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N. 30 - Novembre 2007

Che cos'è il realismo socialista?

Sinjavskij e la letteratura teleologica

di Stefano De Luca

 

Nel saggio Che cos’è il realismo socialista? lo scrittore sovietico dissidente Andreij Sinjavskij svelò in modo molto efficace, negli anni Sessanta, la natura teleologica dell’arte e della letteratura “ufficiali” (esisteva infatti l’arcipelago del samizdat, le auto edizioni non sottoposte al vaglio della censura e per questo clandestine) in Unione Sovietica.

 

Il realismo socialista ha, secondo il noto dissidente, natura dialettica, conosce l’insegnamento di Marx e “nel descrivere la realtà presente, sente il cammino della storia e lancia un’occhiata all’avvenire; scorge i ‘tratti visibili del comunismo’, invisibili all’osservatore comune”. Esso ha uno scopo, chiaro e definito, il comunismo.

 

“Il poeta non scrive soltanto versi, ma attraverso essi aiuta l’edificazione del comunismo”. L’arte sovietica è teleologica, in quanto subordinata allo scopo, al fine supremo, ma ciò risulta in contraddizione con la tolleranza.

 

Al pari essa “non è compatibile con lo storicismo, cioè con la tolleranza di fronte al passato”, perché “si riduce al tentativo d’identificare la vita (e la storia) col suo movimento verso il comunismo”.

 

Ma il rincorrere lo scopo ha avuto un suo prezzo, ha imposto dei sacrifici: “perché le prigioni sparissero, ne abbiamo costruite di nuove; perché il lavoro diventasse in avvenire un riposo e un piacere, abbiamo inventato i lavori forzati; perché non si versasse più una goccia di sangue, abbiamo ucciso e ucciso senza sosta”.

 

Come l’inquisizione medievale aveva allontanato l’uomo da Dio, così le violenze causate dal perseguimento del fine avevano allontanato la società sovietica dall’ideale del comunismo.

 

In un clima di così netta costrizione, solo un fermo credente nel sistema poteva svolgere la sua attività artistica tranquillamente, poiché “per un artista che serve fedelmente il suo popolo, non si tratta di sapere se è libero o no nella sua creazione. La questione non si pone nemmeno: un tale artista sa perfettamente come affrontare i fenomeni della realtà; […] rappresentare fedelmente la realtà secondo le sue convinzioni comuniste è un’esigenza della sua anima”.

 

Egli segue così le direttive del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e del suo primo segretario, poiché sono loro a dirigere la società verso il comunismo. Il capo, ossia Stalin, viene definito Grande Sacerdote, perché “dubitare delle sue parole”, per un credente comunista, “è un peccato grave come dubitare della volontà del Creatore”.

 

Dal discorso di Sinjavskij si comprende come, per tutti gli scrittori che non avevano ben salda la fede nel comunismo, le alternative erano ben poche: andarsene dall’URSS (cosa tutt’altro che semplice), smettere di scrivere, adeguarsi strumentalmente a ciò che era imposto o continuare a seguire nella creazione solamente la propria coscienza, in quest’ultimo caso con la sicurezza quasi matematica che si sarebbe incorsi nella severa repressione del regime.

 

Quest’ultima opzione era sicuramente quella più audace e rischiosa, non venne percorsa da un numero troppo elevato di persone ma coloro che lo fecero dimostrarono, oltre ad una buona dose di coraggio, anche una coerenza intellettuale degna di lode.

 



 

 

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