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N. 138 - Giugno 2019 (CLXIX)

IL PRIMO MARAT
RIVOLUZIONARIO SENZA RIVOLUZIONE
- PARTE II
di Sara Bordignon

 

«Sono nato con un animo sensibile,

un’immaginazione di fuoco,

un carattere ardente, franco, tenace;

uno spirito giusto, un cuore aperto

ad ogni grande passione

e soprattutto all’amore per la gloria,

non ho mai fatto nulla per alterare

o distruggere questi doni di natura,

invece ho fatto di tutto per coltivarli»

 

Da dove veniva Marat? Jean Paul Mara (avrebbe aggiunto solo successivamente la “t” al cognome) nacque nell’odierna Svizzera, a Boudry, villaggio medievale sulle sponde del lago di Neuchâtel, il 24 maggio del 1743. In quegli anni la Svizzera era un dominio prussiano e Jean Paul Mara era il primogenito di Jean Mara, di origini sarde e spagnole e di Louise Cabrol, di origini francesi.

 

Fin da subito di può capire perché Marat, nel corso della sua vita, non si identificò mai in un’unica realtà nazionale, né fu legato alle sue origini familiari o linguistiche. Egli era un cosmopolita, portava avanti i suoi ideali etici e politici e, se incontrava un popolo o degli individui che li condividevano o per i quali valesse la pena lottare, lì ritrovava la sua patria primigenia, qualsiasi essa fosse.

 

«È a mia madre che devo lo sviluppo del mio carattere, perché mio padre non aspirò ad altro se non a fare di me un savant»; il padre Jean, disegnatore di stoffe e in seguito professore di lingue, teneva molto all’educazione del figlio, che fin dalla giovane età conosceva cinque lingue (l’inglese, lo spagnolo, il tedesco, l’italiano, l’olandese e ovviamente il francese); ma fu la madre a cui il ragazzo, e poi l’uomo, si sentiva più profondamente legato (Gaudenzi 1989: 113).

 

Presto Marat lasciò l’Elvezia e si diresse a Bordeaux, per lavorare come precettore. Lì con molta probabilità iniziò i suoi studi in medicina, ma dopo solo un anno si trasferì a Parigi, per restarvi fino al 1765. Nella capitale Marat ebbe modo di arricchirsi ulteriormente seguendo, oltre ai corsi in medicina, anche lezioni di storia, filosofia, letteratura e scienze naturali; in linea con quel clima enciclopedico che contraddistingueva la cultura illuminista europea.

 

Nel 1765 partì per Londra e vi rimase fino al 1776, ormai poco più che trentenne. Gli anni inglesi furono la sua prima esperienza sul campo, sia dal punto di vista politico che scientifico. Dopo aver aperto un ambulatorio a Soho per esercitare la sua professione, il ventottenne Marat venne rapito dall’agone politico inglese, il cui protagonista era John Wilkes, pubblicista radicale che con la sua penna infiammata non risparmiava nessuna critica al governo in carica, fossero i Tories o gli Whigs, le due fazioni opposte della scena politica inglese.

 

Fu così che Marat entrò in contatto per la prima volta con il mondo del giornalismo politico e subito si diede da fare per entrare nella vita intellettuale della capitale, sia per ricercare nuovi stimoli che per avviarsi verso una rinomata carriera. A Londra entrò a far parte della massoneria e incontrò diverse personalità, tra le quali il pittore veneziano Zucchi, che ci ha lasciato una delle prime descrizioni del savant (L. Cohen 1958):

 

«[…] Era un uomo piccolo, […] esile ma ben fatto. Aveva un aspetto giallognolo e l’occhio svelto. Si muoveva molto, raramente il suo corpo o i suoi arti rimanevano fermi. Era magro, malcontento, e andava contro l’establishment dell’epoca».

 

 

Jean Paul era quindi un uomo riservato, poco atto ai divertimenti e ai piaceri edonistici, dal carattere nervoso e scattante. Si dedicava incessantemente al lavoro, scrivendo di notte e di giorno.

 

Il suo primo scritto fu un romanzo d’amore ambientato in Polonia; Marat non volle mai pubblicarlo, forse per il tema romantico, inconsueto rispetto al resto della sua produzione; l’opera infatti vide la luce solo nel 1847. Invece, nel 1772 e nel 1773, il giovane studioso pubblicò anonimamente due scritti a carattere filosofico-scientifico, An Essay on the human soul (Saggio sull’animo umano) e A Philosophical Essay on Man (Saggio filosofico sull’uomo), dove sosteneva che la sede dell’anima si trovasse nelle meningi e che i sensi fossero sette.

 

 

Ma fu nel 1774 che Marat pubblicò uno degli scritti di cui andrà più fiero, tanto da ripubblicarlo diciott’anni dopo; seppur ancora in una forma giovanile, l’opera The Chains of slavery (Le catene della schiavitù) già trattava di temi a lui molto cari, ispiratigli dalla lettura di Rousseau, di Montesquieu e dalle vicende politiche inglesi.

 

Lo scritto esamina i rapporti tra il popolo, che, secondo Marat, dovrebbe essere il vero detentore del potere di una nazione e i ‘‘signori’’, i vari nobili e principi che, di fatto, il potere l’hanno sempre detenuto, ma che forse non se lo sono mai meritato.

 

L’insurrezione diventa quindi un dovere di ogni popolo oppresso (Walter 1960: 19) e “il primo attentato dei principi alla libertà non sta nel violare con la forza le leggi, ma nel farle dimenticare. Per incatenare i popoli, si inizia facendoli addormentare”.

 

In questo scritto la parola sang (sangue) è ripetuta più di trenta volte; “tribunali di sangue” e “il sangue dei cittadini” sono solo alcuni dei termini embrionali di un lessico che, negli anni rivoluzionari, diventerà adulto e magnetico per la folla.

 

 

Ma la Rivoluzione era ancora lontana e, seppur immerso in temi di attualità e di disquisizione etico-filosofica, Marat non dimenticò la sua formazione scientifica. Lavorò per un breve periodo come veterinario a Newcastle e poi fece ritorno a Londra per continuare l’esercizio della professione medica, tra il 1772 e il 1774 si recò in Olanda, in Irlanda e in Scozia, dove lavorò presso un oculista, Mister Miller.

 

Le sue esperienze gli permisero di dare alle stampe An Essay on Gleets (Saggio sulla gonorrea) nel 1775, in cui elaborava una terapia per 2 casi di uretrite cronica da gonorrea, grazie ad un nuovo metodo, inventato da lui stesso. Nello stesso anno ottenne la laurea in medicina presso l’università scozzese di Saint Andrews e nel 1776 pubblicò un nuovo scritto, a carattere oftalmologico: An Enquiry into the Nature, Cause and Cure of Singular Disease of the Eyes (Indagine sulla natura, causa e cura di una singolare patologia degli occhi).

 

 

Nel 1776 Marat fece ritorno a Parigi e, sebbene i suoi scritti non avessero riscosso il grande successo che Jean Paul si sarebbe aspettato, vennero letti da Diderot, da Goethe e da Voltaire, che ne criticò il Saggio sull’animo umano.

 

Marat ora godeva di un’ottima reputazione come medico e nel 1777 prese in cura la marchesa de Laubespine, una nobildonna esasperata da una tosse secca. Secondo Bayon (1945) la patologia della donna era probabilmente una forma di tubercolosi polmonare, soggetta a remissioni temporanee; Marat la visitò regolarmente prescrivendole una terapia a base di mandorle, salnitro e chinino. La malattia della donna iniziò a regredire e l’importante guarigione valse a Marat un incarico di alto livello: nel 1777 venne nominato “medico delle guardie del corpo del conte d’Artois”, il fratello del re.

 

Il prestigio di Jean Paul cresceva sempre di più ed egli si stabilì nel bel quartiere di Saint-Germain; ora guadagnava lautamente e, come evidenzia Walter (1960), poteva permettersi i fasti di un vero gentilhomme: un domestico e una spada.

 

 

Ma nel febbraio dello stesso anno, seppur assorbito dal suo nuovo incarico, Marat sentì il bisogno di tornare a scrivere d’etica e di politica, e partecipò ad un concorso, bandito dalla città di Berna, per la pubblicazione di un elaborato in materia penale.

 

Fu così che nel 1778 vide la luce il suo “Plan de législation criminelle” (Piano di legislazione criminale), uno scritto ricco di considerazioni all’avanguardia per l’epoca, tipiche del pensiero radicale di Marat, ma, accanto ad esse, anche di posizioni che guardavano di più alla tradizione, come illustrato in Gaudenzi (1989: 73).

 

Il giovane Marat di Chains of Slavery e il vecchio Marat dell’Ami du Peuple si incontrano a metà strada in quest’opera. In essa Jean Paul parlò di diritti della donna, trascurati da ogni nazione poiché “le leggi sono fatte solo dagli uomini”, ma che dovrebbero essere di primaria importanza poiché riguardano “metà del genere umano”. Tuttavia, nonostante la vicinanza al mondo delle battaglie femminili, Marat non si schierò mai in favore di un loro diritto al voto (Walter 1960: 61)

 

Jean Paul era un sostenitore della legge universale del “se qualcosa non nuoce ad alcuno, ognuno è libero di fare ciò che vuole” e dell’accoglienza nei confronti degli stranieri indigenti per migliorare l’economia dello Stato, infatti: «sarebbe una cosa veramente strana, se in un paese pieno di terre incolte, ci lamentassimo di accogliere persone disposte a coltivarle».

 

L’opera era completa e organica, ma, nelle prime pagine, Marat si scagliava senza mezzi termini contro il presunto diritto di proprietà: «dobbiamo poter disporre di tutto ciò che è indispensabile per vivere, ma niente di superfluo potrà mai appartenerci legittimamente, finché ci saranno altri che mancano dello stretto necessario». Il manoscritto venne destinato alla censura e, affinché ciò non avvenisse, Marat mandò al macero tutte le copie dell’opera. Ovviamente perse il concorso.

 

 

Dopo l’ennesima delusione, il savant continuò l’attività medica dedicandosi allo studio delle malattie del torace, dell’anatomia, pubblicando sulla Gazette de Santé e studiando fisiologia su animali e cadaveri.

 

Marat, in ambito medico, era scrupoloso e attento, scrisse nel 1781 in una lettera: «La mia sensibilità, caro conte, non mi permette di assistere all’autopsia di un amico, domani in mia vece ci sarà M. Boye r[…]».

 

Ma, pur essendo un medico capace e all’avanguardia, dedicando molto tempo alla visita del paziente e rispettandone l’anonimato nelle sue pubblicazioni (Silver e Weiner 2013), Marat vide sempre l’esercizio della professione medica unicamente come una fonte di reddito, dichiarando: «Amo le malattie dove c’è poco da fare e tanto da guadagnare».

 

 

Fu così che, a partire dal 1777, il savant iniziò a dedicarsi anima e corpo alla sua grande passione: la fisica. Il primo incontro di Marat con il mondo delle scienze esatte era stato infelice; a 16 anni aveva tentato di partecipare ad una spedizione astronomica in Siberia, organizzata per osservare il transito di Venere, ma era stato totalmente ignorato.

 

Tra il 1779 e il 1784 pubblicò svariati trattati di fisica sperimentale per indagare la natura della luce, del fuoco e dell’elettricità e nel 1780, sicuro del valore scientifico delle sue esperienze fisiche, Marat fece valutare il suo Découvertes sur le feu, l’électricité et la lumière (Scoperte sul fuoco, sulla luce e sull’elettricità) dall’Accademia delle Scienze di Parigi, la massima autorità in qualsiasi ambito scientifico, dalla zoologia alla matematica.

 

Ma l’Accademia non vide di buon’occhio quel medico borioso che aspirava a diventare un grande fisico, e non gli diede mai il riconoscimento tanto agognato. L’indole di Marat lo portava ad essere molto sicuro di sé negli ambiti di sua competenza, e, quando si vide rigettato dall’Accademia, attribuì questa decisione alla gelosia dei suoi membri.

 

Nei suoi lavori fisici Marat non condivideva le scoperte più recenti in materia di chimica, fatte dal grande Lavoisier, membro influente dell’Accademia (Gaudenzi 1989: 103) e metteva in discussione le teorie sull’ottica di Isaac Newton: «è con rammarico che, studiando la natura, ci si veda forzati ad abbandonare le idee di un tal grand’uomo».

 

Ma le teorie del fisico inglese, morto da appena cinquant’anni, erano una verità assoluta e Marat iniziò ad essere guardato con disprezzo. Brissot lo difese nel suo libro De la Veritè (1782), scrivendo come quella dell’Accademia fosse solo una “persecuzione”.

 

Anni dopo, quando i due erano ormai avversari politici, Brissot non negò di aver dato ragione a Marat in quegli anni, ma scrisse che Jean Paul “speculava sulle scienze solo per la propria gloria, voleva a tutti i costi farsi una reputazione rovinando quella degli altri. Occupato interamente da sé stesso, dalle sue scoperte e dalla celebrità che credeva di meritarsi […]”.

 

Nel 1782 sua madre Louise morì e Jean Paul ebbe il primo episodio di quella che definì come “una lunga e crudele malattia”, le cui “frequenti recidive” gli facevano temere il peggio. Ma nel giro di un anno si riprese e ricominciò a scrivere, ottenendo un riconoscimento dall’Accademia di Rouen per il suo scritto Mémoires sur l’électricitè medicale (Memorie sull’elettricità in campo medico). La vittoria non gli diede grande soddisfazione, perché, ancora una volta, l’unico campo in cui riusciva ad avere successo era proprio quello che meno lo appagava, la medicina.

 

Nel 1783 venne criticato da un famoso fisico, Jacques Charles, e i due vennero alle mani. Ma, qualche mese dopo, il suo nome venne preso in considerazione per partecipare alla fondazione di un’Accademia delle Scienze a Madrid. Marat, estasiato dalla nuova opportunità, pensò finalmente di avercela fatta fino a quando, pochi mesi dopo, venne liquidato. Nel 1784 perse il suo incarico come medico delle guardie del corpo del conte d’Artois e, con esso, tutti i suoi illustri pazienti; iniziarono ben presto i problemi di liquidità, ma Jean Paul continuò a pubblicare i suoi risultati scientifici.

 

Nel 1788 la sua situazione non era cambiata e lo colpì un nuovo accesso di quella esasperante maladie. Il savant fece testamento, decidendo di lasciare tutto “ai signori dell’Accademia delle scienze”; aveva 45 anni e si riteneva ormai un uomo morto. Lui, e la Francia intera, non immaginavano cosa avrebbe riservato loro il 1789.

 

La caratteristica che accomuna ogni lavoro pubblicato su Jean Paul Marat è una sola: la sua figura è complessa. Sia che si tratti di un articolo o di un’intera monografia, sia che si parli del Marat scienziato o del Marat rivoluzionario, la sua vita è ancora ricca di punti di domanda e di controversie.

 

Tra detrattori e apologeti, anche lo storico più oggettivo deve affrontare la drammaticità e la dinamicità di un uomo che, nel bene o nel male, continuerà a far parlare di sé. Forse Camille Desmoulins, altro giornalista rivoluzionario, aveva ragione quando gli disse: «Povero Marat! Sei due secoli avanti al tuo!».

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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Gaudenzi, G. e Satolli, R., Jean-Paul Marat, scienziato e rivoluzionario, Mursia, Milano 1989;

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