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N. 11 - Aprile 2006

AHMAD SHAH MASSOUD

Il Leone del Panjshir

di Matteo Liberti

 

Tra le figure carismatiche, gli eroi popolari che la Storia recente ci ha offerto, quella che spicca, che assume valore più di altre, è senza dubbio legata al nome di Ahmad Shah Massoud.

 

Nato il 9 gennaio del 1953 a Jangalak, nel nord dell'Afghanistan, fu il comandante rispettato ed amato dei combattenti islamici per la resistenza afgana (contro l’invasione sovietica prima e contro il regime dei talebani poi), i mujaheddin dell'Alleanza del Nord; il suo sogno era un Afghanistan libero ed indipendente ed era un uomo di pace, desiderava la pace, anche se poi è stato da qualcuno disegnato come un signore della guerra. Quel che è certo è che, oltre ad essere un ammirevole uomo di cultura, amante della poesia e dei viaggi, si dimostrò un meraviglioso stratega militare.

 

Sapeva parlare cinque lingue, aveva studiato alla scuola di grammatica di Bazarak, aveva avuto un'educazione religiosa alla moschea Masjed-e-Jame di Herat ed aveva frequentato il Liceo Francese di Kabul, per poi dedicarsi agli studi di architettura: studente modello ed appassionato, prima di impegnarsi anima e corpo nella lotta contro l’invasore sovietico.

 

Era il natale del 1979... quando le truppe sovietiche varcarono, su ordine di Breznev, i confini dello stato afghano. Gli Stati Uniti, nell’ottica della guerra fredda, risposero con il pieno sostegno per i combattenti afgani, supportato da segreti aiuti economici e logistico-militari.

L'eroe poteva nascere: Massoud divenne presto il più importante capo della resistenza.

 

Riuscì per anni a respingere l’esercito sovietico, memorabilmente in sette occasioni, attraverso una organizzazione strategica che a volte sconfinava nella legenda: iniziò a circolare la voce che fosse invisibile, invincibile, riuscendo addirittura a trovarsi su tutti i fronti della battaglia, là dove ciascuno avesse bisogno di lui… E riuscendo, fuor di legenda, a sfuggire a tutti gli agguati e gli accerchiamenti dei più esperti generali sovietici.

 

Stremata dall'abilità e dall'orgogliosa fermezza difensiva dei mujaheddin, l’inutile e sanguinosa invasione sovietica terminò nel 1989, dopo gli accordi di Ginevra sottoscritti nell’aprile dell’anno precedente.

Nel 1992 i mujaheddin riuscirono a riconquistare Kabul, dove si insediò un governo presieduto da Buranuddin Rabbani, il leader del partito Jamiat-i Islami, la formazione dei mujaheddin tagichi cui apparteneva lo stesso Massoud, che venne nominato Ministro della Difesa.

 

Non tutte le fazioni dei mujaheddin furono però disposte a riconoscere la sua autorità; si entrò così in una vera e propria guerra civile per il controllo della capitale Kabul.

A sostegno del governo Rabbani e di Massoud intervenne la Russia di Boris Eltsin, con la volontà di mantenere inalterata la sua influenza sulla regione, ereditata dall’ex Unione Sovietica.

 

La più agguerrita tra le fazioni ribelli era quella costituita dai pashtun, riuniti nel partito Hizb-i Islami guidato dal fondamentalista Gulbuddin Hekmatyar.

Il gruppo era appoggiato dal Pakistan e dall’Arabia Saudita, con il beneplacito (ed i rifornimenti militari) degli Stati Uniti, ormai da anni, dalla Guerra Fredda con l’URSS, coinvolti nella zona.

 

Il gruppo che si prese la responsabilità di conquistare il nuovo Afghanistan era quello guidato dal mullah Mohammed Omar, al comando di un vero e proprio esercito formato dagli studenti delle scuole coraniche: i talebani.

 

Kabul fu conquistata nel settembre del 1996 e Rabbani fu costretto a rifugiarsi nel nord del paese.

Da qui, esattamente dalla zona del Panjshir, il generale Massoud inizierà a condurre la nuova resistenza contro il nemico talebano, guidando l’Alleanza nel Nord, un raggruppamento che riuniva tutti i gruppi mujahedin non pashtun. Tra questi vi erano i tagichi, gli uzbeki, gli hazara e gli sciiti.

 

Qui nel Panjshir si realizzerà completamente la legenda di Massoud, la sua immagine di guerrigliero moderno, armato di telefono satellitare e di amore per il proprio popolo, per le donne (qui i maggiori contrasti con le fazioni pashtun), la moglie ed i suoi quattro figli. E con la speranza di un paese democratico, colto e moderno.

 

Il soprannome che si era meritato fu quello di Leone del Panjshir.

 

I talebani nel frattempo avevano instaurato quella repubblica islamica che si rivelò al mondo come un terribile regime integralista, fondato su una rigidissima interpretazione del Corano.

L’oppressione maggiore fu come sappiamo nei confronti delle donne, private di ogni diritto politico e civile e addirittura interdette dalla vita sociale.

Espressione di questa reazione islamica fu inoltre una violenza iconoclasta verso tutti i simboli non islamici, come le immani statue di Buddha.

 

Dopo altri cinque anni di lotta, di passione, di organizzazione, il 9 settembre 2001, a Khvajeh Baha od Din, il comandante Massoud fu ucciso dall'attacco suicida di due terroristi arabi spacciatisi per giornalisti marocchini.

Aveva 48 anni.

 

Pur se mai nessuno ha rivendicato qull’attentato, i sospetti non possono non cadere sugli stessi talebani, per i quali la sua morte avrebbe dovuto definitivamente impedire la liberazione del paese per mano dell’Alleanza del Nord.

Due giorni dopo, l’11 settembre, gli eventi di New York determineranno il diretto intervento degli Stati Uniti.

 

Non fu così Massoud a liberare il suo popolo, ma fu lui, probabilmente, ad insegnargli la libertà.

 

Nel 2002 venne candidato postumo al Premio Nobel per la pace ed al Premio Sakharov, istituito dal Parlamento europeo per coloro che si distinguono nel campo della lotta per dei diritti dell'uomo.

 

Nello stesso anno, il 25 aprile, Ahmad Shah Massoud è stato proclamato ufficialmente eroe nazionale.

 

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