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FILOSOFIA & RELIGIONE


N. 107 - Novembre 2016 (CXXXVIII)

nuovo passo nella lotta alla pedofilia nel clero

sul Motu Proprio Come una madre amorevole
di Claudio Gentile

 

Il 4 giugno 2016 Papa Francesco ha compiuto un nuovo passo nella lotta alla pedofilia nel clero, dopo gli energici interventi di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, emanando il Motu ProprioCome una madre amorevole”. Questo nuovo provvedimento nasce a seguito degli scandali scoppiati in varie parti del mondo che hanno visto coinvolti diversi Vescovi accusati di aver “coperto” i sacerdoti pedofili della propria diocesi o di non essere intervenuti abbastanza in fretta in difesa delle vittime.

 

Per il Papa la Chiesa, «come una madre amorevole», deve curare e proteggere «con un affetto particolarissimo quelli più piccoli ed indifesi», dedicando «una cura vigilante alla protezione dei bambini e degli adulti vulnerabili».

 

Con il nuovo testo legislativo, Francesco ha innanzitutto precisato che tra le “cause gravi” per cui il diritto canonico già prevede la possibilità della rimozione dall’ufficio ecclesiastico (cfr. can. 193, § 1 CIC e can. 975, § 1 CCEO) è ricompresa anche «la negligenza dei Vescovi nell’esercizio del loro ufficio, in particolare relativamente ai casi di abusi sessuali compiuti su minori ed adulti vulnerabili».

 

Ci troviamo dinanzi ad una vera e propria interpretazione autentica del Supremo Legislatore della Chiesa. Tale interpretazione, però, ai sensi del can. 16, § 2 CIC («[...] se soltanto dichiara le parole di per sé certe della legge, ha valore retroattivo; se restringe o estende la legge oppure chiarisce quella dubbia, non è retroattiva»), estendendo la valenza della norma, non dovrebbe essere retroattiva.

 

D’altronde finora, per “destituire” i Vescovi accusati di aver “coperto” i propri sacerdoti, è stato utilizzato il can. 401, § 2 CIC (“Il Vescovo diocesano che per infermità o altra grave causa risultasse meno idoneo all’adempimento del suo ufficio, è vivamente invitato a presentare la rinuncia all’ufficio”), che prevede la presentazione volontaria al Papa (magari dopo un severo richiamo ai propri doveri) delle dimissioni da parte del Vescovo sotto accusa e non il can. 193 («§1. Non si può essere rimossi dall’ufficio che viene conferito a tempo indeterminato, se non per cause gravi e osservato il modo di procedere definito dal diritto»).

 

Nei casi in cui si verifichino comportamenti dannosi per la comunità gli articoli del Motu Proprio stabiliscono, per la prima volta, una articolata procedura, così come prevede lo stesso can. 193, al fine di giudicare i comportamenti negligenti e, quindi, giungere alla destituzione dei Vescovi diocesani, degli Eparchi e di coloro che ad essi sono equiparati dal diritto (cfr. can. 368 CIC e can. 313 CCEO).

 

È necessario specificare che tale procedura è strettamente amministrativa e non penale. Infatti, i Vescovi potrebbero anche essere accusati del delitto di “abuso d’ufficio” ex can. 1389 CIC («§1. Chi abusa della potestà ecclesiastica o dell’ufficio sia punito a seconda della gravità dell’atto o dell’omissione, non escluso con la privazione dell’ufficio, a meno che contro tale abuso non sia già stata stabilita una pena dalla legge o dal precetto. §2. Chi, per negligenza colpevole, pone od omette illegittimamente con danno altrui un atto di potestà ecclesiastica, di ministero o di ufficio, sia punito con giusta pena»), ma in tal caso la procedura processuale è già dettagliatamente disciplinata dal Codice e la competenza esclusiva a giudicarli è del Papa ai sensi del can. 1405, § 1 CIC («§1. Il Romano Pontefice stesso ha il diritto esclusivo di giudicare [...] nelle cause penali i Vescovi»).

 

L’art. 1 prescrive che il Vescovo (e quelli ad esso equiparati) «può essere legittimamente rimosso dal suo incarico, se abbia, per negligenza, posto od omesso atti che abbiano provocato un danno grave ad altri, sia che si tratti di persone fisiche, sia che si tratti di una comunità nel suo insieme» (§ 1). Tale danno «può essere fisico, morale, spirituale o patrimoniale».

Il paragrafo 2 puntualizza che il Vescovo «può essere rimosso solamente se egli abbia oggettivamente mancato in maniera molto grave alla diligenza che gli è richiesta dal suo ufficio pastorale, anche senza grave colpa morale da parte sua». Il grado di negligenza diminuisce da “molto grave” a “grave” «nel caso si tratti di abusi su minori o su adulti vulnerabili» (§ 3).

 

Ma veniamo ora alla procedura stabilita dal Papa per la rimozione dei Vescovi, ai quali sono equiparati espressamente anche «i Superiori Maggiori degli Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica di diritto pontificio» (art. 1, § 4), che altrimenti sarebbero stati esclusi in quanto non sovraintendono a delle Chiese particolari.

 

L’articolo 2 prescrive che «in tutti i casi nei quali appaiano seri indizi [...] la competente Congregazione della Curia romana può iniziare un’indagine in merito, dandone notizia all’interessato e dandogli la possibilità di produrre documenti e testimonianze» (§ 1).

 

L’articolo citato descrive, mutatis mutandis, l’inizio di “indagine previa”, disciplinata genericamente dal can. 1717 del Codice di Diritto Canonico.

 

Trovandoci al cospetto di Vescovi diocesani il competente organismo per verificare le accuse non può non essere la Curia Romana, collaboratrice del Papa nello svolgimento del suo supremo ministero di Padre e Pastore della Chiesa Universale.

 

Naturalmente ad indagare deve essere “la competente Congregazione”, la quale è naturaliter individuata dal diritto stesso (cfr. Cost. Ap. Pastor Bonus): le Congregazioni per i Vescovi, per la Propagazione della Fede e per le Chiese Orientali per gli Ordinari delle Chiese di rispettiva afferenza e la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica per i Superiori Maggiori degli Istituti Religiosi.

 

In capo alla Congregazione competente vige l’obbligo di prendere in considerazione “tutti i casi” seriamente fondati che in qualsiasi modo gli pervengono e di valutare l’opportunità di iniziare o meno un’indagine.

 

Se vi è un obbligo di prendere in considerazione tutti i casi non inverosimili, tuttavia non vi è un obbligo di aprire sempre l’indagine in quanto il testo pontificio usa il verbo “può” e non “deve”.

 

Differentemente dal can. 1717 CIC, però, nel caso in cui la Congregazione decida di dar inizio all’indagine, deve darne notizia all’interessato e deve dargli «possibilità di produrre documenti e testimonianze».

Questo obbligo permette di rispettare il principio del diritto alla difesa e di meglio tutelare la posizione del Vescovo indagato, il quale avrà sempre «la possibilità di incontrare i Superiori della Congregazione» (§ 2).

 

Le modalità di difesa del Vescovo sono meglio esplicitate nel § 2: oltre alla già accennata possibilità di incontrare i Superiori della Congregazione, che prenderanno loro stessi l’iniziativa dell’incontro nel caso in cui non lo faccia il singolo Vescovo, vi è la possibilità di utilizzare tutti i mezzi previsti dal diritto (presentare documenti, testimonianze, prove varie, etc.) ed il diritto di avere comunicazioni su tutti i passaggi dell’inchiesta.

 

Il documento tace sulla possibilità di essere assistito da un Patrono e, in caso positivo, su quali requisiti esso debba avere. Credo, tuttavia, come è prassi in tutti i procedimenti canonici, anche extra iudicium, che la presenza di un difensore tecnicamente qualificato non solo sia permessa, ma anche necessaria, anche se la sua nomina deve essere sottoposta al giudizio della Congregazione stessa.

 

Parlando genericamente di Congregazione, il documento non specifica chi possa svolgere e quali requisiti debba avere, l’incarico di “inquisitore” vero e proprio. Pertanto potrebbe essere uno (o più) Membro o Officiale della Congregazione o qualcuno incaricato ad actum dai Superiori del Dicastero, purché idoneo all’incarico e competente nella materia oggetto di indagine. Naturalmente il soggetto inquirente dovrà avere sempre come riferimento i Superiori della Congregazione.

 

Trattandosi comunque di indagini in cui è in gioco la fama di un Vescovo, analogamente a quanto prescritto dal can. 483 CIC, ritengo che sia necessario che colui che svolge l’indagine sia insignito dell’Ordine sacro, salvo esplicite deroghe.

 

Quasi sicuramente sarà doveroso che le indagini si svolgano in tutto o in parte anche nei luoghi dove si son svolti i fatti al fine di poter visionare gli atti ed i luoghi ed ascoltare de visu i testimoni. Non è escluso che possa essere nominato un incaricato in loco, tendenzialmente Vescovo di una diocesi viciniore, o predisposta una speciale “rogatoria”. Sarebbe stato opportuno specificare i poteri dell’inquisitore e le modalità di indagini extra Urbem.

 

Terminata l’indagine e prima di assumere le proprie determinazioni, la Congregazione, oltre a decidere lo svolgimento di un “indagine supplementare” nel caso in cui ve ne fosse la necessità «in seguito agli argomenti presentati dal Vescovo» (art. 2, § 3), può valutare l’opportunità di incontrare anche altri Vescovi appartenenti alla Conferenza Episcopale della quale fa parte il Vescovo (o al Sinodo dei Vescovi della Chiesa sui iuris della quale appartiene l’Eparca) e discutere con loro del caso (art. 3, § 1).

 

Riunita in Sessione Ordinaria, la Congregazione addiviene alla decisione finale.

Oltre alla possibilità di archiviare l’indagine (p. es. per morte o dimissioni del Vescovo), la Congregazione inquirente ha due opzioni: “assoluzione” o “condanna”. Nel caso in cui la Congregazione ritenga che il Vescovo sia stato negligente ha in particolare due scelte: 1) emettere direttamente il decreto di rimozione; 2) esortare fraternamente il Vescovo a presentare la sua rinuncia in un termine di quindici giorni, passati i quali emetterà il decreto di rimozione (art. 4).

 

Il decreto di rimozione, tuttavia, per avere efficacia deve essere sottoposto all’approvazione specifica del Romano Pontefice, unico a poter provvedere alle Chiese diocesane.

Il Papa prima di assumere una qualunque decisione (approvare o non approvare il decreto della Congregazione), «si farà assistere da un apposito Collegio di giuristi, all’uopo designati» (art. 5).

 

Questo particolare “secondo grado di giudizio” automatico, che va ovviamente ad eliminare la possibilità di ricorrere alla Segnatura Apostolica, allenta i timori di una lesione al diritto di difesa del Vescovo “condannato” (che si vedrebbe arrivare un decreto approvato in forma specifica dal Papa e quindi non impugnabile) in quanto vede il suo caso giudicato dalla Congregazione ridiscusso dal Papa e dai giuristi suoi consiglieri. Tuttavia, non è specificato né se il Vescovo condannato verrà messo a conoscenza del decreto emesso nei suoi confronti, né se avrà o meno la possibilità di presentare, ed in che modalità e tempi, le proprie doglianze al Papa e quindi al Collegio dei giuristi affinché ne prendano visione e conoscenza per avere così ulteriori (e “altri”) elementi di giudizio.

 

Ovviamente la decisione ultima presa poi dal Papa è inappellabile.

 

Oltre a quanto già anticipato, restano ancora alcuni dubbi che la prassi e la “giurisprudenza” andranno sicuramente pian piano a dipanare.

 

Un dubbio preliminare riguarda cosa debba intendersi per «negligenza dei Vescovi nell’esercizio del loro ufficio, in particolare relativamente ai casi di abusi sessuali compiuti su minori ed adulti vulnerabili».

 

Il testo specifica che il Vescovo deve aver «posto od omesso atti che abbiano provocato un danno grave ad altri» e che tale danno «può essere fisico, morale, spirituale o patrimoniale». In tale categoria di atti rientrano solo quelli di “copertura” dei sacerdoti pedofili (semplici trasferimenti o modifiche d’incarico per chi ha commesso tali delitti, mancata tutela dei parrocchiani, accoglimento nella propria Diocesi di seminaristi e sacerdoti dediti a tali orrende pratiche, etc.) o anche il non aver dato seguito alle denunce per pedofilia (rectius: violazione dei delicta graviora contra mores) o il non aver svolto le doverose indagini canoniche o per averle “insabbiate” disponendone l’archiviazione?

 

Data la genericità del testo propendo per il far rientrare nelle cause gravi di rimozione ogni tipo di “negligenza”, comprese le mancanze in materia processualpenalistica. Il non aver dato seguito alle denunce, il non aver svolto le opportune indagini o, ancor peggio, l’averle archiviate senza tener conto della verità, infatti, provoca indubitabilmente un «danno grave» agli altri ed in particolare ai minori.

 

È da segnalare al riguardo quanto è stato discusso e proposto dalla Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori ed approvato poi dal Consiglio dei Cardinali per aiutare il Santo Padre nel governo della Chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della Costituzione Apostolica Pastor Bonus sulla Curia Romana, giornalisticamente chiamato “il C9”, nella riunione dell’8-10 giugno 2015 sulla necessità di colmare il vulnus dell’assenza di norme nell’ordinamento canonico in materia di accountability dei Vescovi istituendo (rectius: esplicitando o ridefinendo) il delitto di “abuso d’ufficio episcopale” consistente nell’inadempienza nello svolgere le indagini per i delitti cum minore (ricordo che il can. 1389 CIC già prevede e punisce con la destituzione il generico delitto di “abuso d’ufficio”). Tale proposta, secondo quanto riferito dalla Sala Stampa della Santa Sede, era stata approvata anche dal Papa. Non si è quindi ben capito se il Motu ProprioCome una madre amorevole” si sostituisca o si aggiunga all’iniziativa della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori.

 

Se il Motu Proprio dovesse essere la soluzione definitiva da una parte evita di instaurare il più garantista giudizio penale, dall’altra permette di intervenire per tutte le varie tipologie di “mancanza” d’intervento a tutela dei minori e non solo quelle processuali.

 

Il progetto prevedeva nello specifico che a ricevere ed esaminare le denunce per il delitto di abuso d’ufficio episcopale (fase dell’indagine previa) dovevano essere le competenti Congregazioni (per i Vescovi, per l’Evangelizzazione dei Popoli o per le Chiese Orientali), mentre alla Congregazione per la Dottrina della Fede, specializzata nei delitti cum minore, su mandato del Papa, spettava giudicare penalmente i Vescovi. Per fare ciò veniva autorizzata l’istituzione di una nuova Sezione Giudiziaria, sotto le direttive di uno specifico Segretario ed utilizzabile anche per i processi penali per l’abuso dei minori e degli adulti vulnerabili da parte del clero, all’interno della Congregazione per la Dottrina della Fede e la nomina di personale stabile.

 

Ricordo che la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori è stata istituita dal Papa nel 2014 con il Chirografo Minorum tutela actuosa «con lo scopo di offrire proposte e iniziative orientate a migliorare le norme e le procedure per la protezione di tutti i minori e degli adulti vulnerabili».

 

Le differenze tra i due testi sono evidenti: in quello della Pontificia Commissione si prevede un nuovo delitto canonico, si dà la competenza di indagine alle competenti Congregazioni e quella di giudizio ex delegatione alla Congregazione per la Dottrina della Fede, già competente in tutti i casi di delitti contro la fede e delitti più gravi nella celebrazione dei sacramenti e contro i costumi; nel testo del Motu Proprio, invece, non si istituisce alcun delitto, ma si specifica la giusta causa per la rimozione (amministrativa) dall’ufficio – prevedendo la relativa procedura - e si lascia la competenza di indagine e giudizio alle varie Congregazioni (estendendo il tutto anche ai Superiori Religiosi ed alla rispettiva Congregazione).

 

Il primo dei dubbi sull’attuale Motu Proprio riguarda la discrezionalità che ha la competente Congregazione sia nel valutare che vi siano “seri indizi” di negligenza sia – soprattutto – nel decidere di iniziare o meno l’indagine nei casi in cui ve ne siano.

 

Ovviamente, una scelta di tal genere è stata fatta per non oberare le Congregazioni di indagini ed evitare che si debba intervenire sulle più disparate denunce che potrebbero arrivare. Ma in base a quali elementi la Congregazione (e tendenzialmente il Congresso) prenderà la decisione di avviare (o non avviare) l’indagine? Sarebbe stato opportuno – salvo un giudizio preliminare di verosimiglianza delle accuse come previsto dall’art. 16 delle Normae sui delicta reservata (cfr. M. P. Sacramentorum sanctitatis tutela) - prevedere di iniziare sempre l’indagine e decidere il da farsi al termine della stessa con l’emanazione di un decreto di archiviazione debitamente motivato.

 

Un secondo dubbio è sulla modalità di valutazione di quanto è stato collazionato dall’inquisitore. Gli atti e le testimonianze raccolte sono da ritenersi prove piene solo se viene rispettato il principio del contraddittorio, senza cioè aver permesso all’accusato di prenderne visione e difendersi con prove contrarie. In caso contrario resterebbero collecta elementa, senza alcuna dignità di prova piena. Il documento pontificio non specifica cosa avviene nel caso in cui il Vescovo non prende visione delle prove e dei documenti e/o non si difende.

 

Un terzo dubbio riguarda, invece, le tempistiche: entro quanto la Congregazione deve iniziare e concludere l’indagine? Può pensarsi ad un periodo passato il quale viene meno l’interesse a “perseguire” il Vescovo, come una sorta di “prescrizione”? Il rischio di non indicare nessun tempo massimo è che si potrebbero ingenerare lungaggini (contrarie al diritto di difesa) e, perché no, favoritismi.

 

Il quarto dubbio riguarda il “collegio dei giuristi” che affiancherà il Papa nei giudizi definitivi. Oltre a quanto già detto sopra, il testo pontificio non specifica se questi giuristi opereranno in maniera stabile o saranno nominati di volta in volta, così come se si pronunceranno oltre che sulla legittimità anche sul merito.

 

Nulla viene detto, inoltre, sulle modalità del loro lavoro. In particolare né quanti saranno, né se si riuniranno in “turni” o tutti insieme, né se predisporranno un voto collegiale o singolo. Resta, infine, la scelta di fondo dei provvedimenti di questo ultimo periodo: l’abbandono della più garantista via giudiziale e l’utilizzo della via amministrativa non impugnabile a causa della decisione pontificia finale.

 

Va detto, tuttavia, che i Vescovi negligenti (e non solo per aver coperto gli abusi, ma anche per mancanze pastorali, economiche, etc.) sono stati e già ora vengono sostituiti dai Papi utilizzando metodi “snelli” ed in maniera non proceduralizzata (eventuale inchiesta di un Visitatore Apostolico, intervento d’autorità del Papa, etc). Questo provvedimento, pertanto, è quanto mai utile nel dare certezza al diritto e nel garantire l’essenziale diritto di difesa, anche se sarebbe stato opportuno e più utile disciplinare meglio e più nel dettaglio tutti i vari passaggi della nuova procedura senza lasciare nulla al caso o alla prassi.



 

 

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