MACHIAVELLI INASPETTATO
I versi “ONANISTICI” del segretario
fiorentino
di Federica
Campanelli
Quando il nascente sol l’aurora
caccia
E le cime de’ monti paion d’oro
E gli uccellj escon fuor da’ nidj
loro
Perché la fame e ‘l giorno gli
minaccia,
Allhor vorrej haver nelle mie
braccia
Il dolce ricco mio caro tesoro;
Perché ‘l caxxo mi dà tanto
martoro,
Ch’io non so s’io me ‘l menj, o
quel ch’io faccia.
Ebbene sì. Niccolò Machiavelli
(1469-1527), noto ai più per le sue
analisi politiche, potrebbe anche
essere l’autore di questi versi
decisamente poco istituzionali. O,
per dirla con le parole
dell’umanista Leonardo Salviati
(1539-1589), che li trascrisse
in una lettera del 1563: “sporchi
e disonesti”. Ma, checché ne
dicesse Salviati, non sorprende che
un intellettuale della portata di
Machiavelli abbia saputo descrivere
con sorprendente grazia il
“martirio” dell’eccitazione maschile
mattutina, il risveglio “agitato” di
un uomo che, in assenza del suo
“dolce ricco caro tesoro”, si trovi
combattuto tra la castità e un più
pratico sollievo autogestito (“s’io
me ‘l menj”).
La riscoperta di questa ottava
infuocata, palesemente dedicata alla
masturbazione, si deve al lavoro
filologico del professor Antonio
Corsaro dell’Università di
Urbino, che ha restituito attenzione
a un documento conservato presso la
Biblioteca Ariostea di Ferrara: una
lettera polemica di Salviati a
Jacopo Corbinelli, la quale
contiene appunto il riferimento
diretto al componimento incriminato,
e che l’autore attribuisce al “Machiavello”.
Pubblicato sulla rivista
Interpretes (Salerno Editrice),
lo studio propone una lettura
critica di questa testimonianza
unica, finora ignorata persino dagli
studiosi più attenti del corpus
poetico machiavelliano: «Dell’ottava
attribuita a Machiavelli» scrive
Corsaro, «non risulta altra
testimonianza, e ciò la rende quanto
mai interessante, a dispetto della
trascuraggine dei primi editori
(poco attenti alla trascrizione ma
attenti a censurare i vv. 7-8
dell’ottava per riflessi
condizionati di pruderie) e dei
successivi lettori».
Insomma, se autentica, l’ottava
andrebbe ad arricchire quel piccolo
gruppo di componimenti poetici noti
dell’autore fiorentino: «Noto che si
tratta di un metro tutt’altro che
estraneo al versificatore
Machiavelli, del quale sopravvivono
due strambotti lirici (Io spero e
lo sperar cresce ‘l tormento;
Nasconde quel con che nuoce ogni
fera) e inoltre la siliqua di
33 ottave della cosiddetta
Serenata, esercizio più
impegnativo (fra l’altro giuntoci
autografo) che rinvia a una poetica
di marca quattrocentesca e
polizianea».
Che Machiavelli si dilettasse di
poesia non è dunque una novità. Ma è
più interessante vederlo impegnato
nel registro licenzioso e burlesco,
proprio della Firenze del tempo, un
tono che peraltro non gli era
affatto lontano, come dimostrano
anche testimonianze aneddotiche
coeve. Lodovico Domenichi
(1515-1556), ad esempio, nel suo
Detti e fatti di diversi signori et
persone private, racconta di una
gara d’improvvisazione poetica
durante la quale l’autore
fiorentino, spinto dalla pressione
del momento, concluse una stanza in
versi con un doppio senso sessuale
così sfacciato da far arrossire le
gentildonne presenti.
In questo contesto, l’ottava
“dell’alba”, con il suo alternarsi
di lirismo paesaggistico e crudo
desiderio corporale, non appare
fuori luogo. Anzi, rientra in quella
tradizione poetica giocosa e
provocatoria che va da Cecco
Angiolieri a Lorenzo il Magnifico,
fino al Berni. Un mondo dove si
poteva parlare di politica e di
sesso con pari raffinatezza
linguistica, e dove la tensione tra
forma elevata e contenuto basso
generava l’effetto comico più
godibile.
Ciononostante, Corsaro non afferma
con certezza assoluta che l’ottava
sia di Machiavelli, ma presenta
solide argomentazioni a favore
dell’attribuzione. Prima di tutto,
la fonte è credibile dato che
Salviati era figura centrale della
cultura fiorentina e ben inserito
nell’ambiente letterario. Lo stile e
la metrica coincidono con altri
testi poetici di Machiavelli. In
ultimo, il contenuto erotico non è
affatto incompatibile con la sua
produzione minore.
In altre parole, è plausibile che
questi versi – pur volutamente
provocatori – siano usciti dalla
penna di Niccolò, magari in un
contesto privato e conviviale, come
spesso accadeva nella cultura
cortigiana del Cinquecento.