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N. 94 - Ottobre 2015 (CXXV)

Lucrezia e la cacciata dei Tarquini

Una lettura dell’Ab Urbe Condita I 57-58
di Paola Scollo

 

La più antica storia di Roma si è sempre ammantata di miti. Con ogni probabilità, in questi racconti esiste qualche elemento di verità. Secondo la tradizione, dapprima Roma fu governata da quattro re di origine latina, Romolo, Numa Pompilio, Anco Marcio e Tullio Ostilio, poi nel corso del VI secolo da tre sovrani etruschi, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. La fine della monarchia è fissata nel 509 a.C., con la cacciata di Tarquinio il Superbo.

 

Ricostruire questo periodo storico è opera di ampio respiro. Il primo oggettivo ostacolo alle ricerche scaturisce dalla scarsità di fonti: risulta fondamentale consultare le opere di poeti e scrittori, con particolare riferimento a Cicerone, Virgilio, Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso. Preziose sono poi le testimonianze archeologiche, epigrafiche e numismatiche.

 

L’interesse per questo periodo, già vivo nelle prime opere storiografiche, si ripropone in età augustea. E non casualmente. È forte, all’epoca del principato, il desiderio di celebrare la magnitudo, la virtus e i mores dell’originario popolo romano. La storiografia si propone, infatti, di presentare la storia di Roma quale exemplum, modello di riferimento e di ispirazione per la condotta civile e politica, distogliendo lo sguardo sia dai vitia sia dalle violenze delle guerre civili.

 

All’interno della tradizione storiografica romana di età augustea indiscutibile è il ruolo di assoluta centralità svolto da Tito Livio: la sua imponente historia in 142 libri è un mirabile esempio di storia nazionale. Ed è, a un tempo, testimonianza di profondo senso della tradizione. Livio adotta una struttura annalistica: la narrazione ha inizio con la fuga di Enea da Troia per poi concludersi con la morte di Druso in Germania nel 9 a.C. In particolare, spicca la prima decade, dedicata alle vicende mitiche delle origini di Roma e dell’età dei re.

 

Nel delineare lo scenario storico che segna il passaggio dalla monarchia alla repubblica, Tito Livio dedica svariate pagine alla figura di Lucio Tarquinio, ultimo re di Roma, soprannominato il Superbo a causa dell’atteggiamento dispotico.

 

Nell’immagine di Livio, numerose sono state le azioni che hanno reso Tarquinio una sorta di tyrannos greco: vietò esequie per il suocero Servio Tullio; fece uccidere i senatori sospettati di aver favorito l’opera del predecessore; istituì una personale guardia del corpo armata; gestì il governo con la forza, ignorando l’autorità dei patres; difese il potere con il terrore, mostrando chiaro disprezzo per i cittadini; da solo trattò i delitti capitali, mandando a morte, esiliando e privando dei beni i cittadini a lui invisi; ridusse il numero dei componenti dell’ordine senatorio e, primo fra i re, abolì «l’uso, tramandato dai predecessori, di consultare in tutti gli affari il Senato»; amministrò la respublica con consigli privati; senza avvalersi dell’appoggio del popolo e/o del Senato, dichiarò guerre, strinse alleanze e firmò trattati; attuò una politica volta alla realizzazione di grandi opere pubbliche, mettendo a dura prova le finanze del regno; aspirando a intrecciare rapporti di parentela con famiglie straniere, concesse la figlia in sposa a Ottavio Mamilio Tusculano, «di gran lunga il più nobile fra i Latini e discendente da Ulisse e dalla dea Circe» (I 49).

 

Il ritratto di Tarquinio, delineato da Livio, mostra svariate affinità con l’immagine offerta da Dionigi di Alicarnasso (IV 41): si tratta di un terribile e odioso tiranno, giunto al potere grazie all’appoggio del popolo, in aperto contrasto con i patres.

 

Proseguendo nella narrazione, Livio dichiara (II 1): «D’ora in poi tratterò le imprese compiute in pace e in guerra dal popolo romano divenuto libero, le magistrature annue e il potere delle leggi, più potente di quello degli uomini. La superbia dell’ultimo re era stata il più forte incentivo a rendere più gradita la libertà».

 

L’espulsione dei Tarquini e, di conseguenza, degli Etruschi da Roma è alle origini di un decisivo cambiamento istituzionale: il passaggio da una forma di regalità sacra a un regime elettivo di magistrati, il consolato. Dalle parole di Livio emerge chiaramente la responsabilità di Tarquinio nella caduta della monarchia: i tentativi di eliminare lo stato gentilizio generarono un inasprimento dei rapporti, già ostili, tra sovrano e aristocrazia. Di qui il progressivo declino del dominio etrusco, le rivolte dei patrizi, dei popoli italici e degli abitanti delle colonie della Magna Grecia. Furono queste, dunque, le ragioni storiche che determinarono l’avvento della respublica a Roma. Ma c’è di più. Nelle origini di Roma, storia e mito vengono spesso a intrecciarsi. In questa cornice si inserisce la storia di Lucrezia. Secondo Livio (I 57 - 58), infatti, la violenza nei confronti della nobile donna fu l’evento che segnò la fine del regno di Tarquinio il Superbo.

 

La vicenda di Lucrezia si colloca all’epoca dell’assedio di Ardea. La decisione di Tarquinio di espugnare la ricchissima città (divitiis praepollens) dei Rutuli nasceva sia dalla mancanza di risorse, in quanto «il re, impoverito da tante grandiose opere pubbliche, bramava di arricchirsi», sia dal desiderio di placare gli animi esasperati della plebe, «ostile al regno per l’abituale superbia del re e sdegnata dell’essere impiegata in servizi da operai e in fatiche servili» (I 57).

 

Nel corso della guerra «più lunga che aspra», agli ufficiali venivano concesse frequenti licenze; i soldati più giovani, invece, erano soliti impiegare il tempo libero in bevute e conviti. Narra Livio che, casualmente, era presso Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo, anche Tarquinio Collatino, figlio di Egerio. Trovandosi a discutere delle mogli, ben presto sorse una disputa, in quanto «ciascuno, con ardore straordinario, esaltava la propria». Collatino, non volendo dilungarsi nei discorsi, propose di andare a verificare personalmente la superiorità della moglie Lucrezia: «Perché, giovani e vigorosi, non montiamo a cavallo e mettiamo alla prova l’indole delle nostre spose? La testimonianza più evidente sarà in ciò che si presenterà ai nostri occhi, per l’inatteso arrivo del marito».

 

Scaldati (incaluerant) dal vino, si misero in viaggio. Giunti a Roma sul far della sera, proseguirono per Collazia, laddove trovarono Lucrezia «non come le nuore regie, dedite al lusso e ai conviti, ma seduta in mezzo all’atrio, a tarda notte, intenta a filare la lana in compagnia delle ancelle». Collatino, victor della scommessa, decise di invitare a cena i giovani compagni. Stando al racconto di Livio, un’insana libidine (mala libido) di stuprare Lucrezia colse, ad un tratto, Sesto Tarquinio: lo esaltavano, soprattutto, la mirabile castità (spectata castitas) e la bellezza (forma) della donna. «Da quel giovanile notturno svago», i soldati fecero ritorno all’accampamento. In seguito, Sesto Tarquinio si recò nuovamente a Collazia, all’insaputa di Collatino. Mentre tutti riposavano, arso d’amore, si introdusse armato nella camera di Lucrezia, minacciando di ucciderla se avesse osato urlare.

 

Tarquinio «dichiarava il suo amore, la pregava, univa minacce a preghiere, tentava in ogni modo l’animo» (I 58), ma Lucrezia continuava a opporre resistenza. Di fronte a tale risolutezza, l’uomo decise di aggiungere al timore della morte quello del disonore: «disse che, accanto a lei, morta, avrebbe posto uno schiavo nudo strangolato, affinché si dicesse che era stata uccisa in un turpe adulterio». L’ostinata pudicizia di Lucrezia (obstinata pudicitia) fu vinta da violenta libidine (trux libido) mista a terrore. Dopo aver violato l’onore della donna, Tarquinio ferox andò via. Lucrezia, disperata, mandò a chiamare il padre, che si trovava a Roma, e il marito, impegnato nell’assedio di Ardea. Accorsero così Spurio Lucrezio con Publio Valerio, figlio di Voleso, e Collatino con  Lucio Giunio Bruto. Lucrezia in lacrime disse: «che cosa può esservi di bene per una donna, dopo aver perduto l’onore? Collatino, nel tuo letto ci sono tracce di un altro uomo; ma soltanto il corpo è stato violato, l’animo è puro; la morte ne sarà testimone».

 

Svelò quindi l’identità dell’aggressore: «Sesto Tarquinio, giunto qui la notte scorsa come nemico in aspetto di ospite, armato e con la forza si è preso un diletto che sarà funesto per me e per lui, se voi siete uomini». Infine, fece promettere al marito che non avrebbe lasciato impunita la violenza. Dopo aver giurato, Collatino tentò di dissuadere Lucrezia dalla volontà di uccidersi, riversando ogni responsabilità su Sesto Tarquinio: «l’animo non il corpo è colpevole; dove non ci fu consenso non c’è colpa». Ogni tentativo risultò, tuttavia, vano: «Vedrete quale pena gli sia dovuta; io assolvo me dal peccato, ma non mi sottraggo al supplizio; da questo momento in poi, sull’esempio di Lucrezia, nessuna donna vivrà impudica».

 

 Pronunciate le estreme parole, Lucrezia si trafisse il cuore con il pugnale che custodiva sotto la veste. Cadde, morente, sulla ferita da lei stessa inferta. Narra allora Livio che Lucio Giunio Bruto, nipote del re, estratto il pugnale, esclamò: «Per questo sangue, purissimo prima del regio oltraggio, giuro, e vi chiamo come testimoni, che perseguiterò Lucio Tarquinio Superbo, la sua scellerata sposa e tutta la stirpe dei suoi figli con ferro, fuoco e con qualunque forza possibile, né a loro né ad altri consentirò di regnare a Roma» (I 59). Poi, esortava ad abbattere la monarchia. Secondo la testimonianza di Tacito negli Annales (I 1), fu proprio Giunio Bruto l’artefice della rivolta che portò alla nascita del regime di libertà (libertas) e del consolato (consolatus). In un primo momento, Tarquinio il Superbo si precipitò a Roma, deciso a difendere il potere, ma alla fine fu costretto a fuggire in esilio.

 

Rifugiatosi per qualche tempo a Tuscolo, morì a Cuma nel 495. Stando a Livio, Lucio Tarquinio regnò venticinque anni: «Dalla fondazione di Roma alla sua liberazione, il regno era durato duecentoquarantaquattro anni. Furono allora eletti dal prefetto dell’Urbe, nei comizi centuriati, secondo le norme stabilite da Servio Tullio, due consoli: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino» (I 60). Si concluse così la fase del potere dei monarchi etruschi.

 

L’immagine di Lucrezia, intenta a tessere la lana, evoca quella di Penelope: mentre Collatino è impegnato ad assediare Ardea, rimane ad attenderlo a Roma così come Penelope attende pazientemente a Itaca Odisseo, di ritorno da Troia. Penelope possiede tutte le virtù della donna nella società omerica: bellezza, fedeltà al marito, rispetto e obbedienza, saggezza, abilità nelle tecniche. A differenza di Lucrezia, però, Penelope possiede anche astuzia (metis): di fronte alla reggia assediata dai proci, escogita il tranello della tela, fingendo di tessere un sudario per Laerte. E si rivela astuta anche quando decide di mettere alla prova lo straniero che afferma di essere Odisseo (Od. XXIII 177 - 180).

 

Tuttavia, la metis di Penelope, come ha giustamente sostenuto Eva Cantarella, è inefficace: serve soltanto a rinviare un nuovo possibile matrimonio. L’astuzia, infatti, non appartiene al mondo femminile: non è qualità delle donne oneste. Penelope è, prima di tutto, virtuosa: la fedeltà rimane il suo carattere distintivo. La lunga assenza di Odisseo è motivo di dolore e di timore per l’incertezza del destino. Un timore che la solitudine accresce.

 

Penelope soffre e piange di nascosto, in preda ai dubbi (Od. XIX 524 - 529): «Così il mio animo è spinto qua e là per due vie,/ se restare accanto a mio figlio e serbare saldamente ogni cosa,/ i miei beni, le serve e la grande dimora dall’alto soffitto,/ rispettando il letto nuziale e la voce del popolo,/ o seguire, ormai, tra gli Achei, il migliore/ che in casa, offrendo doni infiniti, mi chiede». Infine, decide di risposarsi solo quando ha consapevolezza che Odisseo è vivo. Una decisione che, per alcuni, è espressione di un carattere ambiguo. Ambigua, d’altra parte,  nell’immagine dell’eroe omerico, è la natura delle donne, da cui bisogna sempre diffidare: «Tu sai com’è l’animo di una donna nel petto: vuole arricchire la casa di colui che la sposa,/ non si ricorda e non chiede più dei suoi figli/ di prima e del proprio marito defunto./ Ma tu, quando arrivi, affida ogni cosa/ all’ancella che ti pare migliore di tutte,/ finché gli dei non ti svelano un’illustre compagna» (Od. XV 20 - 26).

 

Domum servavit, lanam fecit, «Vissi in casa, filai la lana»: questa frase, che ricorre frequentemente su iscrizioni funebri, indica la sposa per eccellenza. Non sorprende quindi che Lucrezia sia colta nell’atto di filare la lana: era questa l’attività principale delle matrone.

 

Secondo la legislazione romana, le donne erano sottoposte prima alla tutela del padre, poi a quella del marito o, comunque, del parente maschio più vicino. Solo in qualità di madri, venivano riconosciute quali sociae del padre. Proprio per questa ragione, la storia di Lucrezia suscita fascino.

 

Sulla scia di Penelope, Lucrezia è divenuta leggendaria per la fedeltà al marito. Una fedeltà che paga con la sua stessa vita. Diverso è il destino dell’adultera Elena di Troia. Dopo averla perdonata, Menelao la conduce a Sparta, dove continua a essere regina. E, alla morte, le vengono tributati onori divini. La donna, simile alle dee immortali, per cui Achei e Troiani si fecero guerra per dieci lunghi anni, non è colpevole, ma vittima del caso.

 

Elena, Penelope e Lucrezia: tre donne così diverse e, allo stesso tempo, così simili. Donne che, probabilmente, non sono mai esistite, ma che incarnano valori di virtù, bellezza, devozione.

 

Lucrezia è, forse, il primo personaggio femminile a incidere profondamente sugli equilibri politici dell’antica Roma.

 

La nobile donna, che ha determinato la cacciata dei Tarquini e la fine della monarchia, è divenuta per noi paradigma su cui misurare i concetti di fedeltà, onore e colpa.



 

 

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