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N. 22 - Marzo 2007

MARINA CVETAEVA

La poesia strozzata

di Stefano De Luca

 

Il 31 agosto del 1941 morì suicida per impiccagione una delle più grandi poetesse russe del Novecento, la moscovita Marina Ivanovna Cvetaeva.

 

Nata in una famiglia di alto livello sociale, nel 1922 la Cvetaeva era emigrata a Praga col marito Sergej Efron.

 

Efron aveva combattuto la guerra civile dalla parte dei ‘bianchi’, per poi spostarsi tre anni più tardi a Parigi.

 

Nei primi anni dell’emigrazione Marina Cvetaeva mantenne una salda posizione ideologica anti-sovietica.

 

Ma, dopo che Efron passò apertamente dalla parte dei ‘rossi’, le cose per lei cambiarono radicalmente.

 

Venne gradualmente emarginata, vista con sospetto dagli ambienti letterari francesi e, spinta dai pressanti inviti dei figli Alja e Mur al rimpatrio, decise di fare ritorno in Unione Sovietica nel giugno del 1939, ignara di ciò che avrebbe trovato una volta varcata la frontiera.

 

Lei era una ex emigrata, una ‘bianca’, aveva vissuto in Occidente e che cosa tutto questo significasse in Unione Sovietica lo avrebbe constatato di lì a brevissimo tempo.

 

Emarginata dagli ambienti letterari sovietici, dovette sopportare nell’agosto del 1939 la deportazione della figlia e della sorella nei gulag e la fucilazione di Efron (che sembra abbia avuto un ruolo nell’uccisione del figlio di Trockij, Andrej Sedov) come nemico del popolo.

 

Impossibilitata a scrivere tanto da sostenere che, a causa dell’inattività forzata, “un tempo sapevo scrivere versi, adesso ho disimparato”.

 

Rimasta sola col figlio Mur, la Cvetaeva viveva nella miseria.

 

Venne sfollata da Mosca, bombardata dai nazisti, nell’agosto del 1941, e da qui condotta ad Elabuga, nella Repubblica socialista sovietica autonoma Tatara. Priva di mezzi di sussistenza, il 26 agosto si recò a Čistopol’, città nella quale erano stati sfollati numerosi scrittori, in cerca di aiuto.

 

La Cvetaeva, sfinita da quegli anni in cui doveva fuggire dagli invasori nazisti e  dalla repressione interna, si domandava per cosa valesse ancora la pena vivere.

 

Le erano stati tolti gli affetti più cari, così come la possibilità di fare ciò che più amava, scrivere versi.

 

Fece ritorno improvvisamente, senza un saluto, ad Elabuga, dove decise di abbandonare quel mondo terribile nell’unico modo che le era possibile, sacrificando la propria vita

 

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