la cultura medievale e l’importanza
della vista
IL mondo attraverso i sensi
di Raffaella
Di Vincenzo
Nel Medioevo la conoscenza del mondo
inizia dai sensi e culmina,
attraverso essi, nella
contemplazione di ciò che è
intellegibile e quindi divino. La
vista è ritenuta il più nobile tra
essi perché capace di percepire in
pieno la bellezza del creato e delle
creature edè intesa come un
“incontro fisico” tra l’occhio e
l’oggetto che viene guardato. In
quanto contatto, dunque, la vista
coinvolge in modo sinestetico tutti
gli altri sensi ed è un’azione che
richiede di disciplinare lo spirito.
L’intenzione dello sguardo entra in
contatto con l’oggetto guardato: è
“una scelta sensibile fatta di
azioni e relazioni”.
L’immagine della teologia cristiana
è, pertanto, un’«immagine aperta»,
cioè un’immagine che rappresenta
l’unione di ciò che è visibile e ciò
che non è visibile in quanto
rappresentazione dell’incarnazione
di Dio. È chiaro dunque che, secondo
questa interpretazione, ciò che il
vedere restituisce in replica, così
come accadeva nel mondo classico,
non può essere sufficiente: la
vista, ora, presuppone un andare
oltre la carne, verso la sacralità
della rivelazione.
Nella filosofia scolastica, la vista
era considerata un mezzo per
comprendere realtà eterne,
attraverso la grazia di Dio.
Riguardo questo concetto esistevano
due linee di pensiero: quella di
Tommaso d’Aquino e quella di
Agostino d’Ippona.
Tommaso d’Aquino nella Summa
Theologiae descrive la vista come il
senso più nobile perché è capace di
apprendere di più, di sublimare ciò
che è materiale ed essere strumento
di conoscenza. La vista in senso
fisico ha una funzione preparatoria,
permette cioè alla mente di cogliere
la forma delle cose che però devono
essere interpretate (conosciute
nella loro essenza) attraverso
l’intelletto. Riprendendo un passo
della lettera ai Corinzi, Tommaso
definisce la beatitudine nel «vedere
Dio faccia a faccia»; l’intelletto,
elevato per mezzo dell’azione della
grazia, vede l’essenza di Dio.
D’altro canto, la luce, essenziale
per la vista, è considerata da San
Tommaso soltanto come una
caratteristica fisica peculiare di
tutti i corpi.
La tradizione agostiniana, invece,
considera la luce come sostanza vera
e propria e l’occhio, inteso come
organo fisiologico e, in quanto tale
legato alla vista materiale, può
essere soggetto a illusioni perché
in grado di cogliere soltanto
l’aspetto esteriore della realtà,
senza penetrarne l’essenza.
Per Agostino, quindi, vi sarebbero
tre livelli di sguardo (o visione):
la visio corporalis, o percezione
sensibile, la visio spiritualis,
ossia la capacità di cogliere i
simboli e le allegorie delle cose
sensibili e la visio intellectualis
che invece rappresenta la forma più
alta della conoscenza perché
permette all’essere umano di avere
una relazione con Dio attraverso la
ragione.
Il primo, dunque, lo chiamiamo
“corporale”, poiché è percepito
mediante il corpo e si manifesta ai
sensi del corpo; il secondo
“spirituale”: tutto ciò che non è
corpo e tuttavia è qualcosa,
infatti, senz’altro giustamente è
chiamato “spirito”, e di certo
l’immagine di un corpo assente,
benché sia simile a un corpo, non è
un corpo, né è lo sguardo medesimo
con cui è scorta; il terzo, infine,
“intellettuale”, da “intelletto”,
poiché, per la novità stessa del
vocabolo, sarebbe del tutto
irragionevole che lo dicessimo
“mentale”, da “mente”.
Nella teologia agostiniana, la visio
intellectualis costituisce una sorta
di illuminazione dello spirito che
passa attraverso la percezione
sensibile: gli occhi sono in grado
di cogliere la bellezza, ma non sono
in grado di vedere la verità che si
cela dietro questa bellezza, né il
senso ultimo di essa. Per Agostino,
la mente, anche nelle situazioni in
cui si distacca dalle cose
sensibili, non è mai inattiva, ma
partecipa di un altro genere di
visione di cui è capace, diverso da
quello corporale e superiore a esso,
dal momento cheDio può essere colto
intellettualmente.
Il cosiddetto excessus mentis(che
può essere tradotto con “estasi”),
concetto collegato alla visio
intellectualis,non conduce l’uomo a
un distacco dal pensiero, ma
solamente a un distacco da ciò a cui
il pensiero è solitamente abituato e
cioè dalla sua relazione abituale
con il corpo e con tutto ciò che lo
circonda.
Nella descrizione agostiniana,
quindi, i corpi sono visti con gli
occhi o percepiti con qualche altro
organo di senso corporeo e vederli
equivale a sentirli. Le cose
incorporee come ad esempio l’amore,
d’altro canto, possono essere
intese, in senso stretto, dal punto
di vista dell’intelletto e le
immagini hanno uno statuto
intermedio tra il corporeo e
l’incorporeo essendo ontologicamente
superiori agli stessi corpi.
Tuttavia, la visione spirituale si
produce attraverso quella corporale:
non vi può essere, infatti, visione
spirituale e, conseguentemente
intellettuale, senza la sublimazione
della vista corporale.
San Bonaventura e Bartolommeo da
Bologna, che seguivano la visione,
agostiniana della luce, ritenevano
che essa avesse la funzione di
spiegare Dio in quanto sua metafora
e/o analogia: le immagini luminose,
infatti, erano spesso utilizzate
nella letteratura e nell’arte del
tempo per rappresentare sia
l’essenza che l’azione di Dio.
Questo dibattito
teologico-filosofico portò, inoltre,
anche alla nascita degli studi sulla
cosiddetta perspectiva naturalis,
ovvero l'analisi del processo visivo
e dei suoi meccanismi, in relazione
alla funzione della luce,
all’interno della comprensione
empirica del mondo. La perspectiva
aveva il compito di indagare le
cause della luce e i processi che
permettevano la percezione e
l'esistenza degli oggetti.
Roberto Grossatesta, uno dei
rappresentati di questo movimento,
considerava la luce, tomisticamente,
come un principio universale comune
a tutti gli elementi naturali,
distinguendo questa indagine da
quella sulla natura delle cose,
affidata ai fisici. Gli studi
cominciarono quindi a concentrarsi
sulla struttura stessa dei corpi
luminosi e, quest’ultima, sembrava
confermare l’ipotesi che la luce
fosse più pura e perfetta man mano
che si avvicinava alla sua sorgente.
L’innovazione principale del
Grossatesta fu quella di utilizzare
i principi fisici dell’ottica
geometrica per spiegare concetti di
natura filosofica. La teologia che,
d’altro canto, cercava di
identificare Dio nella fonte
primigenia della luce contribuendo
ad accentuare la separazione, di
tradizione platonico-agostiniana,
tra il mondo sensibile e quello
trascendente, utilizzava il pensiero
agostiniano per esacerbare la
divisione tra mondo sensibile e
mondo intellegibile.
Ruggero Bacone, uno dei teorizzatori
di questa divisione, pur attribuendo
importanza alla vista come mezzo di
conoscenza sperimentale, ne
evidenziò, agostinianamente, i
limiti: essa permetteva solo di
cogliere l’apparenza del mondo
materiale. Secondo la sua
interpretazione, infatti, l’uomo
possiederebbe tre tipi di visione:
una perfetta, che sarà raggiunta
nella gloria dopo la resurrezione;
una seconda, più debole, propria
dell’anima, separata dal corpo, fino
alla resurrezione; e una terza, la
meno chiara, che è tipica
dell’esperienza terrena e si
manifesta attraverso la riflessione.
La svalutazione della conoscenza
sensibile costituiva un ostacolo per
i perspectivi che cercavano di
dimostrare il rigore scientifico di
questa forma di sapere. Le
riflessioni sulla prospettiva
affrontavano, in modo più o meno
consapevole, il problema di come,
spiegando le caratteristiche e le
condizioni della visione
intellettuale sulla base di quelle
della visione sensibile, si potesse
riconoscere valore conoscitivo non
solo alla percezione del
sovrasensibile, ma anche alla
visione del mondo naturale. Per
questo motivo, la luce iniziò a
essere studiata sotto il profilo
della conoscenza e dell’ontologia,
nel tentativo di attenuare
l’influenza del pensiero
neoplatonico-agostiniano, che aveva
contribuito a ridimensionare la
realtà materiale.
I perspectivi, infatti, cercavano un
diverso modo di rapportarsi alle
caratteristiche e al significato
della luce: alcuni, ad
esempio,avevano adottato il concetto
di figura, sviluppato da Erich
Auerbach nell’ambito degli studi
biblici. In base a questa
interpretazione, mentre l’analogia
stabilisce un semplice confronto tra
due elementi simili, e la metafora
utilizza un’immagine per
rappresentarne un’altra, la figura
ha una funzione più complessa che
non è legata al simbolismo. Per
Auerbach, infatti, la figura è una
vera e propria realtà storica che ne
definisce e prepara un’altra: in
sostanza, un evento o un personaggio
storico possono essere considerati
figura di qualcosa che si realizzerà
pienamente nel futuro.
Ad esempio, nella tradizione
cristiana, Adamo viene visto come
figura di Cristo: il primo uomo
anticipa il Redentore, stabilendo un
legame tra il passato e il futuro.
Se questo concetto si applica alla
prospettiva medievale, è chiaro che
le immagini luminose, invece di
essere considerate unicamente un
rimando simbolico del divino,
costituiscono esse stesse una parte
significativa del processo di
conoscenza.
In un sistema figurale, pertanto, il
sensibile acquista una dignità pari
al sovrasensibile, perché ne è una
componente fondamentale; in questo
modo, la conoscenza sensibile non
viene ridotta a una semplice
apparenza, ma assume un valore pieno
e autonomo. In questo modo, il
pensiero figurale si oppone alla
svalutazione del mondo materiale
tipica della tradizione
neoplatonico-agostiniana.
L’esempio letterario che forse può
aiutare a comprendere questa
querelle all’interno del pensiero
filosofico medievale può essere
visto nella Vita Nuova di Dante
Alighieri; quest’opera, infatti,
traduce in poesia sia il percorso
teologico di Tommaso che quello di
Agostino. La vista di Beatrice, fin
dal primo incontro, è un momento che
prelude a una profonda
trasformazione dello spirito.
L’amore che quella “vista” innesta
nel suo animo è un desiderio umano
di innocente bellezza immediatamente
sublimato dalla rivelazione, tant’è
vero che l’emozione provata, alla
vista della fanciulla, conduce Dante
a perdere i sensi: un segno visibile
di una verità invisibile.
La figura di Beatrice nella Vita
Nuova contiene in nuce il ruolo che
la donna avrà nella Commedia come
guida di Dante all’incontro/
“visione” di Dio. La critica, a tal
proposito, fa notare come Beatrice
sia una sorta di “miracolo”: è una
creatura che vive direttamente
dell’essenza di Cristo essendo, come
Cristo, un’incarnazione di
beatitudine in terra.
Alcuni autori sottolineano come il
linguaggio del primo incontro tra
Dante e Beatrice sia mediato dalla
liturgia della natività «Apparuit
iam beatitudo vestra» e come da
questa liturgia nasca nel poeta la
sensazione di lasciarsi salvare;
così come nei pastori fu
immediatamente chiara la divinità
salvifica di Gesù, Dante avverte
nella vista/contemplazione di
Beatrice la sua personale strada
verso la contemplazione di Dio.
Nella Commedia, infatti,questa
vista/contemplazione verrà espressa
attraverso il verbo «Trasumanar»:
«Trasumanar significar per verba non
si poria, però l’essemplo basti a
chi esperienza grazia serba» {Par.,
I, 70-71}.
Per Dante, in sostanza, guardare
Beatrice è come compiere un cammino
di ascesa dell’intelletto verso Dio,
per mezzo di un preciso atto di
volontà e di fede e senza che lo
sguardo della carne, che lo ha
condotto all’amore, sia da
considerarsi meno importante se non,
addirittura, illusorio.
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