Memory
Un film sui ricordi d’infanzia in
Cecenia come ossimori
di Leila
Tavi
Il film Memory, diretto da
Vladlena Sandu, è stato presentato
alla ventiduesima edizione delle
Giornate degli Autori
nell’ambito della ottantaduesima
Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica di Venezia.
L’opera, un lungo monologo della
protagonista, è al tempo stesso un
atto di memoria collettiva e di
testimonianza storica capace di
unire il personale al politico e
d’iscrivere il trauma individuale e
familiare dentro la cornice più
ampia delle guerre in Cecenia e del
collasso dei regimi comunisti.
La regista, nata in Crimea nel 1982,
è figlia di padre ucraino e madre
cecena. Si trasferisce a Grozny
all’età di sei anni e ha vissuto in
prima persona la violenza che ha
segnato la dissoluzione dell’Unione
Sovietica e l’inizio delle guerre
cecene. Il suo nome, Vladlena, da
Vladimir Lenin, rappresenta già un
marchio identitario imposto
dall’ideologia che, tuttavia, la
bambina non riconosce e contro cui
si ribella in silenzio. La sua
storia personale diventa così
materia cinematografica filtrata
attraverso una fotografia poetica
affidata a Liza Popova, che
restituisce i ricordi come immagini
liriche e sfocate tra il sogno e
l’incubo.
Il viaggio in treno verso la Cecenia
all’età di sei anni diventa una
metafora visiva. I colori vivi del
paesaggio, rosso, violetto, verde,
giallo intenso svaniscono pian piano
lasciando il posto ai mostri che
Vlada disegna, all’oscurità, alla
casa dei nonni che sembra una
rovina, alla figura imponente del
severo nonno.
La scelta di regia, tra l’onirico e
il ricordo, comunica allo spettatore
con sensibilità e poesia il
cambiamento così importante nella
sua infanzia, il trasferimento dalla
Crimea, da Feodosia sul mare, dove
la vediamo piccola e felice giocare
con le formine sulla spiaggia, con
un padre dj e una madre attrice,
alla vita in Cecenia con un nonno
Mihail Aleksandrovič, che ha
soltanto quattro dita a una mano e
tre all’altra, per colpa della
Seconda Guerra Mondiale. L’anziano
sembra non avere un cuore, ma nel
corso del film scopriremo aver avuto
un’infanzia difficile e un trauma
che lo ha segnato per la vita. Una
nonna che le ricorda che non bisogna
avere paura dei morti ma soltanto
dei vivi, una famiglia che da
quattro generazioni attraversa il
tempo di un’Unione Sovietica prima e
del primo periodo post-comunista,
dove il terrore il dolore e la
sofferenza sono a contrasto con gli
ameni paesaggi di una terra che non
trova pace. Soltanto la neve copre
gli orrori della guerra, i corpi
dilaniati, attutisce il rumore
assordante della guerra, una guerra
che la protagonista Vladlena rivive
nel ricordo sfocato e traslato
attraverso gli occhi di una bambina
e di un’adolescente poi. Nel suo
ricordo gli adulti sono puzzle,
vecchie foto, ritagli di volti su
Barbie e Ken martoriati, circondati
da Big Jim vestiti da guerriglieri,
con piccoli animali e Čeburaška che
assistono all’orrore, come si
assiste al teatrino delle
marionette.
Il film si apre e si chiude con
l’immagine di King Kong, la creatura
amata dalla protagonista, da lei
pianto, quando il mostro è ucciso
alla fine del vecchio film in bianco
e nero. Vlada salta la scuola un
giorno per andare al cinema quando
danno King Kong e il nonno la
punisce, non può incontrarsi con gli
amici per un anno intero. Deve
aiutare il nonno a uccidere e a
scuoiare le nutrie che vivono vicino
a casa. Quando, ormai ragazza,
indossa il costume del gorilla
sembra proteggersi dal mondo, dal
proprio ricordo che la tormenterà
per sempre, ma alla fine toglie la
maschera, rivelando il proprio volto
e con esso la propria identità
fragile e ferita.
La violenza attraversa la sua vita
quotidiana in Cecenia già prima
della guerra. A scuola la maestra
Lidija Aleksandrova utilizza un
sussidiario sovietico e insegna che
bisogna imparare ad amare le tre
figure fondanti dell’Unione
Sovietica: la madre, la madrepatria
e Lenin. La guida suprema è un
modello a cui bisogna assomigliare,
ma Vladlena non vuole assomigliare
al fondatore della Patria, perché è
calvo. La maestra la colpisce sulle
mani con la bacchetta quando
sbaglia, la mette in punizione
davanti alla lavagna, schernita dai
suoi compagni. A casa il nonno la
picchia con la cinta e quando è
ubriaco le corre dietro con
l’accetta, come aveva fatto con sua
madre e con sua nonna.
L’infanzia della protagonista è
segnata anche da riti collettivi
assurdi, che diventano specchio di
un’epoca, come quello del guaritore
Alan Chumak, che negli anni Ottanta
riempiva le case sovietiche di
rituali: davanti al televisore, i
nonni di Vlada e i vicini di casa
dispongono decine di vasi di vetro
riempiti d’acqua due volte al
giorno, la mattina e la sera,
convinti che la sua energia avrebbe
purificato sia loro che l’acqua.
Un’acqua che se bevuta, tutti in
paese credevano che avrebbe
allontanato i malanni. Tutti tranne
Vlada., la bambina non ci crede, non
chiude gli occhi come i suoi nonni.
Dopo il crollo del comunismo, il
programma non fu più messo in onda,
rimase soltanto Il Lago dei Cigni,
trasmesso ininterrottamente nei
giorni del golpe del 1991. “Yeltsin
è ora il presidente, un ubriacone”,
commenta in modo amaro il nonno.
Vlada compie nove anni in quel tempo
sospeso, quando i nonni non ricevono
più la pensione per quattro mesi e
la madre deve vendere le sue belle
scarpe rosse con il tacco in cambio
di un pezzo di formaggio. In guerra
venderà anche i gioielli e si
taglierà i suoi soffici capelli per
alimentare la lampada a olio per
scaldare Vlada. In quella Cecenia
martoriata, dove il nonno della
ragazza è spedito dopo aver servito
con onore la Patria durante la
Seconda Guerra Mondiale, soltanto
Vlada, con i suoi occhi scuri, può
andare a fare la fila per un pezzo
di pane o un osso di carne, senza
essere riconosciuta come figlia
degli usurpatori.
Questo mondo di violenza familiare e
collettiva trova riscontro nella
ricerca accademica che ha studiato
le conseguenze delle guerre cecene
sui minori. I lavori di psicologia
clinica e di medicina umanitaria
hanno documentato alti livelli di
disturbo da stress post traumatico
tra i bambini esposti ai
bombardamenti, alla perdita di
parenti e alla violenza domestica i
traumi cumulativi portano a incubi
ricorrenti, ansia cronica,
depressione e difficoltà cognitive,
mentre la trasmissione
transgenerazionale della violenza fa
sì che ciò che i nonni e i genitori
hanno subito si ripeta nelle nuove
generazioni. La strategia di coping
più comune nei bambini è il rifugio
nel gioco, attraverso cui
rielaborano gli orrori della guerra.
King Kong diventa la figura
protettiva e immaginaria che
consente a Vladlena di sopravvivere.
La memoria visiva del film con
Barbie e Ken martoriati, Čeburaška e
gli altri pupazzetti spettatori
inermi, i puzzle di volti e le
vecchie fotografie in bianco e nero,
funziona come una drammatizzazione
del trauma infantile e come una
rappresentazione del meccanismo di
frammentazione con cui i bambini
percepiscono gli adulti durante e
dopo la violenza.
Uno dei momenti più laceranti del
racconto è l’incontro con il padre,
dopo otto anni di assenza, lo
ritrova in occasione di un campo
estivo per ragazzi in zone di
conflitto, nella sua città natale.
L’uomo, drogato e l’ombra di se
stesso, senza denti, è ricercato
dalla polizia perché coltivava un
campo di papaveri clandestino. In
quell’incontro fallito c’è la
disillusione definitiva la conferma
che non c’è ritorno possibile
all’infanzia felice e che l’autorità
paterna non può costituire rifugio
né modello. Ignaro degli orrori
della guerra e ossessionato dal
consumo di oppio, la rimanda
indietro verso il suo destino di
vittima della guerra.
Memory
diventa così un’opera che unisce la
poesia visiva al documento storico e
antropologico. Una testimonianza che
racconta come la fine dell’Unione
Sovietica, la transizione economica
e politica e le guerre cecene siano
stati trasformati dalla regista in
ossimori poetici, dove il dolore e
la bellezza coesistono.
La neve che copre i cadaveri e
attutisce gli spari, la maschera di
King Kong che nasconde e protegge,
ma alla fine cade, l’acqua davanti
agli schermi televisivi che promette
guarigione e invece lascia spazio
alla fame e all’umiliazione
quotidiana, le scarpe rosse vendute
per un pezzo di formaggio, la luce
che svanisce nel paesaggio dalla
Crimea alla Cecenia.
La potenza del film sta proprio
nell’aver dato forma a questa
memoria sfocata e infantile e nel
renderla visibile con la forza del
cinema contemporaneo, in cui
Vladlena Sandu trasforma il suo
trauma personale in un atto
universale di denuncia dell’orrore
della guerra tremendamente attuale.