[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 212 / AGOSTO 2025 (CCXLIII)


attualità

Memory
Un film sui ricordi d’infanzia in Cecenia come ossimori
di Leila Tavi

 

Il film Memory, diretto da Vladlena Sandu, è stato presentato alla ventiduesima edizione delle Giornate degli Autori nell’ambito della ottantaduesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

 

L’opera, un lungo monologo della protagonista, è al tempo stesso un atto di memoria collettiva e di testimonianza storica capace di unire il personale al politico e d’iscrivere il trauma individuale e familiare dentro la cornice più ampia delle guerre in Cecenia e del collasso dei regimi comunisti.

La regista, nata in Crimea nel 1982, è figlia di padre ucraino e madre cecena. Si trasferisce a Grozny all’età di sei anni e ha vissuto in prima persona la violenza che ha segnato la dissoluzione dell’Unione Sovietica e l’inizio delle guerre cecene. Il suo nome, Vladlena, da Vladimir Lenin, rappresenta già un marchio identitario imposto dall’ideologia che, tuttavia, la bambina non riconosce e contro cui si ribella in silenzio. La sua storia personale diventa così materia cinematografica filtrata attraverso una fotografia poetica affidata a Liza Popova, che restituisce i ricordi come immagini liriche e sfocate tra il sogno e l’incubo.

 

Il viaggio in treno verso la Cecenia all’età di sei anni diventa una metafora visiva. I colori vivi del paesaggio, rosso, violetto, verde, giallo intenso svaniscono pian piano lasciando il posto ai mostri che Vlada disegna, all’oscurità, alla casa dei nonni che sembra una rovina, alla figura imponente del severo nonno.

 

La scelta di regia, tra l’onirico e il ricordo, comunica allo spettatore con sensibilità e poesia il cambiamento così importante nella sua infanzia, il trasferimento dalla Crimea, da Feodosia sul mare, dove la vediamo piccola e felice giocare con le formine sulla spiaggia, con un padre dj e una madre attrice, alla vita in Cecenia con un nonno Mihail Aleksandrovič, che ha soltanto quattro dita a una mano e tre all’altra, per colpa della Seconda Guerra Mondiale. L’anziano sembra non avere un cuore, ma nel corso del film scopriremo aver avuto un’infanzia difficile e un trauma che lo ha segnato per la vita. Una nonna che le ricorda che non bisogna avere paura dei morti ma soltanto dei vivi, una famiglia che da quattro generazioni attraversa il tempo di un’Unione Sovietica prima e del primo periodo post-comunista, dove il terrore il dolore e la sofferenza sono a contrasto con gli ameni paesaggi di una terra che non trova pace. Soltanto la neve copre gli orrori della guerra, i corpi dilaniati, attutisce il rumore assordante della guerra, una guerra che la protagonista Vladlena rivive nel ricordo sfocato e traslato attraverso gli occhi di una bambina e di un’adolescente poi. Nel suo ricordo gli adulti sono puzzle, vecchie foto, ritagli di volti su Barbie e Ken martoriati, circondati da Big Jim vestiti da guerriglieri, con piccoli animali e Čeburaška che assistono all’orrore, come si assiste al teatrino delle marionette.

 

Il film si apre e si chiude con l’immagine di King Kong, la creatura amata dalla protagonista, da lei pianto, quando il mostro è ucciso alla fine del vecchio film in bianco e nero. Vlada salta la scuola un giorno per andare al cinema quando danno King Kong e il nonno la punisce, non può incontrarsi con gli amici per un anno intero. Deve aiutare il nonno a uccidere e a scuoiare le nutrie che vivono vicino a casa. Quando, ormai ragazza, indossa il costume del gorilla sembra proteggersi dal mondo, dal proprio ricordo che la tormenterà per sempre, ma alla fine toglie la maschera, rivelando il proprio volto e con esso la propria identità fragile e ferita.

 

La violenza attraversa la sua vita quotidiana in Cecenia già prima della guerra. A scuola la maestra Lidija Aleksandrova utilizza un sussidiario sovietico e insegna che bisogna imparare ad amare le tre figure fondanti dell’Unione Sovietica: la madre, la madrepatria e Lenin. La guida suprema è un modello a cui bisogna assomigliare, ma Vladlena non vuole assomigliare al fondatore della Patria, perché è calvo. La maestra la colpisce sulle mani con la bacchetta quando sbaglia, la mette in punizione davanti alla lavagna, schernita dai suoi compagni. A casa il nonno la picchia con la cinta e quando è ubriaco le corre dietro con l’accetta, come aveva fatto con sua madre e con sua nonna.

 

L’infanzia della protagonista è segnata anche da riti collettivi assurdi, che diventano specchio di un’epoca, come quello del guaritore Alan Chumak, che negli anni Ottanta riempiva le case sovietiche di rituali: davanti al televisore, i nonni di Vlada e i vicini di casa dispongono decine di vasi di vetro riempiti d’acqua due volte al giorno, la mattina e la sera, convinti che la sua energia avrebbe purificato sia loro che l’acqua. Un’acqua che se bevuta, tutti in paese credevano che avrebbe allontanato i malanni. Tutti tranne Vlada., la bambina non ci crede, non chiude gli occhi come i suoi nonni. Dopo il crollo del comunismo, il programma non fu più messo in onda, rimase soltanto Il Lago dei Cigni, trasmesso ininterrottamente nei giorni del golpe del 1991. “Yeltsin è ora il presidente, un ubriacone”, commenta in modo amaro il nonno. Vlada compie nove anni in quel tempo sospeso, quando i nonni non ricevono più la pensione per quattro mesi e la madre deve vendere le sue belle scarpe rosse con il tacco in cambio di un pezzo di formaggio. In guerra venderà anche i gioielli e si taglierà i suoi soffici capelli per alimentare la lampada a olio per scaldare Vlada. In quella Cecenia martoriata, dove il nonno della ragazza è spedito dopo aver servito con onore la Patria durante la Seconda Guerra Mondiale, soltanto Vlada, con i suoi occhi scuri, può andare a fare la fila per un pezzo di pane o un osso di carne, senza essere riconosciuta come figlia degli usurpatori.

 

Questo mondo di violenza familiare e collettiva trova riscontro nella ricerca accademica che ha studiato le conseguenze delle guerre cecene sui minori. I lavori di psicologia clinica e di medicina umanitaria hanno documentato alti livelli di disturbo da stress post traumatico tra i bambini esposti ai bombardamenti, alla perdita di parenti e alla violenza domestica i traumi cumulativi portano a incubi ricorrenti, ansia cronica, depressione e difficoltà cognitive, mentre la trasmissione transgenerazionale della violenza fa sì che ciò che i nonni e i genitori hanno subito si ripeta nelle nuove generazioni. La strategia di coping più comune nei bambini è il rifugio nel gioco, attraverso cui rielaborano gli orrori della guerra. King Kong diventa la figura protettiva e immaginaria che consente a Vladlena di sopravvivere.

 

La memoria visiva del film con Barbie e Ken martoriati, Čeburaška e gli altri pupazzetti spettatori inermi, i puzzle di volti e le vecchie fotografie in bianco e nero, funziona come una drammatizzazione del trauma infantile e come una rappresentazione del meccanismo di frammentazione con cui i bambini percepiscono gli adulti durante e dopo la violenza.

Uno dei momenti più laceranti del racconto è l’incontro con il padre, dopo otto anni di assenza, lo ritrova in occasione di un campo estivo per ragazzi in zone di conflitto, nella sua città natale. L’uomo, drogato e l’ombra di se stesso, senza denti, è ricercato dalla polizia perché coltivava un campo di papaveri clandestino. In quell’incontro fallito c’è la disillusione definitiva la conferma che non c’è ritorno possibile all’infanzia felice e che l’autorità paterna non può costituire rifugio né modello. Ignaro degli orrori della guerra e ossessionato dal consumo di oppio, la rimanda indietro verso il suo destino di vittima della guerra.

 

Memory diventa così un’opera che unisce la poesia visiva al documento storico e antropologico. Una testimonianza che racconta come la fine dell’Unione Sovietica, la transizione economica e politica e le guerre cecene siano stati trasformati dalla regista in ossimori poetici, dove il dolore e la bellezza coesistono.

 

La neve che copre i cadaveri e attutisce gli spari, la maschera di King Kong che nasconde e protegge, ma alla fine cade, l’acqua davanti agli schermi televisivi che promette guarigione e invece lascia spazio alla fame e all’umiliazione quotidiana, le scarpe rosse vendute per un pezzo di formaggio, la luce che svanisce nel paesaggio dalla Crimea alla Cecenia.

 

La potenza del film sta proprio nell’aver dato forma a questa memoria sfocata e infantile e nel renderla visibile con la forza del cinema contemporaneo, in cui Vladlena Sandu trasforma il suo trauma personale in un atto universale di denuncia dell’orrore della guerra tremendamente attuale.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]