale e accademico italiano, non solo per la ricorrenza simbolica, ma per l’effettiva attualità che ancora emana da un testo fondativo della poesia novecentesca.

Era il 1925 quando, a Torino, il giovane Montale pubblicava con l’editore Piero Gobetti questa sua prima silloge poetica, che avrebbe segnato in profondità non soltanto la propria parabola artistica, ma quella di intere generazioni di poeti a venire.

L’opera, riveduta e ampliata nel 1928, si sarebbe presto imposta come uno dei capisaldi della poesia italiana del secolo, tanto da entrare a pieno titolo in quello che potremmo definire il “canone resistente”: una raccolta di voci poetiche capaci di sopravvivere alle mode, alle scuole e persino al rischio – oggi ben presente – della museificazione.

La commemorazione di un’opera così centrale comporta, inevitabilmente, una duplice operazione. Da un lato è doveroso celebrarla, collocandola nel suo contesto storico e culturale, riconoscendone l’influenza e rileggendone i versi alla luce delle acquisizioni critiche più recenti. Dall’altro lato, si tratta di proteggerla – con pari zelo – dalla minaccia dell’abuso interpretativo, della sacralizzazione sterile e dell’iper-testualizzazione scolastica che spesso travolge i “classici”.

Montale stesso, con sottile ironia, aveva già intuito questo rischio quando affermava: «I critici, da me depistati…», sottolineando il piacere quasi ludico che traeva nel disseminare le sue poesie di ambiguità, sottintesi e silenzi.

Ossi di seppia nasce tra il 1916 e il 1925, in un periodo denso di trasformazioni, sia personali che storiche. Montale è autodidatta: si è diplomato in ragioneria, coltiva la passione per la letteratura e per la musica, e frequenta circoli culturali animati da un fermento critico.

Appena ventottenne, pubblica questa raccolta che si presenta da subito come un controcanto alla tradizione dannunziana, un rovesciamento dell’eloquenza solenne in una lingua spesso aspra, metallica, frammentata, simile per certi versi a una “controeloquenza”, come lui stesso la definirà più tardi.

Nel clima ideologico del 1925, con la pubblicazione del Manifesto degli intellettuali fascisti da parte di Giovanni Gentile, Montale compie una scelta chiara: firma il contro-manifesto di Croce, assumendo una posizione di netta ma sobria opposizione al fascismo. Non militanza attiva, ma resistenza morale, in linea con la concezione crociana della letteratura come sfera autonoma, distante dai compromessi della politica. In Ossi di seppia, questa resistenza si traduce in una laicità radicale, in un’anti-ideologia che si esprime nell’amara sentenza di Non chiederci la parola, manifesto dell’impossibilità di una parola “risolutiva”: «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Uno degli aspetti centrali della raccolta è la costruzione del paesaggio, che non è mai semplicemente descrittivo o naturalistico, ma simbolico e interiore. Il paesaggio ligure – aspro, pietroso, essenziale – diventa figura di una condizione umana disillusa, attraversata da un “male di vivere” che non trova redenzione né in un orizzonte escatologico, né in una funzione palingenetica della poesia. L’aridità fisica e simbolica di Meriggiare pallido e assorto, la sua muraglia irta di cocci aguzzi di bottiglia, evoca una realtà invalicabile, un confine tra l’umano e il mondo, tra desiderio e significato, che è anche cifra dell’incomunicabilità e della disarmonia.

Montale, come Morandi nella pittura o Eliot nella poesia anglosassone (con cui tante affinità sono state giustamente rilevate), elegge gli oggetti dimessi a strumenti espressivi. La sua è una poesia che non sublima, ma decanta, che scava nelle fessure dell’esperienza quotidiana per cogliere una verità irriducibile, antiretorica, che esclude ogni ideale consolatorio. Se The Waste Land di Eliot ha come fondale un paesaggio desertico, disgregato, popolato da simboli apocalittici, Ossi di seppia costruisce una personale terra desolata, in cui il deserto – biblico e interiore – diventa scena primaria della disillusione.

La formazione musicale di Montale – gli studi da baritono, la passione per Debussy – lascia un’impronta profonda nella sua scrittura. Non solo per le sonorità, ma per la struttura stessa del discorso poetico, che si fa dissonante, antiformale, volutamente scabra. Come Debussy frantuma l’armonia tonale, così Montale spezza la sintassi della lirica tradizionale, cercando una nuova armonia fatta di stridori, di pause, di immagini condensate e suggestive. In questa tensione tra suono e senso si radica la sua musica sognata, come recita il titolo di una poesia della raccolta, ispirata direttamente alle suggestioni del compositore francese.

In parallelo, la lezione filosofica (Nietzsche, ma anche il Leopardi più malinconico e metafisico) lo conduce a una concezione della poesia come ricerca dell’essenziale, come scavo nella contraddizione tra essere e significato. Il cuore di Ossi di seppia è la negazione, la consapevolezza che la verità è forse solo intravista, filtrata attraverso simboli opachi, increspata da un dolore mai redento.

Uno degli aspetti più sorprendenti della poesia di Montale – ed è uno dei motivi della sua permanenza – è la capacità di farsi formula. Alcuni versi degli Ossi sono ormai entrati nell’uso quotidiano, anche quando non se ne conosce più l’origine. Il male di vivere, ciò che non siamo, la razza di chi rimane a terra, lo scabro e l’essenziale sono espressioni che vivono di vita propria, quasi fossero proverbi o motti filosofici. È questa una delle forme più alte di classicità: quando la poesia si fa lingua comune, quando trasmigra dal libro al discorso quotidiano senza perdere la propria densità semantica.

Non a caso Gianfranco Contini – il più autorevole dei primi lettori montaliani – parlava dei versi di Montale come di apoftegmi, sentenze folgoranti pronte a sedimentarsi nel lessico comune. Ma questa immediatezza è il frutto di un lavorio sapiente, di una costruzione poetica finissima che lavora spesso con i materiali più ordinari del linguaggio, con parole quotidiane che vengono disposte in configurazioni nuove, stranianti, capaci di generare senso.

Cento anni dopo la sua comparsa, Ossi di seppia resta un’opera fondativa, non solo della poesia italiana moderna, ma anche di un certo modo di concepire il gesto poetico: come atto di resistenza alla banalità, come tentativo di salvare, nel linguaggio, ciò che resta dell’esperienza umana.

Montale cerca la maglia rotta nella rete, uno spiraglio attraverso cui intravedere l’oltre, l’altrove, la verità che sfugge. È un’intuizione pre-ermetica ma non oscurantista, moderna ma non astratta, che continua ad affascinare i lettori e a sfidare gli interpreti.

E se da un lato il rischio è quello della monumentalizzazione – di un Montale scolastico, scolpito in formule ripetute senza più interrogazione – dall’altro è proprio la sua “resistenza semantica” che continua a rendere vivo questo libro. Ogni generazione lo riapre, lo rilegge, lo ritaglia secondo le proprie urgenze. E ogni volta Ossi di seppia sa restituire, con voce sempre diversa, quel paesaggio interiore che è anche il nostro.

Come scrisse lo stesso Montale, “La poesia non si spiega, si ascolta”. E oggi più che mai, a un secolo di distanza, abbiamo ancora bisogno di ascoltarla.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]