[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 151 / LUGLIO 2020 (CLXXXII)


contemporanea

SULLA RIFORMA AGRARIA IN LETTONIA

PERIODO INTERBELLICO / PARTE III

di Andrea Cecchini

 

Nel 1929 il governo raggiunse un importante accordo risarcitorio con la vicina Polonia. La Lettonia, infatti, versò nelle casse di Varsavia una somma riparatoria pari a cinque milioni di lats per i danni patrimoniali cagionati ai cittadini polacchi in seguito al varo della riforma. Il 15 marzo 1929 la Corte di Cassazione disponeva inoltre che «gli antichi proprietari delle terre che furono espropriati a causa della legge sulla riforma agraria, possono rivolgersi ai tribunali civili per sostenere le loro ragioni e ottenere in restituzione quei lotti di terreno che erano stati loro tolti in forma irregolare».

 

Questa disposizione determinò una vasta ondata di proteste, innescando al contempo un’importante frattura istituzionale. Celmiņš, infatti, sottolineò la «necessità di presentare alla Saiema un progetto di legge, il quale stabilisse che non i tribunali civili fossero competenti a regolare le questioni concernenti l’esecuzione della riforma agraria, ma gli organi amministrativi dello Stato». Nel frattempo, il deputato Firks, rappresentante della fazione balto-tedesca, minacciò di ritirare il sostegno all’esecutivo qualora la coalizione avesse invalidato la sentenza emessa dalla Cassazione.

 

Augusto Stranieri, allora ambasciatore italiano a Riga, riferisce che «togliere a un proprietario la facoltà di difendere i propri diritti dinnanzi ai tribunali, significa svellere i cardini del diritto civile. Possiamo da questi elementi desumere come la questione della riforma agraria non sia morta, ma sempre viva e costituirà sempre il muro divisorio fra lettoni e baltici tedeschi».

 

Lo schieramento tedesco alla Camera rappresentava un sicuro baluardo a difesa della minoranza teutonica stanziata nel Paese, configurandosi allo stesso tempo come un importante fattore in grado di influenzare le sorti e gli scenari politici nazionali. Nel marzo 1931 l’esecutivo Celmiņš, dilaniato dalle acerrime contrapposizioni interne, si dimise.

 

Fu allora Kārlis Ulmanis ad assumere l’iniziativa. Il leader unionista avviò complesse consultazioni con tutti i gruppi parlamentari che avevano costituito l’uscente sodalizio governativo, riuscendo così a dar vita a un esecutivo nazionale di transizione. Questi frequenti rivolgimenti interni ebbero degli effetti profondamente negativi sul Paese baltico, rendendo impossibile l’elaborazione di un progetto riformatore organico capace di rinnovare l’intero apparato economico-produttivo, duramente colpito dalle catastrofiche conseguenze finanziarie prodotte dalla crisi globale del ’29.

 

Questa congiuntura negativa determinò la contrazione dei consumi, il calo vertiginoso della produzione e l’aumento del tasso di disoccupazione. Il presidente del consiglio Ulmanis era addirittura ricorso alla leva del protezionismo attraverso imponenti sbarramenti doganali per arginare l’eccessivo afflusso di merci provenienti dall’estero. Le elezioni parlamentari del 3-4 ottobre 1931 avrebbero prodotto ben altri risultati, segnando l’inizio di una nuova intensa stagione politica.

 

I risultati elettorali accrebbero ulteriormente i dissapori tra le differenti correnti parlamenti, incapaci di formulare risposte adeguate ai bisogni di una società divisa e ormai insofferente di fronte all’imperante corruzione che pervase i gangli vitali dell’intero sistema politico. L’estrema frammentazione della rappresentanza parlamentare si configurò come un elemento centrale per il mancato consolidamento del quadro istituzionale, costituendo al contempo il fattore chiave alla base dell’instabilità politica del Paese. Verso la fine del 1931 Marģers Skujenieks, che nel frattempo aveva riconsiderato le posizioni concettuali delle origini, costituì il cosiddetto “ministero borghese nazionale”.

 

L’esecutivo elaborò una serie di interventi emergenziali per tentare di risanare il circuito finanziario e contenere la dilagante crisi economica che aveva prodotto effetti profondamente negativi soprattutto a livello sociale. Queste misure prevedevano il risanamento della bilancia commerciale, il rilancio della produzione nazionale, il contenimento del tasso di disoccupazione nonché divieti e limitazioni sulle merci provenienti dall’estero. Le severe disposizioni varate dal “ministero borghese nazionale” non sortirono alcun beneficio ma, anzi, aggravarono ulteriormente lo scenario economico come testimonia l’aumento dell’inoccupazione, il deprezzamento delle derrate agricole e la carenza di liquidità.

 

Numerosi istituti creditizi furono travolti da scandali finanziari e fallimenti. All’inizio del 1933 il gabinetto Skujenieks, lacerato dalle divisioni interne, fu costretto alle dimissioni lasciando via libera al governo al leader dell’Unione dei nuovi contadini Ādolfs Bļodnieks. Il nuovo governo iniziò a varare una serie di decreti leggi utilizzando come pretesto l’articolo 81 della Carta Costituzionale. Furono perciò colpite numerose organizzazioni e associazioni politiche operanti a livello locale. I deputati appartenenti alla cosiddetta Unione professionale di sinistra (comunisti) furono arrestati e puniti con gravi pene detentive. Le restrizioni introdotte lasciavano in qualche modo presagire un imminente cambiamento dell’ordine costituito.

 

Vennero inoltre promulgati una serie di imponenti provvedimenti volti a colpire coloro che avessero offeso, per mezzo di articoli o riunioni non autorizzate, gli esponenti del governo. Tali decreti furono adottati anche grazie all’occulta attività svolta da Ulmanis, il quale si prodigò affinché venisse elaborata una riforma costituzionale in grado di limitare l’influenza esercitata dai numerosi partiti e garantire così maggiore solidità alla compagine governativa incaricata. I contrasti economici interni alla coalizione Bļodnieks spinsero lo stesso Ulmanis a presentare una mozione di sfiducia nei riguardi dell’esecutivo.

 

Il testo, approvato all’unanimità dal Parlamento, sancì l’inizio di una nuova fase storica per la Lettonia. È proprio in quel complesso turbinio di eventi e transizioni governative che Ulmanis attuò, grazie al sostegno della milizia Aizargi e della polizia politica, il suo illiberale colpo di Stato. Il 15 maggio 1934 il leader unionista sciolse il Parlamento, sospese la Costituzione, liquidò le opposizioni e limitò drasticamente la libertà di stampa.

 

Il golpe si configurò come un radicale punto di svolta capace di imprimere una sferzata decisiva all’intero sistema, segnando quel passaggio epocale dalla cosiddetta “dittatura parlamentare”, caratterizzata dall’eccessivo centralismo decisionale delle singole formazioni partitiche, a un deprecabile autoritarismo imposto dal singolo. Nel complesso, dunque, i numerosi esecutivi avvicendatisi durante l’Età del parlamentarismo non seppero proporre un disegno organico di Stato né tantomeno promuovere un lungimirante programma di sviluppo che tenesse conto delle esigenze della collettività.

È proprio all’interno di questo intricato scenario che la questione agraria divenne elemento chiave della nuova politica governativa. Il Vadonis, massimo depositario delle tradizioni e dei valori del mondo rurale, riuscì a portare a compimento la riforma nel 1937 indirizzando maggiori risorse finanziarie verso il settore agricolo. Sotto la guida autoritaria di Ulmanis, i contadini si sentivano “protetti” e tentarono perciò di sviluppare un certo senso di fiducia nei propri “mezzi imprenditoriali”. Una riforma “strisciante e pluriennale” che aveva condizionato la stabilità dell’intera impalcatura istituzionale destando, come visto, molto scalpore a livello internazionale.

 

Restano inoltre numerosi dubbi e interrogativi sull’intera querelle risarcitoria: in particolare se lo Stato sia riuscito o meno a definire e a dirimere l’annosa diatriba relativa agli indennizzi espropriativi. Proprio su questo tema la documentazione in nostro possesso sembra inspiegabilmente interrompersi, non offrendoci dunque l’opportunità di riempire quel vuoto lasciato dalla storiografia. Appare evidente che la maturazione di questa vocazione imprenditoriale essenzialmente agricola abbia avuto delle palesi ripercussioni sull’intero sistema produttivo nazionale, condizionando la crescita e lo sviluppo di settori strategici alternativi. In Lettonia, durante tutto il corso del ventennio interbellico, il numero complessivo delle fattorie crebbe sensibilmente passando dalle 141.723 unità del 1920 alle 275.698 del 1935. È indubbio che la riforma abbia creato un vasto strato di proprietari contadini medio-piccoli ma è altrettanto vero che la loro impreparazione tecnica e la carenza di risorse finanziarie investibili abbiano rappresentato un grave limite per il tanto agognato “balzo in avanti”.

 

I modesti risultati raggiunti attraverso la progressiva implementazione della riforma furono in gran parte vanificati in seguito alla stipula del patto Ribbentrop-Molotov, siglato il 23 agosto 1939. La Lettonia fu infatti costretta a sottoscrivere con Mosca un accordo di mutua assistenza (5 ottobre 1939) che permise alle unità militari sovietiche di impiantare basi d’appoggio sul territorio della Repubblica baltica.

 

Si trattava di un’occupazione “silente” e pianificata in ogni singolo dettaglio. Una volta terminata la guerra d’inverno contro la Finlandia, Stalin poté concentrare le sue energie «sull’anello baltico». Verso la metà del giugno 1940 il governo di Riga, ormai pressato dalle ingiunzioni provenienti da Mosca, dovette rinunciare definitivamente all’esercizio delle sue prerogative. Le nuove elezioni del 14-15 luglio 1940 si svolsero sotto l’egida dei dirigenti sovietici e il ricostituito Partito comunista riuscì perciò a imporsi come unico attore politico sulla scena nazionale.

 

Il 21 luglio 1940 il nuovo esecutivo Augusts Kirchenšteins proclamò la nascita della Repubblica socialista di Lettonia la quale, il 5 agosto ‘40, divenne parte integrante della rigida struttura amministrativa sovietica. Una volta completato il processo annessionistico, la classe dirigente comunista avviò un massiccio processo di sovietizzazione che non a caso investì anche il settore agricolo.

 

La rigida ortodossia stalinista imponeva difatti la cosiddetta collettivizzazione forzata delle campagne: le terre con un’estensione superiore ai 30 ettari furono requisite e ovunque vennero create le famigerate fattorie collettive (Kolchoz). La riforma elaborata dalla Costituente nel settembre 1920 appariva ormai un lontano ricordo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

S. Bottoni, Un altro novecento. L’Europa orientale dal 1919 ad oggi, Carocci Editore, Roma 2011.

F. Guida, L’altra metà dell’Europa. Dalla grande guerra ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 2015.

M. Kalnins, Latvia, a short history, Hurst e company, London 2015.

A. Plakans, The Latvians, a short history, Hoover institution press publication, Stanford 1995.

A. Plakans, C. Wetherell, The agrarian reform in Latvia: historical context, The national council for Soviet and Eastern European research, Massachusetts Avenue, N.W. Washington, D.C . 20036, 1996.

A. Plakans, A.Purs, Historical dictionary of Latvia, Lanham, Rowman e Littlefield, 2017. 

A. Tamborra, L’intesa baltica, Varese, Industrie grafiche Amedeo Nicola e c., 1934.

R. Tuchtenhagen, Storia dei paesi baltici, Bologna, il Mulino, 2008.

Archivio Storico Diplomatico Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionale, serie affari politici 1919-1930, Lettonia, buste 1389 – 1390 – 1391.  

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]