[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

177 / SETTEMBRE 2022 (CCVIII)


contemporanea

su alessandro manzoni

L’UNITÀ D’ITALIA E IL RUOLO DELLA LINGUA ITALIANA

di Luigi De Palo

 

Alessandro Manzoni nacque nel 1785 da Giulia Beccaria (figlia dell’illuminista Cesare) e Pietro Manzoni, esponente della piccola nobiltà lombarda, ma si ritiene che il padre naturale non fosse Pietro, bensì Giovanni Verri.

 

Manzoni trascorse l’infanzia e l’adolescenza tra la casa di campagna della famiglia paterna e nei collegi religiosi dei padri Somaschi (prima a Merate, poi a Lugano) e Barnabiti (a Milano), dove ricevette un’educazione classica e cominciò a scrivere le prime poesie, in contrapposizione con l’ambiente conservatore e retrogrado in cui viveva. Uscito dal collegio a sedici anni, fu subito in sintonia con la cultura milanese del periodo napoleonico, stringendo amicizia con i profughi napoletani Vincenzo Cuoco e Francesco Lo Monaco.

 

Nel 1805 raggiunse la madre in Francia e vi rimase fino al 1810, sviluppando in quegli anni la sua poetica e le sue idee politiche, in un contesto intellettuale e sociale estremamente ricco e variegato. Tornato definitivamente a Milano, la sua visione del mondo e del ruolo della letteratura nella società era ormai profondamente influenzata dal cattolicesimo (ricordiamo il matrimonio con la calvinista Enrichetta Blondel) e anche i suoi riferimenti politici ne erano fortemente condizionati. Compose in questi anni gli Inni sacri (1812-1815) che, nel rifiuto del classicismo, anticipavano i termini di un percorso molto personale verso la poetica romantica e quella visione del sentimento nazionale che avrebbe connotato la sua successiva produzione.

 

In Italia infatti non esisteva una lingua comune e la causa principale era la mancata unificazione politica che in altri paesi europei, come la Francia, aveva favorito il fissarsi di una lingua nazionale. Per Manzoni diventò sempre più chiaro il rapporto tra unificazione politica e lingua comune e la consapevolezza che non può esistere una vera unità finché il popolo non sarà unito a sua volta da una stessa lingua.

 

Il suo rapporto con la politica fu dunque contrassegnato da un sincero sentimento patriottico, ma pochi sono i suoi coinvolgimenti diretti, preferendo piuttosto far parlare le sue opere, investite di una missione culturale e civile, sono questi infatti gli anni in cui nacquero i componimenti: Aprile 1814; Il proclama di RiminiMarzo 1821; Il cinque maggio; le tragedie Il conte di Carmagnola (1820) e Adelchi (1822).

 

Sempre in questo periodo, nel 1821, Manzoni iniziò a scrivere il suo romanzo più celebre, che terminerà nel 1823 e al quale darà il titolo provvisorio di Fermo e Lucia. Tuttavia il libro non soddisfece pienamente lo scrittore, che lo riprenderà nel 1824 dando vita a tre volumi che intitolerà I Promessi Sposi. L’opera fu pubblicata nel 1827 e l’edizione dell’epoca prese il nome di ‘Ventisettana’, ma Manzoni non era ancora soddisfatto e nel 1840 fu pubblicata la definitiva edizione del romanzo, la ‘Quarantana’ (un’edizione a fascicoli). Ma come mai questi continui ripensamenti?

 

Nella prima stesura del 1823, il romanzo (Fermo e Lucia) fu scritto con un linguaggio misto toscano, milanese, latino e francese. Manzoni era consapevole di essere ancora lontano dal suo obiettivo e dal 1824 iniziò un lavoro di revisione della prima stesura. È la cosiddetta fase toscano-milanese, non nel senso di un impasto delle due lingue, ma di una sostituzione delle parole e locuzioni milanesi con le equivalenti toscane presenti nella prima stesura, servendosi soprattutto del Vocabolario della Crusca, che successivamente abbandonerà, come vedremo in seguito, in quanto non aderente alla realtà popolare. Il risultato, come anticipato, non gli diede soddisfazione: lo scritto si presentava ancora poco popolare e troppo libresco, ed è in questo momento che iniziò a ragionare sulla possibilità di apprendere una lingua degna di essere scritta, dalla parlata viva e fresca. Il canone classico e arcaizzante venne così sostituito con quello popolare d’indirizzo romantico.

 

Manzoni sentiva molto il tema della lingua, voleva che il suo romanzo fosse destinato a un pubblico ampio, al quale presentare in chiave letteraria i problemi contemporanei. Il romanzo doveva essere quindi scritto in una lingua che fosse facilmente comprensibile e non più legata alla tradizione aulica e di conseguenza destinata solo a chi aveva una certa formazione culturale.

 

Con questi propositi Manzoni è assolutamente vicino alle tematiche dei romantici italiani. Il Romanticismo, infatti, portava avanti la concezione di una letteratura che fosse soprattutto popolare, naturale, che sapesse rispondere immediatamente alle esigenze della gente comune. Questo movimento perseguiva quindi fini didascalici, morali e liberatori con l’intento anche di riscattare il popolo, per avviarlo a riconoscere la propria libertà essenziale.

 

Questa nuova concezione dell’arte, che rompeva con il passato, caratterizzato da un’arte essenzialmente colta e artificiosa, attraverso l’introduzione nella letteratura e soprattutto nella prosa di temi comuni e semplici, necessitava di un linguaggio nuovo e fresco.

 

A dimostrazione di ciò nel carteggio con Claudel Fauriel, precisamente nella lettera datata 3 novembre 1821, Manzoni già scriveva: «Manca completamente a questo povero scrittore questo sentimento – per così dire – di comunione col suo lettore, questa certezza di maneggiare uno strumento ugualmente conosciuto da entrambi. Si chieda se la frase appena scritta sia italiana: come si potrà dare una risposta sicura a una domanda che non è precisa? Che cosa significa italiano in tal senso? Secondo certuni [italiano] è ciò che è consegnato nella Crusca, secondo altri ciò che si capisce in tutta Italia, ovvero dalle classi colte; la maggior parte non applica a questa parola alcuna idea determinata. Io vi esprimo qui in maniera vaga e molto incompleta un sentimento reale e doloroso. La conoscenza che Voi avete della nostra lingua vi suggerirà subito quel che manca alle mie idee, ma temo che essa non vi indurrà a contestarne il nocciolo. Nel rigore feroce e pedantesco dei nostri puristi c’è a mio avviso un sentimento generale del tutto ragionevole: è il bisogno di una certa fissità, di una lingua convenuta fra coloro che scrivono e coloro che leggono. Penso che abbiano solo il torto di credere che tutta una lingua si trovi nella Crusca e negli scrittori classici e che, quando pure vi fosse, avrebbero torto anche di pretendere che la vi si cerchi, che s’impari, che ci se ne serva. Giacché è assolutamente impossibile che dai ricordi della lettura risulti una conoscenza sicura, vasta, applicabile a ogni istante di tutto il materiale di una lingua. Ditemi che cosa debba fare oggi un italiano che, non sapendo fare altro, voglia scrivere. Quanto a me, disperando di trovare una regola costante e speciale per far bene questo mestiere, credo tuttavia che vi sia anche per noi una perfezione approssimativa di stile, e che per trasferirla il più possibile nei propri scritti bisogni pensare molto a quel che si dirà, aver letto molto gli italiani detti classici e gli scrittori di altre lingue, soprattutto francesi, aver parlato di temi importanti con i propri concittadini, e che con ciò si possa acquisire una certa prontezza nel trovare nella lingua cosiddetta ‘buona’ quel che essa può fornire ai nostri bisogni attuali, una certa attitudine a estenderla con l’analogia, e un certo qual tatto per estrarre dalla lingua  francese quello che può essere mescolato alla nostra senza urtare con una forte dissonanza, e senza aggiungervi oscurità. Così, con un lavoro più penoso e ostinato si farà meno male possibile quel che voi fate quasi senza fatica. Concordo con Voi che scrivere un romanzo in italiano sia una delle cose più difficili, ma trovo questa difficoltà in altri soggetti, sebbene a un grado inferiore; e con la conoscenza non completa ma sicura che ho della imperfezione dell’operaio, sento anche in una maniera pressoché sicura che ve ne ha molta nella materia».

 

Spinto da tali necessità, dal 1827 al 1839 lo scrittore si impegnò in una radicale revisione linguistica e stilistica, compiendo il suo viaggio a Firenze, alla ricerca del linguaggio ideale per il suo romanzo e a stretto contatto con la gente del posto. Sarà proprio da questa esperienza che iniziò il definitivo lavoro di revisione de I Promessi Sposi, verso l’uso vivo del fiorentino parlato, in particolare quello dei colti.

 

Da un linguaggio eclettico si passò, quindi, a una lingua realmente esistente. Su questo punto si soffermerà il Manzoni nelle future dispute sulla lingua. Scrivendo nel 1847 al Carena, egli affermò l’importanza di una lingua viva e parlata da una determinata società in un’area geografica ben definita. La famosa “risciacquatura in Arno”, al fine di depurare il romanzo da qualsiasi inflessione regionale lombarda, rappresentò il riuscito tentativo di dare una lingua nazionale all’Italia avviata verso l’unità politica.

 

La scelta del fiorentino era poi dovuta anche a motivazioni storiche, Firenze era ed è la patria della nostra letteratura, a partire da Dante Alighieri con la sua Divina Commedia, a Pietro Bembo che nel Cinquecento, con le Prose della volgar lingua (1525), indicò il toscano come il modello della lingua italiana, aggiungendo fra gli autori da imitare Boccaccio e Petrarca.

 

Manzoni sostituì quindi parole e locuzioni letterarie con un linguaggio più popolare, come ad esempio confabulare con chiacchierare o modificò le varianti fonetiche: dimandare con domandare, imagine con immagine, lione con leone, senza però dimenticare, nonostante le intenzioni, la tradizione letteraria e così, pur sostituendo natio nel capitolo VIII de I Promessi Sposi, Renzo, salutando il suo paese, da cui è costretto ad allontanarsi, dice: “Addio, casa natia, dove sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato”.

 

Manzoni però non si fermò solo all’opera artistica in sé, ben presto cominciò a orientarsi verso un campo più ampio, quello della società e della politica italiana: una disputa non solo letteraria, ma che diventava un problema civile e sociale.

 

Durante le Cinque Giornate di Milano, nel 1848, si schierò apertamente con i patriottici, dando alle stampe Marzo 1821, che per anni aveva tenuto nascosto, divenendo un punto di riferimento per l’area cattolico-liberale. Il nuovo Stato era consapevole del ruolo giocato da Manzoni, perciò nel 1859 gli fu assegnato da Vittorio Emanuele II un vitalizio e, nel 1860, fu nominato senatore del Regno d’Italia.

 

In questo periodo di grande fermento Manzoni giocò quindi un ruolo fondamentale sulla questione della lingua, essendo l’unificazione linguistica considerata strumento fondamentale di coesione nazionale. Con i suoi scritti riuscì a influenzare quindi non solo la letteratura contemporanea, ma anche la società del suo tempo, diventando il simbolo di una nuova Italia unita.

 

La teoria manzoniana prevedeva, come già enunciato ne I Promessi Sposi, di assumere quale lingua nazionale il fiorentino vivo, parlato dai ceti colti, una lingua volutamente antiaccademica e non confinata nella sfera letteraria, ma strumento della comunicazione sociale. A questo proposito ricordiamo la relazione nel 1868 al Ministro Emilio Broglio Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla.

 

Manzoni non aveva dubbi: non ci poteva essere una vera unificazione, finché non ci sarebbe stata una lingua comune come primo e immediato mezzo di educazione del popolo e di italianità, e tale obiettivo poteva essere raggiunto solo affidandosi al fiorentino. Ovviamente non tutti erano d’accordo con lo scrittore, che entrò in conflitto con il noto linguista Isaia Ascoli, che guardava al problema della lingua soprattutto dal punto di vista culturale.

 

Contestava a Manzoni la scelta del fiorentino e in particolare il parallelismo che il poeta fece tra Parigi (il parigino era diventato la lingua comune dei francesi) e Firenze, sia perché quest’ultima non era una capitale, sia perché il livello culturale non era paragonabile a quello di una grande città europea (a Firenze c’era un alto tasso di analfabetismo). Per questo Ascoli indicava il modello tedesco come alternativa, che aveva prodotto una lingua nazionale senza unità politica.

 

Al contrario però di Ascoli, Manzoni aveva capito che il fiorentino possedeva degli elementi che ne facilitavano la diffusione: non a caso il toscano era già diventata la lingua comune per lo scritto e ora non serviva altro che estendere questo processo al parlato.

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]