LETTEratura italiana e industria
cinematografica
linguaggi a confronto / II
di Alessandra
Olivares
Giovanni Verga e la sua ambigua
relazione con i cinema
Giovanni Verga, l’autore più
importante del Verismo, ebbe
rapporti continuativi con il cinema,
anche se con un atteggiamento
completamente diverso da quello di
D’Annunzio, mostrando il riserbo di
chi si avvicina ad ambiti
considerati “compromettenti” e dai
quali teme di uscirne contaminato.
Infatti, nelle lettere scritte
dall’autore verista alla contessa
Dina di Sordevolo si avverte una
certa presa di distanza da un mondo
al quale non sente di appartenere.
Verga scrive: «A sceneggiare le
mie novelle o romanzi e anche il mio
teatro non sono adatto e non saprei
fare. Vedi se riesce a te […] io non
so, non posso, e non posso fare
altro per te che lasciar fare e
darti carta bianca». E in una
lettera successiva si può leggere:«Cavalleria
o non Cavalleria il cinematografo
oggi ha invaso talmente il campo e
ha bisogno di soggetti o temi con i
quali abbruttire il pubblico e
accecare la gente che io spero che
Giannino ti abbia aiutato a
collocare qualcuna delle nostre
fiabe. Basta: il punto è che paghino
e poiché del genere si fa un consumo
enorme spero che qualcosa verrà a te
di questi famosi diritti d’autore e
del lavoro di messa in opera che
fortunatamente è poco».
Le parole di Verga sono emblematiche
di quel rapporto tra gli
intellettuali e il cinema iniziato e
sviluppatosi su un piano di sospetti
e ambiguità. Non si può ignorare la
presenza del cinema perché si tratta
di uno strumento espressivo che, nel
giro di pochi anni, ha cambiato in
modo radicale i riti dello
spettacolo, dell’intrattenimento e
le modalità stesse di
rappresentazione della realtà,
imponendosi a livello delle masse.
Pertanto gli scrittori e gli
intellettuali entrano
inevitabilmente in contatto con
l’industria cinematografica in una
relazione complessa e
contraddittoria. Come spiega Carlo
Tagliabue, da una parte «sembra
sussistere una posizione di scarsa
considerazione nei confronti del
cinema; posizione suffragata dalla
consapevolezza di svolgere, come
letterati e come intellettuali, un
ruolo di ben altro livello
qualitativo; dall’altra parte, la
necessità dell’industria
cinematografica di acquisire
soggetti nuovi e di coinvolgere gli
scrittori nella realizzazione di
film tratti dalle loro opere».
Il cinema, quindi, necessita di
storie da cui trarre le proprie
sceneggiature e, allo stesso tempo,
i letterati si rendono conto che il
settore del cinema, in termini
economici, rende molto di più che
pubblicare un romanzo o una novella.
Pertanto gli scrittori manterranno a
lungo un atteggiamento dicotomico,
scissi tra un impegno nobile, come
la letteratura, e il rapporto con
una forma espressiva più popolare,
capace di raggiungere un vasto
pubblico e garantire ottimi
guadagni. Giovanni Verga rappresenta
forse l’esempio più noto di questo
atteggiamento ambivalente dei
letterati nei confronti del cinema.
Durante il periodo del muto molte
sue opere sono state tradotte
cinematograficamente, di queste
ricordiamo le cinque versioni di Cavalleria
rusticana, dal 1908 al 1924, Una
peccatrice e Caccia al lupo del
1918, Il marito di Elena del
1921, solo per citarne alcune. Se
l’atteggiamento di diffidenza e
quasi ripugnanza nei confronti della
settima arte è conclamato, nelle
lettere ad amici e parenti, la
posizione di Verga appare più
prosaica come si evince dalle parole
scritte sempre all’amica Sordevolo
nel 1912 in cui le dice di mettere a
sua disposizione le sue opere per
farle «cinematografare, perché
credo che realmente se ne potrebbe
cavare qualcosa».
Questo atteggiamento controverso
farà sì che il rapporto di Verga con
il cinema sia caratterizzato più da
vicende legali, che non da questioni
legate alla fedeltà al testo
letterario o al reale spessore
artistico dell’opera
cinematografica. Quindi, nonostante
molti intellettuali non riconoscano
al cinema lo statuto di arte in
senso tradizionale, di fatto con
questo atteggiamento ne amplificano
il suo potere, allo stesso modo in
cui il cinema ha permesso una
maggiore conoscenza delle opere
degli scrittori, incrementando i
loro guadagni.
Verga e i “Vinti” nei film di
Luchino Visconti
Se l’estetica dannunziana influenzò
a lungo il cinema italiano del primo
Novecento, il Verismo non riuscì a
esercitare altrettanto fascino
nell’industria cinematografica.
Tuttavia lasciò tracce seminali che
sarebbero sfociate nel dibattito
sulle origini del cinema
neorealista. La nascita e la rapida
diffusione del fenomeno del
Neorealismo segnano una tappa
fondamentale nell’evoluzione dei
rapporti tra cinema e letteratura
italiana.
In questi anni si verifica un
cambiamento nei rapporti tra
cineasti e intellettuali che
iniziano a collaborare in maniera
sinergica nella convinzione che il
cinematografo sia lo strumento più
adatto per risvegliare le coscienze
degli spettatori rappresentando,
senza troppi orpelli, la realtà
quotidiana di un Paese che esce
terribilmente ferito dalla guerra e,
ancor più a livello morale, dalla
dittatura fascista.
Il Neorealismo rompe con il cinema
del passato, imponendo una prassi
cinematografica innovativa
caratterizzata da una via
tipicamente italiana, che conferisce
al cinema autonomia e libertà
d’espressione. Nonostante sembra che
continui a sussistere una relazione
di dipendenza tra cinema e
letteratura, questo rapporto cambia
completamente, come dimostrano
alcuni capolavori del Neorealismo
tratti da opere letterarie, tra cui Ladri
di biciclette di Vittorio De
Sica del 1948 e La terra trema di
Luchino Visconti del 1947. Entrambi
i film, pur ispirandosi a due testi
letterari, si connotano per la
presenza di un autore
cinematografico, che riscrive la
storia raccontando in maniera
diversa i temi e gli avvenimenti che
caratterizzano i romanzi o le
novelle.
Per quanto riguarda le opere
letterarie da tradurre sullo
schermo, i registi neorealisti
individuano proprio nel Verismo e
nella sua poetica la fonte di
ispirazione primaria per un cinema
che aspira a rappresentare la
realtà. Questo rapporto tra Verismo
letterario e Neorealismo
cinematografico non nasce
all’improvviso, al contrario già
durante il fascismo le riviste di
cinema e molti intellettuali avevano
espresso il loro disappunto nei
confronti di una cinematografia di
regime, lontana dall’immagine reale
del Paese.
Fu proprio Luchino Visconti a
rompere con gli schemi estetici e
contenutistici del cinema di regime,
anticipando la nascita del
Neorealismo con il film Ossessione del
1943. La presenza della letteratura,
in particolare verista, è una
costante nella produzione
cinematografica del regista. Anche
nei progetti solo abbozzati e mai
realizzati, Visconti dimostra
l’enorme influenza del Verismo sulla
sua formazione. Basti pensare al
progetto di trasposizione
cinematografica di L’amante di
Gramigna di Verga, censurato sul
nascere proprio dal regime fascista.
La terra trema è
stata definita «l’opera centrale
di tutto il neorealismo». Il
film realizzato nel 1954 da Luchino
Visconti è ispirato ai Malavoglia di
Verga e rappresenta una delle
operazioni più esemplari di
traduzione di un testo letterario
nel cinema.
Innanzitutto Visconti si attiene al
testo in modo fedele, riportando nel
film gli stessi luoghi, personaggi e
paesaggi descritti nell’opera
verghiana. Tuttavia, questa aderenza
all’opera letteraria non gli
impedisce una rilettura e una
riscrittura autonoma del romanzo. La
trama narra la storia di una
famiglia di pescatori siciliani che,
nel tentativo di acquistare la
barca, va incontro a una serie di
sciagure perdendo la casa e cadendo
nella disperazione. Proprio come
Verga, per dare voce a questo mondo
di personaggi umili, in grado di
parlare solo il dialetto, Visconti
impiega attori non professionisti
che parlano tutti un siciliano molto
stretto. In questo modo la prosa di
Verga e di conseguenza il film del
regista italiano, sembrano aderire
perfettamente alla realtà che
rappresentano.
Nel film, attraverso le vicende
della famiglia Valastro, Visconti
riesce a offrire una rilettura
critica in chiave politica dei
problemi e delle contraddizioni che
caratterizzavano l’Italia di quegli
anni, proponendo una versione
moderna dell’opera di Verga. Il film
risulta piuttosto difficile, anche
se la bellezza delle immagini e la
sua drammaticità lo rendono uno dei
capolavori della cinematografia
italiana.
La terra trema non
è l’unico episodio di incontro tra
Luchino Visconti e Giovanni Verga,
dal momento che tutta la sua
produzione cinematografica sembra
essere ispirata alla poetica
dell’autore siciliano. Infatti, se
volessimo unire sotto un unico
titolo i film di Visconti, potremmo
chiamarlo I vinti, così come
Verga aveva intitolato il ciclo dei
suoi romanzi. Come gli eroi
verghiani, i personaggi di Visconti
sono degli sconfitti dalla società,
dalla storia, dalla vita stessa, che
non permette di scegliere
liberamente le vie del proprio
destino e di poter spezzare le
catene entro le quali la sorte ha
posto ciascuno di noi.
In un momento in cui i tempi erano
maturi per un cambiamento importante
nei rapporti tra letteratura e
cinema, che sente sempre più forte
l’esigenza di raccontare la realtà
senza troppi filtri, Visconti,
grande uomo di cultura e di teatro,
riesce a cogliere la continuità
ideologica e culturale tra il
Verismo e il Neorealismo. E così il
cinema, anche se povero, senza mezzi
e senza una solida industria alle
spalle, si fa portavoce delle
istanze morali e ideologiche di un
paese – l’Italia – che ha bisogno di
un presente e un futuro migliori, di
rinnovamento morale, sociale e
culturale.
Con Visconti ci troviamo di fronte
alla figura di un regista che
diventa egli stesso autore di
un’altra opera, quella
cinematografica, che sta alla base
di un altro testo narrativo. Anche
se la visione di Visconti per lo più
coincide con quella di Verga, il
film diventa per il regista-autore
l’occasione per esprimere in piena
autonomia un altro mondo,
trasformando il film stesso in un
altro romanzo.
Pirandello e il linguaggio
cinematografico
Anche il rapporto tra Pirandello e
il cinema è stato controverso, ma
allo stesso tempo ricco di
intuizioni e sviluppi che hanno
anticipato temi e pensieri della
postmodernità. Forse non è un caso
che il primo film sonoro italiano, La
canzone dell’amore del 1930 di
Gennaro Righelli, abbia come
soggetto proprio un’opera di
Pirandello dal titolo In silenzio.
Lo scrittore siciliano, nonostante
l’iniziale rapporto di
attrazione-repulsione con il cinema,
è stato uno dei primi intellettuali
a comprendere fino in fondo la
specificità del linguaggio
cinematografico, arrivando a sposare
un po’ alla volta la causa del
cinema, giungendo a immaginare di
entrare in scena e recitare nella
versione cinematografica di Sei
personaggi in cerca di autore.
Il film di Righelli, nonostante
fosse piuttosto modesto nella sua
confezione, dal punto di vista
storico ha una grande importanza,
perché rappresenta un tentativo di
rendere il linguaggio
cinematografico autonomo rispetto a
quello letterario. Il film riapre
anche la spinosa questione riguardo
la fedeltà dell’opera
cinematografica rispetto al testo
letterario, anche perché la novella
di Pirandello ne esce alquanto
distorta nella trasposizione
cinematografica. In realtà, il
cinema ha compiuto una sorta di
smembramento nei confronti delle
opere di Pirandello, fatto questo
che se da una parte ha destato
disappunto nello scrittore,
dall’altra dimostra l’esigenza del
cinema di costruire un proprio stile
e un proprio specifico linguaggio.
Nel 1933 fu lo stesso Pirandello a
scrivere un testo appositamente per
il cinema: Giuoca, Pietro! Che
sullo schermo uscì con il titolo Acciaio,
per la regia di Walter Ruttmann.
Nonostante anche questo testo fosse
stato completamente stravolto nella
traduzione cinematografica,
ricevendo numerosi giudizi negativi,
proprio Pirandello sembra essere tra
i pochi a rendersi conto che cinema
e letteratura sono due linguaggi
diversi e con esigenze linguistiche
e stilistiche specifiche.
A proposito di questo film, infatti,
Pirandello dichiara: «Non solo lo
spirito del mio tema è stato
rispettato, ma la rappresentazione
dei caratteri nell’annodarsi e
sciogliersi dell’azione [...] lo
esprime fino in fondo con
monumentale concisione. Il film è
davvero riuscito».
Pirandello, ponendo l’accento sullo
“spirito” dell’opera, dimostra un
atteggiamento completamente nuovo
nei confronti del cinema e del suo
rapporto con la letteratura. Nel
corso degli anni, saranno molte le
opere dello scrittore a essere
tradotte sullo schermo, tra cui due
versioni de Il fu Mattia Pascal.
Il Fu Mattia Pascal fu
tradotto per il cinema durante il
periodo del muto nel 1923 in Francia
dal regista Marcel L’Herbier, che
firmò una delle versioni
cinematografiche più riuscite di
un’opera pirandelliana. Il regista
francese ha offerto una traduzione
cinematografica del testo letterario
molto valida, ricco di suggestioni e
capace di anticipare e definire i
molteplici volti di quell’angoscia
esistenziale che caratterizza l’uomo
contemporaneo.
Meno avvincente e originale risulta
la seconda versione cinematografica
del Fu Mattia Pascal realizzata
da Pierre Chenal nel 1937. Il
regista non solo apporta sostanziali
cambiamenti alla struttura e alla
trama in sede di sceneggiatura, ma
di fatto si limita a rappresentare
sullo schermo gli elementi basilari
dell’universo pirandelliano,
tralasciando tutti gli aspetti più
importanti che costituiscono la
poetica dell’autore siciliano: le
implicazioni psicologiche,
esistenziali e filosofiche dei suoi
personaggi e del mondo che egli
delinea.
Come è noto, tutta l’opera
pirandelliana riflette una visione
tragica della vita. Egli vede l’uomo
come una creatura smarrita in una
solitudine immensa, senza punti di
riferimento e incapace di
raggiungere la verità oltre le
apparenze. Pertanto i suoi
personaggi rappresentano gli uomini
che si interrogano sulla propria
identità, che risulta sempre più
frammentata e scissa tra le numerose
maschere che l’individuo è costretto
a indossare per rispettare i ruoli
sociali e apparire, di volta in
volta, la persona che gli altri si
aspettano che egli sia. E dietro le
molteplici maschere l’angosciante
consapevolezza di essere “nessuno”.
Chenal, quindi, realizza un’opera
che potremmo definire “realista”,
senza neppure tentare di addentrarsi
nel complesso e intricato labirinto
psicologico dell’uomo pirandelliano.
A questo proposito occorre ricordare
che il cinema è pur sempre
un’industria popolare e, in quanto
tale, ha precise leggi di mercato e
di consumo che rendono comprensibili
le ragioni per cui gli sceneggiatori
abbiano deciso di attenuare, se non
addirittura eliminare, gli aspetti
più complessi e intricati che
caratterizzano la psicologia di
Mattia Pascal, gli angoscianti
interrogativi esistenziali e le
problematiche metafisiche che
caratterizzano le avventure del
personaggio pirandelliano. Meglio
proporre un’opera “realista”,
comprensibile e accettabile dal
grande pubblico.
Questo atteggiamento dimostra che i
tempi non erano ancora maturi per
far emergere le straordinarie
potenzialità espressive del cinema,
precocemente intuite dallo stesso
Pirandello che in un’intervista del
1924, apparsa su “Nouvels
Litteraires”, dichiarò: «Io credo
che il Cinema, più facilmente e più
completamente di qualsiasi altro
mezzo d’espressione artistica, possa
darci la visione del pensiero.
Perché tenerci lontano da questo
nuovo modo d’espressione, che ci
permette di rendere sensibili fatti
appartenenti a un ambito, che è
quasi del tutto interdetto al Teatro
e al Romanzo? [...]. È un film
russo, Padre Sergio, che, durante la
guerra, mi ha fatto intravedere la
possibilità di questa giovane arte:
il Sogno, il Ricordo,
l’Allucinazione, la Follia, lo
Sdoppiamento della personalità».
Le numerose traduzioni
cinematografiche delle opere
letterarie di questo periodo, però,
dimostrano che l’incontro che
Pirandello auspicava tra cinema e
letteratura ma, soprattutto la
possibilità di trasferire sul piano
del linguaggio cinematografico le
suggestioni scaturite dalla pagina
letteraria sono ancora un’utopia.
“I quaderni di Serafino Gubbio
operatore”: il diario di un
uomo-macchina
Nonostante Pirandello abbia espresso
giudizi positivi nei confronti del
cinema in quanto forma di
espressione artistica capace di
rappresentare, più di ogni altra, le
suggestioni scaturite dal testo
letterario, lo scrittore manifestò
anche preoccupazione e inquietudine
per la preponderanza dell’aspetto
meccanico su quello umano, con tutte
le conseguenze negative che questo
comporta.
Il rapporto di Pirandello con la
macchina, tuttavia, non fu mai
univoco, ma in perenne oscillazione
fra l’odio e l’ammirazione,
nell’ambiguità tipica del monstrum, ovvero
di ciò che affascina
meravigliosamente e al tempo stesso
terrorizza, come dimostra il
romanzo I Quaderni di Serafino
Gubbio Operatore, una delle
opere più originali dell’intera
produzione pirandelliana. Il
romanzo, che rappresenta anche un
tentativo di comprendere come stesse
cambiando il ruolo dello scrittore
con l’avvento dell’industria
cinematografica, appare come la più
complessa riflessione teorica sul
cinema fino agli anni Venti.
A catturare l’attenzione di
Pirandello è la nuova realtà della settima
arte che, proprio in questi
anni, inizia a trasformarsi da forma
di intrattenimento popolare, in una
vera e propria rivoluzione
culturale. Proprio al mondo del
cinema, infatti, allude il primo
titolo del romanzo, Si gira che,
non solo è la formula tecnica
tradizionalmente utilizzata per
indicare l’inizio di una ripresa, ma
è anche il soprannome del
protagonista, Serafino Gubbio, il
cui ruolo è appunto quello di essere
un operatore cinematografico.
Il titolo e la stesura definitivi
del romanzo saranno messi a punto
solo nel 1925. Ma ben lontani
dall’essere un semplice conte
philosophique sul cinema, I
Quaderni di Serafino Gubbio
Operatore sono concepiti come
il diario di un uomo-macchina,
costretto a sperimentare sulla
propria pelle le conseguenze degli
sviluppi tecnologici, vedendo così
la propria identità sfaldarsi e
perdersi nella corsa
spersonalizzante incontro al
progresso.
Fin dal principio Serafino si
presenta come un osservatore freddo,
distante e distaccato, il cui
compito principale è quello di
studiare la gente intenta alle sue
più ordinarie occupazioni,
analizzandone il comportamento e le
attitudini di fronte alle situazioni
della vita. Tuttavia, l’indagine di
Serafino non si esaurisce in un mero
esercizio intellettuale, in quanto
ciò che egli restituisce al lettore
non è affatto un insieme di
personaggi presentati nella loro
coerenza e unitarietà, ma una serie
di personalità frantumate e
contraddittorie, imprigionate
all’interno della forma o maschera
che la società gli ha assegnato e
incapaci, pertanto, di rendersi
conto dei propri limiti.
Uno dei passi più significativi
dell’opera sintetizza molto bene
l’idea del cinema come “macchina da
guerra” e il rifiuto di quel “mito
della macchina” che, imperante nei
primi anni del Novecento, fu poi
rifiutato e demonizzato da molti.
Pirandello, infatti, scrive: «la
macchina con gli enormi guadagni che
produce può compensarli molto meglio
che qualunque impresario o direttore
proprietario di compagnia
drammatica. Non solo – ma essa – con
le sue riproduzioni meccaniche,
potendo offrire a buon mercato al
gran pubblico uno spettacolo sempre
nuovo, riempie le sale
cinematografiche e lascia vuoti i
teatri sicchè tutte le compagnie
fanno miseri affari. Gli attori
odiano la macchina perché si sentono
strappati dalla comunione con il
pubblico […]. Qua si sentono in
esilio […] non soltanto dal
palcoscenico ma da loro stessi.
Perché l’azione viva, del loro corpo
vivo là sullo schermo non c’è più».
Nei Quaderni di Serafino Gubbio
operatore, quindi, Pirandello si
propone di mettere in evidenza il
senso di alienazione che attanaglia
l’uomo moderno a servizio della
macchina. Il narratore adopera la
tecnica dell’analessi, che consiste
nel presentare un episodio tramite
ricordi frammentati di eventi
passati. Serafino Gubbio si sente
totalmente alienato dal suo lavoro
al punto da affermare: «Finii
d’esser Gubbio e diventai una mano».
Sono passati oltre cento anni dal
momento in cui queste parole furono
pronunciate per la prima volta a
denunciare profeticamente il potere
pervasivo della macchina, tema
attuale quanto mai.
Per Luigi Pirandello la vita è
imitata dal cinema e, allo stesso
tempo, ne è uccisa. Nella civiltà
delle macchine, infatti, come nella
finzione scenica, l’uomo è alienato
da se stesso, perso nel vertiginoso
meccanismo di un’esistenza di
automatismi e follie, a cui per pura
fatalità anche Serafino si ritrova a
partecipare.
Egli stesso, cineoperatore,
esaminandosi dall’esterno si
riconosce come nient’altro che
l’ennesimo insignificante elemento
di un mondo inautentico e
insensibile nel proprio alternarsi
fra realtà e finzione; egli è
angosciato da tale presa di
coscienza, ma è anche costretto, suo
malgrado, a vivere un processo
psicologico capace di condurlo a
una progressiva accettazione
filosofica di tale realtà.
A differenza di altri personaggi
pirandelliani, tuttavia, Serafino
non vivrà la propria condizione di
“forestiero della vita” come una
posizione privilegiata o come il
presupposto per una condizione
pacificante, ma ne sarà
completamente annichilito. Il
protagonista del romanzo subito si
chiede «se tutto questo fragoroso
e vertiginoso meccanismo della vita,
che di giorno in giorno, sempre più
si complica e s’accelera, non abbia
ridotto l’umanità in tale stato di
follia che presto proromperà
frenetica a sconvolgere e
distruggere tutto». I personaggi
del romanzo si sentono schiavi della
macchina manovrata da Serafino che,
suo malgrado, è consapevole di
essere il sacerdote di una sorta di
rito sacrificale che disumanizza
l’uomo, diventato quasi un’appendice
della macchina che adopera.
Un giorno, poi, il protagonista
viene incaricato di riprendere con
la sua cinepresa la scena
dell’uccisione di una tigre da parte
di un cacciatore. All’interno della
gabbia si trova l’attore che veste i
panni del cacciatore, la tigre e
un’attrice. L’attore che dovrebbe
uccidere l’animale rivolge l’arma
contro l’attrice togliendole la vita
per questioni di gelosia e la tigre
spaventata si avventa sull’uomo e lo
sbrana. Serafino, che sta filmando
la scena, rinuncia a ogni forma di
sentimento e di comunicazione: egli
continua meccanicamente a girare la
manovella della cinepresa,
indifferente al dramma che si sta
consumando davanti ai suoi occhi.
Serafino diviene muto per lo shock e
si rifugia nell’alienazione.
La crudeltà della scena che Serafino
si ritroverà a girare con assoluta
freddezza, sarà capace di lasciare
una profonda ferita nella sua
psiche, tale da sconvolgerlo nel
profondo e da indurlo a rifiutare
qualsiasi ulteriore partecipazione
alla vita. Con l’auto-definizione
finale di «solo, muto e
impassibile» egli infatti
accetterà in maniera definitiva la
sua nuova condizione di sconfitto.
La perdita della voce, tuttavia,
rappresenterà per Serafino non solo
il blocco di ogni comunicazione con
l’esterno, ma anche la paralisi
stessa della sua persona fin nelle
sue radici più profonde, una
condizione ormai definitiva e priva
di una qualsivoglia via d’uscita.
Nell’opera pirandelliana, tuttavia,
l’assenza della parola è
a ben vedere protagonista
incontrastata fin dall’inizio del
romanzo, sebbene arrivi ad assumere
di volta in volta sfaccettature
sempre differenti. In primo luogo vi
è il silenzio in cui sprofonda
l’uomo con l’avvento dei macchinari,
capaci di relegarlo alla triste
condizione di automa.
In proposito, non si può fare a meno
di constatare come Pirandello, pur
rimanendo ancorato a una visione
estremamente individualistica della
questione, sia in estremo anticipo
sui tempi, trattando una
problematica che diverrà di
scottante attualità solo nella
seconda parte del Novecento, anche
se in quegli anni di certo non era
avvertita come tale. Con questo
romanzo, infatti, lo scrittore
siciliano crea un ponte con
l’universo immaginato da Fritz Lang
nel 1927 con il film Metropolis e
dieci anni dopo da Charlie Chaplin
nel film Tempi moderni del
1936, in cui si parla proprio
dell’uomo robotizzato.
Se, pertanto, D’Annunzio vede nel
cinema una straordinaria opportunità
per consolidare il suo progetto
estetico, rappresentando e
immaginando i simboli che fondano
l’identità nazionale, Pirandello
riscontra nel cinema il momento di
massima perdita identitaria
dell’individuo.
I quaderni di Serafino Gubbio,
l’operatore che non opera nulla, che
prepara la propria macchina di
fronte alla scena da riprendere,
misura lo spazio, colloca in modo
preciso ogni elemento all’interno di
un sistema di rapporti, dimostra
come il cinema sia lo strumento
simbolico che più di ogni altro
rivela e accelera il processo di
sdoppiamento e di frammentazione
dell’individuo che, perso nei
meandri della propria personalità,
si trova a essere sempre di più uno,
nessuno e centomila.
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