[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 153 / SETTEMBRE 2020 (CLXXXIV)


attualità

Il colpo di stato in Mali

altra benzina sul fuoco subsahariano

di Gian Marco Boellisi


Il 2020, ormai si è capito, passerà agli annali come l’anno del Covid-19 e dell’emergenza sanitaria che ha ricordato agli abitanti del globo il significato della parola “pandemia”. Per quanto questo sia indubbiamente uno degli eventi storici più importanti della nostra storia moderna, esso ci ha fatto perdere di vista svariati avvenimenti altrettanto importanti e che in maniera eguale scriveranno la storia degli anni a venire. Uno di questi risulta senza dubbio il recentissimo e (quasi) inaspettato colpo di stato militare in Mali, avvenuto lo scorso 18 agosto 2020.

 

Per quanto siamo ormai purtroppo abituati a vedere l’Africa come luogo in cui avvengono solo catastrofi naturali o disastri politico-militari, l’indifferenza e l’ignavia della comunità internazionale ha portato ancora una volta ulteriore disordine in un paese chiave per la stabilità della regione subsahariana, del continente africano e infine anche della cara e vecchia Europa, la quale si crede erroneamente al sicuro dalle ripercussioni di simili eventi dall’altro lato del Mediterraneo. Risulta quindi interessante analizzare le motivazioni che hanno portato a questo ennesimo golpe militare e quali potrebbero essere le future conseguenze su un’area così a lungo martoriata dalla violenza e dal conflitto.

 

Partiamo dalle premesse. Il Mali risulta essere uno dei paesi più affascinanti e culturalmente ricchi dell’intera Africa subsahariana. Paese dalla profonda e antichissima storia, il Mali è sempre stato un crocevia di uomini, merci e culture.

 

Entrato nell’occhio delle mire espansionistiche francesi, esso divenne una colonia nel 1864 e rimase tale fino alla sua indipendenza nel 1960. Il primo presidente eletto a seguito dell’indipendenza, Modibo Keïta, adottò delle politiche economiche e sociali di stampo marxista, distruggendo la neonata e fragile economia del paese subsahariano.

 

Ciò creò lo scontento che portò al sanguinoso colpo di stato del 1968 effettuato da Moussa Traoré, il quale rimase presidente fino al 1991. Questi venne deposto a sua volta da un altro colpo di stato. Qui i militari artefici del golpe, al posto di prendere il potere nelle proprie mani, decisero di instaurare un governo di transizione civile, il quale portò a regolari elezioni e a svariati mandati di presidenti eletti secondo queste modalità. Per quanto il processo democratico nel paese fosse sempre molto fragile, si proseguì per svariati anni lungo questa strada.

 

Nel 2008 si ebbe un nuovo accenno di instabilità, con la riaccensione delle tensioni con i tuareg, popolazione nomadica risiedente nel nord del paese. Nel 2012 si ebbe ancora un altro colpo di stato, il quale rimischiò le carte in tavola all’interno dello stato maliano e portò solo confusione nel tessuto istituzionale del paese. A seguito del golpe furono indette ulteriori elezioni, dalle quali uscì vincente il presidente Ibrahim Boubacar Keïta.

 

Parallelamente al cambio dei vertici dello stato, le tensioni con le etnie del nord si tramutarono in una vera e propria guerra civile tra le forze governative e i ribelli tuareg insieme ai gruppi jihadisti ivi insediatisi nel corso degli anni. Fiutando il potenziale pericolo nel perdere un paese importante come il Mali alla causa jihadista, la comunità internazionale, e in particolar modo la Francia, la quale ha sempre esercitato un’enorme influenza in Mali in virtù soprattutto delle ricchissime risorse minerarie ivi presenti, con supporto logistico e militare statunitense, intervenne manu militari nel paese respingendo le forze ribelli e riportando la situazione a un livello quanto meno gestibile.

 

Da questi eventi scaturì una conclusione, ora come allora, chiara a tutti quanti: il nord del Mali, per la sua particolare conformazione territoriale, era diventato uno degli epicentri principali d’instabilità del Sahel. Da qui infatti hanno avuto origine negli anni tutti i gruppi terroristici che non solo operano nei paesi limitrofi, quali Niger e Burkina Faso, costituendo la cosiddetta “zona dei tre confini”, ma che proiettano anche le proprie attività verso paesi a Nord, quali Libia, Tunisia, Algeria, vedendo come obiettivo ultimo il Vecchio Continente. Nonostante gli anni siano passati, Parigi impiega ancora oggi svariate migliaia dei propri soldati nel paese e nella regione, incorrendo periodicamente in perdite e interrogandosi costantemente se abbia ancora un senso restare in un paese la cui gestione risulta tanto difficile.

 

Avendo analizzato il contesto del Mali degli ultimi 20 anni, si può ben capire quanto sia instabile questo paese e quanto la stessa popolazione abbia difficoltà a sentirsi rappresentata dalla propria classe politica. Questo diffuso malcontento ha portato a un’ondata di proteste che hanno coinvolto tutto il paese a partire dal 5 giugno scorso.

 

Le manifestazioni di piazza sono state capeggiate da un movimento anti-establishment denominato M5-RFP (Mouvement du 5 juin / Rassemblement des forces patriotiques) e sono scaturite principalmente a seguito delle elezioni per il rinnovo dell’assemblea nazionale tenutesi ad aprile, dove il partito dell’ormai ex presidente Ibrahim Boubacar Kéita (conosciuto anche come IBK) avrebbe ottenuto dei numeri importanti in maniera abbastanza ambigua e fumosa.

 

Ovviamente tra le richieste dei manifestanti vi erano le immediate dimissioni del presidente, così come cambiamenti radicali al sistema istituzionale maliano e politiche economiche strutturate per la crescita del paese. Le proteste sono andate avanti per svariate settimane, senza ottenere alcun apparente risultato e rimanendo nell’indifferenza generale della comunità internazionale.

 

In questo agitato contesto si inserisce il golpe militare avvenuto ad agosto 2020, seguendo peraltro quasi esattamente lo stesso schema di quello avvenuto nel 2012. Infatti, in entrambe le occasioni, il tutto è partito dalla base militare di Kati, a qualche decina di chilometri a nord della capitale Bamako. Il 18 agosto, già dalle prime ore del mattino, le agenzie di stampa hanno iniziato a riferire di colonne di militari diretti verso Bamako, cominciando così a paventare nell’aria la possibilità di un colpo di stato.

 

Di lì a poche ore si avrebbe avuta la conferma che il presidente IBK sarebbe stato arrestato nella sua residenza nel quartiere di Sebenikoro insieme al primo ministro Boubou Cissé. Costretti entrambi con la forza ad andare presso la base militare di Kati, il presidente Keïta è stato forzato alle dimissioni e a sciogliere il governo insieme all’assemblea nazionale in tarda serata in diretta tv nazionale. Un colpo di stato iniziato e portato a termine in meno di 24 ore, come neanche nei migliori manuali.

 

Il golpe tuttavia non deve essere visto come un fulmine a ciel sereno. Anzi, tutto il contrario. Già a febbraio 2020 si vociferava della possibilità di un colpo di stato, specie a seguito di un discorso molto duro del presidente Keïta contro le alte sfere dell’esercito, dove queste venivano accusate di abusi contro la popolazione, appropriazione indebita e mancanza di polso nella guerra contro gli jihadisti al nord.

 

In molti paesi africani, in Mali come anche in Egitto, l’esercito svolge da sempre un ruolo estremamente importante nelle politiche interne dei propri paesi, tanto da essere a volte paradossalmente l’ago della bilancia che mantiene lo stato in equilibrio prima che si sgretoli a causa delle proprie pressioni interne. La cosa che ha sorpreso è che, a seguito delle dimissioni del presidente, i militari golpisti hanno creato il Comité national pour le salut du peuple (Cnsp - Comitato Nazionale per la Salvezza del Popolo), affermando di voler gestire la transizione politica in maniera pacifica verso un nuovo assetto istituzionale del paese. Da parte della società civile non si sono avute esplicite manifestazioni di dissenso nei confronti dei militari, testimoniando così la più totale insofferenza nei confronti dell’ex presidente Keïta.

 

All’interno del Cnsp tra i membri più attivi vi sono i colonnelli, figure di grado elevato, ma comunque non ai vertici della catena di comando, i quali effettuano la maggior parte delle azioni e delle attività, supportati sempre e comunque dai generali. Finora i militari si sono detti non interessati al potere e al momento le loro azioni sembrano ricalcare tali parole.

 

Tuttavia è sempre bene stare attenti alle dinamiche politiche immediatamente successive a un colpo di stato, specie da chi ha il potere di schierare intere divisioni di carri armati nell’arco di poche ore nel centro della capitale. Nonostante ciò, molti osservatori internazionali sono rimasti colpiti dalla continuità internazionale che Cnsp sta conferendo al Mali. Infatti sono state confermate tutte le alleanze a livello internazionale ed è stata confermata sia la MINUSMA, ovvero la missione ONU in Mali, sia Takuba, ovvero la task force anti-terrorismo nel Sahel.

 

Oltre all’impegno in politica estera, il Cnsp ha invitato i vari movimenti civili attualmente presenti nel paese a unirsi al processo di transizione a seguito del cambio di regime. Per quanto il movimento M5-RFP inizialmente abbia accolto con silenzio l’invito, con il passare delle settimane si sono succeduti vari tentativi e incontri per progettare un governo provvisorio fino alle prossime elezioni.

 

Tuttavia, già dai primi colloqui, sono state messe in evidenza profonde differenze di veduta tra i militari e la società civile e ancora oggi si sta lottando per trovare un terreno comune su cui ricostruire le istituzioni del paese. I militari hanno promesso di ridare il controllo alla società civile e quindi riattivare il processo democratico entro 30 mesi, tuttavia anche solamente su questa tempistica non tutte le forze in gioco e i partiti del Mali sono d’accordo, fattore che complica già sul nascere un fragilissimo equilibrio che può essere rotto in qualsiasi momento.

 

Per quanto le dinamiche interne del paese stiano tenendo gli osservatori internazionali occupati, il cuore del problema è un altro. Infatti ci sta chiedendo sempre più spesso come sia stato possibile che sia avvenuto un golpe in un paese verso cui l’attenzione della comunità internazionale è estremamente alta, soprattutto in virtù delle molte missioni internazionali in corso e delle somme investite per riformare il sistema di sicurezza locale.

 

Il Mali è infatti ormai da anni sotto i riflettori internazionali per i più disparati motivi e, nonostante la presenza massiccia di personale militare estero, ciò non ha impedito né ha minimamente paventato il sentore di un colpo di stato in un paese chiave dell’Africa subsahariana. È emersa quindi, per l’ennesima volta, l’enorme distanza tra la visione e la percezione che i partner occidentali di turno hanno di una certa nazione e l’effettiva realtà politica e sociale di quella stessa nazione, portando così milioni di euro investiti per raggiungere i più disparati obiettivi nonché la perdita di vite umane, locali e occidentali, a risultare inconcludente in termini politici nel breve, medio e lungo termine.

 

È tuttavia possibile anche che qualche stato in particolare sapesse del golpe e abbia lasciato correre per certi interessi o accordi pregressi con i golpisti, tuttavia ciò non toglie che le varie missioni militari e umanitarie estere presenti in Mali, tra cui 10.000 soldati dell’ONU e 5.000 francesi, non abbiamo scalfito il problema dello jihadismo nelle aree subsahariane, ma aggiunto solo ulteriore entropia a una regione già nel totale caos.

 

In conclusione, il Mali si trova ancora una volta ad affrontare una grave crisi politica e sociale a seguito dell’ultimo colpo di stato. Al momento attuale risulta estremamente difficile prevedere gli esiti di ciò che accadrà da qui a pochi mesi, specialmente per le innumerevoli forze in gioco e soprattutto interessi, locali e internazionali, in ballo.

 

I vari attori internazionali, che finora sembrano aver lavorato in una dimensione parallela completamente scollegata dalla realtà, dovranno probabilmente agire in maniera più concreta dal punto di vista politico e sociale, e non semplicemente mandare più soldati come fatto finora, qualora vogliano vedere un cambiamento concreto in Mali.

 

Dall’altro lato vi sono i cittadini del Mali, vessati da condizioni di vita decisamente non tra le migliori a questo globo e in preda a una guerra civile di immemore durata e da una crisi politica, economica e sociale ormai in atto da quasi vent’anni.

 

Tuttavia proprio la popolazione del Mali può solamente trovare la forza morale, e quindi politica, di cambiare le dinamiche in atto e di riportare il paese verso una direzione stabile, malgrado la presenza di colonnelli, jihadisti o potenze straniere.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]