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                          N. 40 - Aprile 2011 
                          
                          (LXXI) 
															
															
															LISBONAIl mistero di una 
															città
 
															
															di Giulia Gabriele 
															  
						«(…) Linea severa della 
						riva remota:quando la nave si approssima, s’alza la costa
 in alberi ove la lontananza nulla aveva;
 più vicino, s’apre la terra in suoni e colori:
 e, allo sbarco, ci sono uccelli, fiori,
 ove era solo, di lontano, l’astratta linea (…)»
 (Fernando Pessoa - Orizzonte)
 
						  
						E mentre la nave diventa 
						aereo, tutto il resto si appresta a rimanere immobile 
						nella mente dei moderni viaggiatori. Suoni, fiori… nulla 
						manca all’appello. Lisbona sorride al nuovo venuto e, 
						con circospezione, l’accoglie. Il primo impatto è 
						particolare: i marciapiedi sono tutti lastricati e le 
						strade fiancheggiate dalle palme. E l’odore è quello 
						dell’Oceano, il mare lo si è lasciato alle spalle. La 
						città è bella, pulita, ordinata e colorata. Ma si porta 
						dentro una sensazione, una nota distorta che solo il 
						passar del tempo e uno sguardo poco più che fugace 
						potranno, inevitabilmente, rilevare. 
 Negli occhi della gente si legge un sentimento nuovo, 
						che raramente si incontra così all’improvviso e 
						persistentemente. Sembra un misto tra orgoglio e 
						malinconia. Forse non ha ancora un nome, ma è quello che 
						trasmette Lisbona e magari, chissà, anche il resto del 
						Portogallo. Per le strade, nella metropolitana e nei 
						negozi ci sono sguardi persi nel vuoto, mani che cercano 
						un senso, desideri che si spengono nel grigio del cielo 
						in tempesta. C’è un popolo fiero della sua storia, ma 
						allo stesso tempo che si lascia trascinare via 
						dall’indifferenza. Colorano edifici e strade, ma non le 
						loro anime. Sorridono, ma subito dopo quasi se ne 
						pentono.
 
 
						«(…) Sento che niente 
						sono, se non l’ombradi un volto imperscrutabile nell’ombra:
 e per assenza esisto, come il vuoto.»
 (Fernando Pessoa – Furtiva mano di un fantasma 
						occulto)
 
						All’inizio ci si potrebbe stupire di non vedere i 
						cosiddetti homeless, ma poi si capisce che si nascondono 
						in mezzo alle persone e che spesso non sono nemmeno così 
						soli o davvero senza un posto dove rifugiarsi, ma 
						semplicemente ubriachi, per dimenticare non si sa quale 
						dolore o rimpianto. Non se ne stanno buttati ai cigli 
						delle strade, al massimo seduti sulle scale delle 
						chiese, e hanno ancora un po’ di amor proprio e 
						orgoglio. Sono discreti e non chiedono niente: aspettano 
						che sia tu ad avvicinarti e a regalare loro un sogno se 
						puoi. Sono affranti, schiacciati da una vita che non 
						volevano, chiusi in una città che sembra aver perso la 
						leggerezza… o forse è solo la pioggia, amica di chi non 
						vuole piangere da solo.
 
 Si può scoprire, volendolo, una bellezza diversa da 
						quella italiana: manca lo sfarzo dei nostri marmi e la 
						luce che passa dalle nostre grandi vetrate, manca la 
						solennità del nostro passato che aleggia sempre vivo per 
						le strade e la grandezza dei nostri artisti, ma in 
						compenso loro hanno la potenza dei bronzi e il rigore 
						delle pesanti pietre usate per costruire le chiese, 
						elementi che fusi insieme al suono dell’organo, creano 
						un’atmosfera profondamente religiosa, di raccolta, di 
						rispetto e intima. E poi c’è tutto il profumo del Medio 
						Oriente nelle architetture tipicamente arabe e nel 
						sapore di alcuni cibi, che noi non abbiamo nelle nostre 
						memorie.
 
						«(…) Ad ogni rintocco tuo,
 vibrante nel cielo aperto,
 è più remoto il passato,
 più urgente la nostalgia.»
 (Fernando Pessoa – Campana del mio villaggio)
 
 
						Tre posti che rimangono 
						nel cuore per la loro storia e tradizione possono 
						essere, ad esempio, il quartiere dell’Alfama, l’antico 
						borgo moresco che un tempo costituiva la vera e propria 
						città di Lisbona, che affascina con i suoi 
						caratteristici vicoli e dove si può ancora sentire nei 
						bar suonare il fado, la malinconica musica portoghese; 
						il quartiere di Belèm (contrazione di Betlehem), dove 
						rimane sicuramente più impresso lo stile gotico a tema 
						nautico detto Manuelino (da re Manuel I), con la sua 
						Torre che sovrasta il fiume Tago, che fu faro e 
						fortezza.  
						  
						A livello culinario, 
						imperdibili sono i Pastéis de Belèm (ovvero i 
						‘Pasticcini di Belèm’), magari mangiati seduti in un 
						tipico bar della zona, con il profumo della cannella che 
						aleggia a suo agio per tutto il locale e, infine, la 
						punta più occidentale d’Europa: Cabo da Roca. Una magia 
						fatta di oceano, vento e parole che si perdono nelle 
						onde e in chi, fingendosi navigatore, vorrà solcare 
						quelle acque con l’immaginazione: «Aqui... Onde a terra 
						se acaba e o mar começa...», perché al di là di quella 
						roccia finiva il Mondo. 
 In realtà, parlando di Lisbona, ci sarebbero molte altre 
						meraviglie da descrivere e far amare, ma forse è più 
						giusto lasciare ad ogni sognatore-viaggiatore la gioia 
						di scoprirle. Perché questa è una di quelle città che 
						non tutti amano allo stesso modo, di cui non tutti 
						colgono lo stesso scorcio o lo stesso riflesso 
						dell’anima. È una città che si apre agli occhi di chi la 
						guarda, in modo multiforme e contraddittorio. Può esser 
						nulla come tutto. È un mondo profondamente diverso da 
						quello italiano, eppure così vicino.
 
						  
						Le sue sono meraviglie che 
						risvegliano la fantasia, che, forse, noi dalle nostre 
						coste potremmo ritrovare solo in quella che fu la Magna 
						Grecia, negli abissi della Sicilia più mediterranea e 
						calda, profumata di sole e agrumi. O magari no… perché 
						ogni storia, ogni musica e ogni sapore, in fondo, è un 
						viaggio a sé.  
						«Non fluì dalla strada del nord
 né dalla via del sud
 la sua musica selvaggia per la prima volta
 nel villaggio quel giorno.
 Egli apparve all' improvviso nel sentiero,
 tutti uscirono ad ascoltarlo,
 all’improvviso se ne andò, e invano
 sperarono di rivederlo.
 La sua strana musica infuse
 in ogni cuore un desiderio di libertà.
 Non era una melodia,
 e neppure una non melodia.
 In un luogo molto lontano,
 in un luogo assai remoto,
 costretti a vivere, essi
 sentirono una risposta a questo suono.
 (…)
 Così come venne andò via.
 Lo sentirono come un mezzo-essere.
 Poi, dolcemente, si confuse
 con il silenzio e il ricordo.
 Il sonno lasciò di nuovo il loro riso,
 morì la loro estatica speranza,
 e poco dopo dimenticarono
 che era passato.
 Tuttavia, quando la tristezza di vivere,
 poiché la vita non è voluta,
 ritorna nell' ora dei sogni,
 col senso della sua freddezza,
 improvvisamente ciascuno ricorda -
 risplendente come la luna nuova
 dove il sogno-vita diventa cenere -
 la melodia del violinista pazzo.»
 
						(Fernando Pessoa – Il 
						violinista pazzo) 
						E poi, quasi a mo' di sottofondo melodico attraverso 
						tutto un percorso, le parole di un poeta a suggellare il 
						patto tra antichità e presente, tra uomini e terra, tra 
						malinconie e sogni. Alla fine un mistero, quello di un 
						oceano che lambisce costantemente le coste di un paese, 
						il Portogallo, e di una città, Lisbona, con nel cuore 
						un’eterna ambiguità di sorrisi e apatie.
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