[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 210 / GIUGNO 2025 (CCXLI)


medievale

la cultura medievale e l’importanza della vista
IL mondo attraverso i sensi
di Raffaella Di Vincenzo

 

Nel Medioevo la conoscenza del mondo inizia dai sensi e culmina, attraverso essi, nella contemplazione di ciò che è intellegibile e quindi divino. La vista è ritenuta il più nobile tra essi perché capace di percepire in pieno la bellezza del creato e delle creature edè intesa come un “incontro fisico” tra l’occhio e l’oggetto che viene guardato. In quanto contatto, dunque, la vista coinvolge in modo sinestetico tutti gli altri sensi ed è un’azione che richiede di disciplinare lo spirito. L’intenzione dello sguardo entra in contatto con l’oggetto guardato: è “una scelta sensibile fatta di azioni e relazioni”.

L’immagine della teologia cristiana è, pertanto, un’«immagine aperta», cioè un’immagine che rappresenta l’unione di ciò che è visibile e ciò che non è visibile in quanto rappresentazione dell’incarnazione di Dio. È chiaro dunque che, secondo questa interpretazione, ciò che il vedere restituisce in replica, così come accadeva nel mondo classico, non può essere sufficiente: la vista, ora, presuppone un andare oltre la carne, verso la sacralità della rivelazione.

Nella filosofia scolastica, la vista era considerata un mezzo per comprendere realtà eterne, attraverso la grazia di Dio. Riguardo questo concetto esistevano due linee di pensiero: quella di Tommaso d’Aquino e quella di Agostino d’Ippona.

Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae descrive la vista come il senso più nobile perché è capace di apprendere di più, di sublimare ciò che è materiale ed essere strumento di conoscenza. La vista in senso fisico ha una funzione preparatoria, permette cioè alla mente di cogliere la forma delle cose che però devono essere interpretate (conosciute nella loro essenza) attraverso l’intelletto. Riprendendo un passo della lettera ai Corinzi, Tommaso definisce la beatitudine nel «vedere Dio faccia a faccia»; l’intelletto, elevato per mezzo dell’azione della grazia, vede l’essenza di Dio. D’altro canto, la luce, essenziale per la vista, è considerata da San Tommaso soltanto come una caratteristica fisica peculiare di tutti i corpi.

La tradizione agostiniana, invece, considera la luce come sostanza vera e propria e l’occhio, inteso come organo fisiologico e, in quanto tale legato alla vista materiale, può essere soggetto a illusioni perché in grado di cogliere soltanto l’aspetto esteriore della realtà, senza penetrarne l’essenza.

Per Agostino, quindi, vi sarebbero tre livelli di sguardo (o visione): la visio corporalis, o percezione sensibile, la visio spiritualis, ossia la capacità di cogliere i simboli e le allegorie delle cose sensibili e la visio intellectualis che invece rappresenta la forma più alta della conoscenza perché permette all’essere umano di avere una relazione con Dio attraverso la ragione.

Il primo, dunque, lo chiamiamo “corporale”, poiché è percepito mediante il corpo e si manifesta ai sensi del corpo; il secondo “spirituale”: tutto ciò che non è corpo e tuttavia è qualcosa, infatti, senz’altro giustamente è chiamato “spirito”, e di certo l’immagine di un corpo assente, benché sia simile a un corpo, non è un corpo, né è lo sguardo medesimo con cui è scorta; il terzo, infine, “intellettuale”, da “intelletto”, poiché, per la novità stessa del vocabolo, sarebbe del tutto irragionevole che lo dicessimo “mentale”, da “mente”.

Nella teologia agostiniana, la visio intellectualis costituisce una sorta di illuminazione dello spirito che passa attraverso la percezione sensibile: gli occhi sono in grado di cogliere la bellezza, ma non sono in grado di vedere la verità che si cela dietro questa bellezza, né il senso ultimo di essa. Per Agostino, la mente, anche nelle situazioni in cui si distacca dalle cose sensibili, non è mai inattiva, ma partecipa di un altro genere di visione di cui è capace, diverso da quello corporale e superiore a esso, dal momento cheDio può essere colto intellettualmente.

Il cosiddetto excessus mentis(che può essere tradotto con “estasi”), concetto collegato alla visio intellectualis,non conduce l’uomo a un distacco dal pensiero, ma solamente a un distacco da ciò a cui il pensiero è solitamente abituato e cioè dalla sua relazione abituale con il corpo e con tutto ciò che lo circonda.

Nella descrizione agostiniana, quindi, i corpi sono visti con gli occhi o percepiti con qualche altro organo di senso corporeo e vederli equivale a sentirli. Le cose incorporee come ad esempio l’amore, d’altro canto, possono essere intese, in senso stretto, dal punto di vista dell’intelletto e le immagini hanno uno statuto intermedio tra il corporeo e l’incorporeo essendo ontologicamente superiori agli stessi corpi. Tuttavia, la visione spirituale si produce attraverso quella corporale: non vi può essere, infatti, visione spirituale e, conseguentemente intellettuale, senza la sublimazione della vista corporale.

San Bonaventura e Bartolommeo da Bologna, che seguivano la visione, agostiniana della luce, ritenevano che essa avesse la funzione di spiegare Dio in quanto sua metafora e/o analogia: le immagini luminose, infatti, erano spesso utilizzate nella letteratura e nell’arte del tempo per rappresentare sia l’essenza che l’azione di Dio.

Questo dibattito teologico-filosofico portò, inoltre, anche alla nascita degli studi sulla cosiddetta perspectiva naturalis, ovvero l'analisi del processo visivo e dei suoi meccanismi, in relazione alla funzione della luce, all’interno della comprensione empirica del mondo. La perspectiva aveva il compito di indagare le cause della luce e i processi che permettevano la percezione e l'esistenza degli oggetti.

Roberto Grossatesta, uno dei rappresentati di questo movimento, considerava la luce, tomisticamente, come un principio universale comune a tutti gli elementi naturali, distinguendo questa indagine da quella sulla natura delle cose, affidata ai fisici. Gli studi cominciarono quindi a concentrarsi sulla struttura stessa dei corpi luminosi e, quest’ultima, sembrava confermare l’ipotesi che la luce fosse più pura e perfetta man mano che si avvicinava alla sua sorgente.

L’innovazione principale del Grossatesta fu quella di utilizzare i principi fisici dell’ottica geometrica per spiegare concetti di natura filosofica. La teologia che, d’altro canto, cercava di identificare Dio nella fonte primigenia della luce contribuendo ad accentuare la separazione, di tradizione platonico-agostiniana, tra il mondo sensibile e quello trascendente, utilizzava il pensiero agostiniano per esacerbare la divisione tra mondo sensibile e mondo intellegibile.

Ruggero Bacone, uno dei teorizzatori di questa divisione, pur attribuendo importanza alla vista come mezzo di conoscenza sperimentale, ne evidenziò, agostinianamente, i limiti: essa permetteva solo di cogliere l’apparenza del mondo materiale. Secondo la sua interpretazione, infatti, l’uomo possiederebbe tre tipi di visione: una perfetta, che sarà raggiunta nella gloria dopo la resurrezione; una seconda, più debole, propria dell’anima, separata dal corpo, fino alla resurrezione; e una terza, la meno chiara, che è tipica dell’esperienza terrena e si manifesta attraverso la riflessione.

La svalutazione della conoscenza sensibile costituiva un ostacolo per i perspectivi che cercavano di dimostrare il rigore scientifico di questa forma di sapere. Le riflessioni sulla prospettiva affrontavano, in modo più o meno consapevole, il problema di come, spiegando le caratteristiche e le condizioni della visione intellettuale sulla base di quelle della visione sensibile, si potesse riconoscere valore conoscitivo non solo alla percezione del sovrasensibile, ma anche alla visione del mondo naturale. Per questo motivo, la luce iniziò a essere studiata sotto il profilo della conoscenza e dell’ontologia, nel tentativo di attenuare l’influenza del pensiero neoplatonico-agostiniano, che aveva contribuito a ridimensionare la realtà materiale.

I perspectivi, infatti, cercavano un diverso modo di rapportarsi alle caratteristiche e al significato della luce: alcuni, ad esempio,avevano adottato il concetto di figura, sviluppato da Erich Auerbach nell’ambito degli studi biblici. In base a questa interpretazione, mentre l’analogia stabilisce un semplice confronto tra due elementi simili, e la metafora utilizza un’immagine per rappresentarne un’altra, la figura ha una funzione più complessa che non è legata al simbolismo. Per Auerbach, infatti, la figura è una vera e propria realtà storica che ne definisce e prepara un’altra: in sostanza, un evento o un personaggio storico possono essere considerati figura di qualcosa che si realizzerà pienamente nel futuro.

Ad esempio, nella tradizione cristiana, Adamo viene visto come figura di Cristo: il primo uomo anticipa il Redentore, stabilendo un legame tra il passato e il futuro. Se questo concetto si applica alla prospettiva medievale, è chiaro che le immagini luminose, invece di essere considerate unicamente un rimando simbolico del divino, costituiscono esse stesse una parte significativa del processo di conoscenza.

In un sistema figurale, pertanto, il sensibile acquista una dignità pari al sovrasensibile, perché ne è una componente fondamentale; in questo modo, la conoscenza sensibile non viene ridotta a una semplice apparenza, ma assume un valore pieno e autonomo. In questo modo, il pensiero figurale si oppone alla svalutazione del mondo materiale tipica della tradizione neoplatonico-agostiniana.

L’esempio letterario che forse può aiutare a comprendere questa querelle all’interno del pensiero filosofico medievale può essere visto nella Vita Nuova di Dante Alighieri; quest’opera, infatti, traduce in poesia sia il percorso teologico di Tommaso che quello di Agostino. La vista di Beatrice, fin dal primo incontro, è un momento che prelude a una profonda trasformazione dello spirito. L’amore che quella “vista” innesta nel suo animo è un desiderio umano di innocente bellezza immediatamente sublimato dalla rivelazione, tant’è vero che l’emozione provata, alla vista della fanciulla, conduce Dante a perdere i sensi: un segno visibile di una verità invisibile.

La figura di Beatrice nella Vita Nuova contiene in nuce il ruolo che la donna avrà nella Commedia come guida di Dante all’incontro/ “visione” di Dio. La critica, a tal proposito, fa notare come Beatrice sia una sorta di “miracolo”: è una creatura che vive direttamente dell’essenza di Cristo essendo, come Cristo, un’incarnazione di beatitudine in terra.

Alcuni autori sottolineano come il linguaggio del primo incontro tra Dante e Beatrice sia mediato dalla liturgia della natività «Apparuit iam beatitudo vestra» e come da questa liturgia nasca nel poeta la sensazione di lasciarsi salvare; così come nei pastori fu immediatamente chiara la divinità salvifica di Gesù, Dante avverte nella vista/contemplazione di Beatrice la sua personale strada verso la contemplazione di Dio. Nella Commedia, infatti,questa vista/contemplazione verrà espressa attraverso il verbo «Trasumanar»: «Trasumanar significar per verba non si poria, però l’essemplo basti a chi esperienza grazia serba» {Par., I, 70-71}.

Per Dante, in sostanza, guardare Beatrice è come compiere un cammino di ascesa dell’intelletto verso Dio, per mezzo di un preciso atto di volontà e di fede e senza che lo sguardo della carne, che lo ha condotto all’amore, sia da considerarsi meno importante se non, addirittura, illusorio.


Riferimenti bibliografici:

BINO, C., Immagine e visione performativa nel Medioevo, in «DRAMMATURGIA», Anno XI - I, 2014, 335-346.
BRANCA, V., Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella Vita nuova, Olschki, Firenze 1966, pp. 36-46.
CATAPANO, G., Estasi e visione in Agostino, in «Lo sguardo – Rivista di filosofia», n. 33, 2021 (II), pp.39-68.
DIDI-HUBERMAN, D., L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive, Mondadori, Milano 2008, 1-31 e 59-101.
PICONE, M., La Beatrice di Dante dalla “Vita Nova” alla “Commedia”, in T. CRIVELLI (a cura di), Selvagge e angeliche: personaggi femminili della tradizione letteraria italiana, Lenoforte, Insula 2007, pp. 40- 53.
VESCOVINI, G.F., Studi sulla prospettiva medievale, Giappichelli Editore, Torino 1965, pp. 7-56.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]