[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

168 / DICEMBRE 2021 (CXCIX)


moderna

IL “PESO” DELLA FORTUNA NELL’AGIRE POLITICO

SULLA VISIONE DI NICCOLÒ MACHIAVELLI

di Rita Fratto

 

Il duca Valentin le vele sua
ridette a’ venti e verso ‘l mar di sopra
della sua nave rivoltò la prua,

e con sue genti fe’ mirabil opra

 

Nei versi del Decennale Primo di Niccolò Machiavelli emerge ancora l’ammirazione per il contegnodello splendido e magnifico duca Valentino. A lui, oltre a una serie di qualità d’eccezione, il Segretario fiorentino riconobbeper un certo tempo – fino ai ben noti rovesci subiti dal Borgia – la prerogativa di essere favorito da una perpetua fortuna (lettera alla Signoria di Firenze: 26 giugno 1502).

 

Erail tempo in cui la teoria del Principato, retto da un individuo munito di quelle doti che tuttora sono additate come essenziali nella leadership, aveva sostituito nelle preferenze diMachiavellila forma repubblicana, amata e studiata nei classici prediletti. Tale scelta, da molti giudicata contraddittoria, potrebbe più semplicementeconisderarsi frutto di un robusto realismo, non ravvisandosi all’epoca le condizioni minime per la sopravvivenza di un regime repubblicano, come i fatti storici ampiamente ebbero a dimostrare.

 

A capo della Seconda Cancelleria dal 1498 come Segretario, egli fu costantemente impegnato nel dipanare intricate matasse afferenti la gestione dei rapporti della Repubblica con gli altri Stati e Nazioni. Ciò valse ad ampliarne a dismisura gli orizzonti, grazie alle frequenti missioni, ma anche a mettere in luce le sue doti diplomatiche e ad affinare il suo pensiero politico e morale.

 

La situazione italiana appariva ai suoi occhi sempre più chiara, in tutto il florilegio dei suoiformidabili malanni, da imputare sostanzialmente alla frammentazione politica, all’inadeguatezza della classe dirigente, alla mancanza di milizie cittadine, all’ingombrante potere della Chiesa, dedita a praticare con pertinacia il divide et impera.

 

Il tema della Fortuna non va disgiunto, nell’ottica diMachiavelli, dalla valorizzazione di quell’attitudine che si concretizza nel facere de necessitate virtuteme che, con buona pace di San Girolamo, viene da lui portata alle estreme conseguenze. La Virtù infatti non si identifica con un rigoroso codice morale, bensì con la padronanza delle circostanze contingenti, da affrontare adottando il comportamento adeguato alle necessità del momento specifico.

 

Unico imperativo a cui bisogna sempre obbedire è la tensione continua verso l’elemento teleologico, che consiste nella salvaguardia della posizione conquistata, cioè nel mantenimento del potere finalizzato all’esistenzaduratura dello Stato.

 

Illuminante a tal proposito è il capitolo XXV del Principe (Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum). Dopo aver dimostrato che molti mali subiti dai potentati italiani non sono addebitabili alcapriccio della sorte bensì, in larga misura, all’incapacità dei governanti e all’aver fatto affidamento nelle milizie mercenarie, il Segretario sviluppa qui la sua modernissima idea di Fortuna.

 

La dea bendata condiziona solo in parte l’agire umano, lasciando spazio sufficiente all’azione virtuosa, che, attraverso opportune strategie e con uno sforzo previsionale e precauzionale, può scongiurarne gli effetti devastanti, così come le esondazioni dei fiumi possono essere contenute da argini saldi e ben costruiti. Si badi che per vicere le difficoltà e superare gli ostacoli la Virtù necessita del concorso di occasioniconvenienti e propizie, senza le quali le competenze dell’accorto uomo di governo resterebbero in potenza.

 

Vale anche il discorso inverso: le migliori occasioni sarebbero infruttuose senza un buon politico capace di approfittarne. Una visione, dunque, che non solo sgombrail campo dal principio dell’influenza divina sugli eventi, dimostrando aderenza alla concezione umanistica, ma anche ben si armonizza con il concetto di Virtù, come sopra definita.

 

L’Umanesimo aveva ricollocato in primo piano il valore dell’autàrkeia, mutuato dai classici antichi, armatura protettiva contro la precarietà e la capricciosa mutevolezza degli eventi. È tale padronanza che consente di misurarsi faccia a faccia con la sorte, sfruttando le qualità e le capacità proprie dell’uomo virtuoso e consapevole.

 

Oltre al dominio di sé Machiavelli ritiene necessaria la prudentia, che si configura come strategica accortezza di fronte all’avvicendarsi dei diversi scenari ed esige, per funzionare al meglio, anche una certa abilità previsionale. L’uomo di governo che vuole orientarsi nel modo più efficace rispetto alle contingenze deve saper modulare il proprio modo di agire, imprimendosi un ritmo impulsivo oppure cauto. Nei Discorsi, peraltro, le diverse linee di condotta, nell’un senso e nell’altro, sono incarnate da personaggi concreti (ne sono esempi le figure di Pier Soderini e di papa Giulio II).

 

Rispetto a tale concezione non mancò chi ritenne di prendere le distanze, per esempio Francesco Guicciardini, secondo il quale la Fortuna ha un peso maggiore rispetto alla Virtù, poiché raggiunge i suoi effetti indipendentemente dalle umane condotte.

 

Orbene, è proprio la necessità di dominare gli eventi e di tener conto di tutte le possibili variabili che ricorrono nei casi contingenti, che impedisce a Machiavelli di propugnare la validità assoluta di un sistema politico, universalmente applicabile e adatto a tutte le epoche.

 

Unica certezza è che la politica, intesa come scienza,deve necessariamente avvalersi della conoscenza della storia e di u’adeguata esperienza. Per il resto non si può individuare e definire una forma ideale di governo.

 

In tale ambito il pensiero del Segretario rivela la sua indubbia attualità. Oggi si dibatte sul fatto che neppure la democrazia offre garanzie sufficienti se il popolo non dispone di strumenti efficaci di controllo dell’operato dei suoi rappresentanti e se questi ultimi non si confrontano costantemente con le esigenze collettive.

 

Risulta chiaramente che la Virtù non ha connotati moralistici, poiché non attiene affatto a quello che si dovrebbe fare, in senso etico, poiché per l’uomo di governo ciò significherebbe perseguire piuttosto la ruina che la preservazione sua.

 

La valorizzazione dell’essere rispetto al dover essere, in cui risiede il principio di verità effettuale, segna la netta cesura tra la politica e l’etica, una separazione esasperata da chi, banalizzando il pensiero di Machiavelli, lo sintetizza nella massima “il fine giustifica i mezzi”.

 

Va detto che nell’ottica del Segretario non tutti i mezzi sono accettabili, ma solo quelli necessitati e proporzionati all’elemento teleologico primario. Il ricorso alla violenza, quando è necessitato, rappresentando l’unica soluzione possibile, non deve superare il vaglio della morale e della religione, tanto più che anche quest’ultima è, nell’epoca in cui opera Machiavelli, finalizzata alla conservazione e all’implementazione del potere temporale.

 

Diversa e quasi antitetica sarà la concezione di Erasmo, che successivamente dirà nell’Institutio principis christiani, dedicata a Carlo V: «Bonus princeps non alio animo debet esse in suos cives, quam bonus pater familias in suos domesticos».

 

Il buon capo di governo assume qui le qualità del philosophus Christi, dal che appare evidente il platonismo dellautore.                                                                      

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]