A 
										PROPOSITO DI 
										
										MAHSA AMINI
										IL VENTO DELL’IRAN, TRA LOTTA 
										ED EMANCIPAZIONE
											
										
										
										di Francesca Zamboni
											
											 
											
											
											Mahsa Amini morta a soli 22 anni per 
											una ciocca di capelli al vento; il 
											vento dell’Iran che avrebbe dovuto 
											vederla crescere, affermarsi e 
											invecchiare. Ma dal 1979 in quella 
											terra è tornato a soffiare un vento 
											contrario che ostacola ogni tipo di 
											emancipazione femminile, dietro il 
											pretesto di un velo del cui termine 
											“hijab” peraltro non abbiamo 
											traccia a livello coranico. 
											L’avvento di Ruhollāh Mostafavī 
											Mōsavī Khomeini, con l’instaurazione 
											di una Repubblica Islamica, dopo una 
											rivoluzione popolare, segnò allora 
											la rottura con il predecessore 
											Mohammad Reza Shah Phalavi ormai 
											considerato servitore di un 
											Occidente ingombrante, ma con una 
											conseguenza paradossale perché se 
											quella rivoluzione vi era stata, in 
											parte era avvenuta grazie anche a 
											quelle donne contro le quali oggi 
											gli stessi religiosi infieriscono, 
											minando nuovamente i loro diritti e 
											ledendo la loro dignità.
											
											
											 
											
											
											L’intimo motivo non è da ricercarsi 
											nelle leggi imposte post 
											rivoluzione, bensì nella natura 
											culturale del paese prettamente 
											patriarcale e antecedente all’ascesa 
											di Khomeini. D’altronde la figura 
											femminile relegata all’ambiente 
											domestico e sottomessa a quella 
											maschile è precedente alla 
											Repubblica Islamica. E Khomeini non 
											fece altro che giocare 
											pretestuosamente le sue carte 
											politiche dopo due Shah che, sebbene 
											fossero riusciti a modernizzare ed 
											emancipare il paese abolendo il velo 
											(1963) e concedendo il diritto di 
											voto alle donne (1967), non 
											riuscirono tuttavia a coinvolgere le 
											aree rurali, ma solo quelle urbane.
											
											
											
											 
											
											
											Quando le donne iraniane scesero in 
											piazza nel 1978-1979 si trattò di 
											una manifestazione contro un regime 
											considerato oramai corrotto e 
											servitore dell’occidente. 
											Manifestare significava, nel loro 
											intento, progredire a fianco degli 
											uomini contro l’occidentalizzazione 
											dell’impero. Non solo, re-indossare 
											il chador o l’hijab fu 
											inizialmente il loro strumento di 
											riscatto culturale, per giustificare 
											una presenza pubblica accanto a 
											quelle figure maschili a cui fino a 
											quel momento, a causa di una 
											mentalità patriarcale, non avevano 
											alcun diritto di potervi 
											partecipare. 
											
											
											 
											
											
											Se da un lato lo Shah aveva concesso 
											alle donne misure volte alla loro 
											emancipazione, basti elencare la 
											concessione dell’elettorato attivo e 
											passivo del 1963, l’accesso alle 
											cariche pubbliche e la 
											legalizzazione dell’aborto, 
											dall’altro lato Khomeini le 
											osteggiava fortemente, spingendole a 
											manifestare contro ciò che poteva 
											elevarle. La motivazione è da 
											ricercarsi nelle promesse 
											dell’ayatollah che, non solo 
											assicurava la parità tra uomo e 
											donna politicamente, ma anche nella 
											diversa estrazione sociale da cui le 
											donne provenivano e che lottavano 
											contro una monarchia dispotica con 
											necessità e ideologie differenti.
											
											
											
											 
											
											
											Le donne appartenenti alla borghesia 
											laica, che studiavano e lavoravano, 
											non indossavano il velo, provenivano 
											dalle aree urbane ed erano disposte 
											ad affrontare la situazione 
											democraticamente; ma vi erano anche 
											le donne dei ceti popolari della 
											borghesia religiosa, che vivevano le 
											riforme dello Shah come un oltraggio 
											ai loro precetti religiosi. 
											
											
											
											 
											
											
											Ecco perché molte donne laiche, a un 
											mese esatto dopo lo scoppio della 
											rivoluzione (8 marzo 1979), scesero 
											nuovamente in piazza per contestare, 
											tra bastonate, l’islamizzazione 
											forzata dello Stato e l’imposizione 
											del velo da parte dell’ayatollah 
											Khomeini che, nonostante le 
											rassicurazioni date al popolo 
											femminile, rese il velo obbligatorio 
											assieme ad altre leggi 
											discriminanti, misogine e umilianti, 
											arrivando imperterrite fino ai 
											nostri giorni, fino a Masha. Il velo 
											divenne simbolo di purezza e onore 
											di cui lo Stato islamico si fece 
											garante.
											
											
											 
											
											
											Di rimando il messaggio che le donne 
											ricevettero fu duplice: per le donne 
											islamiste rappresentò la chiave di 
											accesso a quei luoghi che fino a 
											quel momento erano stati loro 
											preclusi: università e posti di 
											lavoro; per le donne laiche fu il 
											segno dell’oppressione da cui 
											fuggire indossando hijab 
											coloarati e a cui la “polizia 
											morale” cominciò a rispondere con 
											violenza inaudita. Da qui la 
											fatwa contro khomeini nel 1980 
											per rendere illegittime tali 
											aggressioni. 
											
											
											 
											
											
											Le donne cosiddette “mal velate”, 
											catturate come prede dalla “polizia 
											morale”, raccontano ancora oggi una 
											dimensione distopica, a cui le 
											rivolte in nome di Mahsa stanno 
											tentando in questi giorni di dare un 
											altro volto all’Iran: quello della 
											dignità, dell’autonomia e della 
											capacità di autodeterminarsi con la 
											speranza che il vento possa cambiare 
											e accarezzare i capelli di tutte le 
											donne.