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filosofia & religione


N. 50 - Febbraio 2012 (LXXXI)

libertà di religione nella Regione Autonoma del Tibet
ingerenze cinesi

di Giuseppe Cursio

 

Secondo il governo di Pechino, l’attività spirituale del Dalai Lama alimenta forti spinte secessionistiche per l’indipendenza del Tibet che minano l’integrità politico-territoriale del "Paese del Centro".

L’articolo 8 della Costituzione italiana stabilisce che "le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge"; in altre parole, ognuno è libero di professare la propria fede religiosa purché ciò avvenga nel rispetto dell’ordinamento vigente. Quella europea riafferma, nella sostanza, lo stesso principio (… libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti., - CAPO II, La Libertà, art. 10-).


In alcune parti del mondo, invece, non c’è alcuna tolleranza verso chi professa una fede diversa da quella che definiremmo «nazionale», soprattutto nei paesi islamici. È il caso dell’Iran dell’ayatollah Ali Khamenei, in Medio Oriente. Inoltre vi sono alcune comunità religiose di etnia diversa in perenne conflitto tra di loro per motivi principalmente economici, politici o territoriali; e non, come potremmo aspettarci, per asserire la superiorità di un credo o allo scopo di far prevalere in magnificenza il proprio Dio. Si potrebbe pensare, ad esempio, alla lotta armata tra cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord oppure al Sudan noto per le lotte fratricide che coinvolgono musulmani, animisti e cristiani.


Il problema della libertà di religione riguarda anche la Cina (o Repubblica Popolare Cinese) dove suore e monaci buddisti continuano a immolare la propria vita, spesso dandosi fuoco. Il governo di Pechino considera il loro martirio un atto insurrezionale-sovversivo che minaccia l’integrità politico-territoriale del Paese. L’attività spirituale del XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, considerato la rincarnazione del Buddha Avalokiteshvara e insignito nel 1989 del Premio Nobel per la Pace per aver cercato di attirare l’attenzione internazionale sulla "questione tibetana", -e che dopo la sommossa nella capitale tibetana (Lhasa, 10 marzo 1959) vive in esilio a Daramsala, una città che si trova nello Stato indiano di Himachal Pradesh-, avrebbe come obiettivo principale la costituzione dello Stato indipendente del Tibet. Himachal Pradesh


Al fine di porre un deciso freno a qualsiasi "ambizione indipendentista" dei tibetani, il governo di Pechino, da una parte, cerca di limitare i viaggi all’estero del Dalai Lama per incontrare leader politici o altri religiosi e ottenere il sostegno internazionale alla causa tibetana, - ultimamente il governo del Sudafrica gli ha negato il visto a causa delle pressioni economiche della Cina (The Guardian, 27 settembre 2011) -, dall’altra, continua sull’onda del successo economico a incoraggiare la migrazione di cinesi di etnia Han che rappresentano circa l’8% della popolazione del Tibet (policies of state-encouraged immigration). E con il trascorrere degli anni, i tibetani, pur costituendo il 90% della popolazione nativa, - sono più di tre milioni quelli che vi risiedono stabilmente secondo alcune stime ufficiali (Xinhua, 4 maggio 2011), potrebbero diventare una sparuta minoranza. Anche agli Uiguri dello Xinjiang e agli abitanti della Mongolia Interna, altre minoranze etniche impegnate nella lotta per l’autonomia nazionale, è negato il diritto della libertà di religione, della libertà culturale e della libertà di espressione e associazione.


Alcuni studiosi ritengono che le pressioni economiche internazionali (economic coercion) potrebbero indurre il governo di Pechino ad abbandonare la sua politica repressiva. Ma l’adozione di sanzioni commerciali contro la Cina da parte degli Stati Uniti e dei paesi occidentali per la violazione dei diritti umani potrebbe sortire un effetto contrario come nel caso di Cuba e della Corea del Nord, finendo per rinvigorire il nazionalismo cinese e impedendo che sia invece lo sviluppo economico il vero fondamento della sua trasformazione democratica.


Dal 1951 l’Altopiano del Tibet, da sempre abitato dai tibetani, è sotto il controllo militare e politico cinese. Il suo territorio è ricco di risorse minerali; dal litio alla cromite ad alcuni metalli preziosi come l’oro e l’argento. Inoltre Mao Zedong, il Grande Timoniere, lo considerava una zona di sicurezza, una sorta di “buffer zone” al confine con l'India, con la quale la Cina combatté una breve guerra nel 1962.


La parte occidentale di esso, - amministrata dal governo di Lhasa durante gli anni ’40 e conosciuta con il nome di Regione Autonoma del Tibet (TAR) -, è quella socialmente e politicamente più instabile. Nel corso delle Olimpiadi di Pechino (2008), in particolare, ci furono grandi proteste dei tibetani che costrinsero il governo cinese a isolarla dal resto del mondo, seppur temporaneamente.

Una soluzione del problema tibetano sembra, oggi, lontana poiché il binomio libertà di religione e indipendenza politico-territoriale appare inscindibile. Nella Città Proibita, infatti, ogni trasformazione sociale o politica che riguardi la Regione Autonoma del Tibet è considerata una seria minaccia per la sovranità nazionale.



 

 

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