[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 214 / OTTOBRE 2025 (CCXLV)


arte

LETTEratura italiana e industria cinematografica

linguaggi a confronto / II
di Alessandra Olivares

 

Giovanni Verga e la sua ambigua relazione con i cinema

 

Giovanni Verga, l’autore più importante del Verismo, ebbe rapporti continuativi con il cinema, anche se con un atteggiamento completamente diverso da quello di D’Annunzio, mostrando il riserbo di chi si avvicina ad ambiti considerati “compromettenti” e dai quali teme di uscirne contaminato. Infatti, nelle lettere scritte dall’autore verista alla contessa Dina di Sordevolo si avverte una certa presa di distanza da un mondo al quale non sente di appartenere.

 

Verga scrive: «A sceneggiare le mie novelle o romanzi e anche il mio teatro non sono adatto e non saprei fare. Vedi se riesce a te […] io non so, non posso, e non posso fare altro per te che lasciar fare e darti carta bianca». E in una lettera successiva si può leggere:«Cavalleria o non Cavalleria il cinematografo oggi ha invaso talmente il campo e ha bisogno di soggetti o temi con i quali abbruttire il pubblico e accecare la gente che io spero che Giannino ti abbia aiutato a collocare qualcuna delle nostre fiabe. Basta: il punto è che paghino e poiché del genere si fa un consumo enorme spero che qualcosa verrà a te di questi famosi diritti d’autore e del lavoro di messa in opera che fortunatamente è poco».

 

Le parole di Verga sono emblematiche di quel rapporto tra gli intellettuali e il cinema iniziato e sviluppatosi su un piano di sospetti e ambiguità. Non si può ignorare la presenza del cinema perché si tratta di uno strumento espressivo che, nel giro di pochi anni, ha cambiato in modo radicale i riti dello spettacolo, dell’intrattenimento e le modalità stesse di rappresentazione della realtà, imponendosi a livello delle masse.

 

Pertanto gli scrittori e gli intellettuali entrano inevitabilmente in contatto con l’industria cinematografica in una relazione complessa e contraddittoria. Come spiega Carlo Tagliabue, da una parte «sembra sussistere una posizione di scarsa considerazione nei confronti del cinema; posizione suffragata dalla consapevolezza di svolgere, come letterati e come intellettuali, un ruolo di ben altro livello qualitativo; dall’altra parte, la necessità dell’industria cinematografica di acquisire soggetti nuovi e di coinvolgere gli scrittori nella realizzazione di film tratti dalle loro opere».

 

Il cinema, quindi, necessita di storie da cui trarre le proprie sceneggiature e, allo stesso tempo, i letterati si rendono conto che il settore del cinema, in termini economici, rende molto di più che pubblicare un romanzo o una novella. Pertanto gli scrittori manterranno a lungo un atteggiamento dicotomico, scissi tra un impegno nobile, come la letteratura, e il rapporto con una forma espressiva più popolare, capace di raggiungere un vasto pubblico e garantire ottimi guadagni. Giovanni Verga rappresenta forse l’esempio più noto di questo atteggiamento ambivalente dei letterati nei confronti del cinema.

 

Durante il periodo del muto molte sue opere sono state tradotte cinematograficamente, di queste ricordiamo le cinque versioni di Cavalleria rusticana, dal 1908 al 1924, Una peccatrice Caccia al lupo del 1918, Il marito di Elena del 1921, solo per citarne alcune. Se l’atteggiamento di diffidenza e quasi ripugnanza nei confronti della settima arte è conclamato, nelle lettere ad amici e parenti, la posizione di Verga appare più prosaica come si evince dalle parole scritte sempre all’amica Sordevolo nel 1912 in cui le dice di mettere a sua disposizione le sue opere per farle «cinematografare, perché credo che realmente se ne potrebbe cavare qualcosa».

 

Questo atteggiamento controverso farà sì che il rapporto di Verga con il cinema sia caratterizzato più da vicende legali, che non da questioni legate alla fedeltà al testo letterario o al reale spessore artistico dell’opera cinematografica. Quindi, nonostante molti intellettuali non riconoscano al cinema lo statuto di arte in senso tradizionale, di fatto con questo atteggiamento ne amplificano il suo potere, allo stesso modo in cui il cinema ha permesso una maggiore conoscenza delle opere degli scrittori, incrementando i loro guadagni.

 

Verga e i “Vinti” nei film di Luchino Visconti

 

Se l’estetica dannunziana influenzò a lungo il cinema italiano del primo Novecento, il Verismo non riuscì a esercitare altrettanto fascino nell’industria cinematografica. Tuttavia lasciò tracce seminali che sarebbero sfociate nel dibattito sulle origini del cinema neorealista. La nascita e la rapida diffusione del fenomeno del Neorealismo segnano una tappa fondamentale nell’evoluzione dei rapporti tra cinema e letteratura italiana.

 

In questi anni si verifica un cambiamento nei rapporti tra cineasti e intellettuali che iniziano a collaborare in maniera sinergica nella convinzione che il cinematografo sia lo strumento più adatto per risvegliare le coscienze degli spettatori rappresentando, senza troppi orpelli, la realtà quotidiana di un Paese che esce terribilmente ferito dalla guerra e, ancor più a livello morale, dalla dittatura fascista.

 

Il Neorealismo rompe con il cinema del passato, imponendo una prassi cinematografica innovativa caratterizzata da una via tipicamente italiana, che conferisce al cinema autonomia e libertà d’espressione. Nonostante sembra che continui a sussistere una relazione di dipendenza tra cinema e letteratura, questo rapporto cambia completamente, come dimostrano alcuni capolavori del Neorealismo tratti da opere letterarie, tra cui Ladri di biciclette di Vittorio De Sica del 1948 e La terra trema di Luchino Visconti del 1947. Entrambi i film, pur ispirandosi a due testi letterari, si connotano per la presenza di un autore cinematografico, che riscrive la storia raccontando in maniera diversa i temi e gli avvenimenti che caratterizzano i romanzi o le novelle.

 

Per quanto riguarda le opere letterarie da tradurre sullo schermo, i registi neorealisti individuano proprio nel Verismo e nella sua poetica la fonte di ispirazione primaria per un cinema che aspira a rappresentare la realtà. Questo rapporto tra Verismo letterario e Neorealismo cinematografico non nasce all’improvviso, al contrario già durante il fascismo le riviste di cinema e molti intellettuali avevano espresso il loro disappunto nei confronti di una cinematografia di regime, lontana dall’immagine reale del Paese.

 

Fu proprio Luchino Visconti a rompere con gli schemi estetici e contenutistici del cinema di regime, anticipando la nascita del Neorealismo con il film Ossessione del 1943. La presenza della letteratura, in particolare verista, è una costante nella produzione cinematografica del regista. Anche nei progetti solo abbozzati e mai realizzati, Visconti dimostra l’enorme influenza del Verismo sulla sua formazione. Basti pensare al progetto di trasposizione cinematografica di L’amante di Gramigna di Verga, censurato sul nascere proprio dal regime fascista.

 

La terra trema è stata definita «l’opera centrale di tutto il neorealismo». Il film realizzato nel 1954 da Luchino Visconti è ispirato ai Malavoglia di Verga e rappresenta una delle operazioni più esemplari di traduzione di un testo letterario nel cinema.

 

Innanzitutto Visconti si attiene al testo in modo fedele, riportando nel film gli stessi luoghi, personaggi e paesaggi descritti nell’opera verghiana. Tuttavia, questa aderenza all’opera letteraria non gli impedisce una rilettura e una riscrittura autonoma del romanzo. La trama narra la storia di una famiglia di pescatori siciliani che, nel tentativo di acquistare la barca, va incontro a una serie di sciagure perdendo la casa e cadendo nella disperazione. Proprio come Verga, per dare voce a questo mondo di personaggi umili, in grado di parlare solo il dialetto, Visconti impiega attori non professionisti che parlano tutti un siciliano molto stretto. In questo modo la prosa di Verga e di conseguenza il film del regista italiano, sembrano aderire perfettamente alla realtà che rappresentano.

 

Nel film, attraverso le vicende della famiglia Valastro, Visconti riesce a offrire una rilettura critica in chiave politica dei problemi e delle contraddizioni che caratterizzavano l’Italia di quegli anni, proponendo una versione moderna dell’opera di Verga. Il film risulta piuttosto difficile, anche se la bellezza delle immagini e la sua drammaticità lo rendono uno dei capolavori della cinematografia italiana.

 

La terra trema non è l’unico episodio di incontro tra Luchino Visconti e Giovanni Verga, dal momento che tutta la sua produzione cinematografica sembra essere ispirata alla poetica dell’autore siciliano. Infatti, se volessimo unire sotto un unico titolo i film di Visconti, potremmo chiamarlo I vinti, così come Verga aveva intitolato il ciclo dei suoi romanzi. Come gli eroi verghiani, i personaggi di Visconti sono degli sconfitti dalla società, dalla storia, dalla vita stessa, che non permette di scegliere liberamente le vie del proprio destino e di poter spezzare le catene entro le quali la sorte ha posto ciascuno di noi.

 

In un momento in cui i tempi erano maturi per un cambiamento importante nei rapporti tra letteratura e cinema, che sente sempre più forte l’esigenza di raccontare la realtà senza troppi filtri, Visconti, grande uomo di cultura e di teatro, riesce a cogliere la continuità ideologica e culturale tra il Verismo e il Neorealismo. E così il cinema, anche se povero, senza mezzi e senza una solida industria alle spalle, si fa portavoce delle istanze morali e ideologiche di un paese – l’Italia – che ha bisogno di un presente e un futuro migliori, di rinnovamento morale, sociale e culturale.

 

Con Visconti ci troviamo di fronte alla figura di un regista che diventa egli stesso autore di un’altra opera, quella cinematografica, che sta alla base di un altro testo narrativo. Anche se la visione di Visconti per lo più coincide con quella di Verga, il film diventa per il regista-autore l’occasione per esprimere in piena autonomia un altro mondo, trasformando il film stesso in un altro romanzo. 

 

Pirandello e il linguaggio cinematografico

 

Anche il rapporto tra Pirandello e il cinema è stato controverso, ma allo stesso tempo ricco di intuizioni e sviluppi che hanno anticipato temi e pensieri della postmodernità. Forse non è un caso che il primo film sonoro italiano, La canzone dell’amore del 1930 di Gennaro Righelli, abbia come soggetto proprio un’opera di Pirandello dal titolo In silenzio.

 

Lo scrittore siciliano, nonostante l’iniziale rapporto di attrazione-repulsione con il cinema, è stato uno dei primi intellettuali a comprendere fino in fondo la specificità del linguaggio cinematografico, arrivando a sposare un po’ alla volta la causa del cinema, giungendo a immaginare di entrare in scena e recitare nella versione cinematografica di Sei personaggi in cerca di autore.

 

Il film di Righelli, nonostante fosse piuttosto modesto nella sua confezione, dal punto di vista storico ha una grande importanza, perché rappresenta un tentativo di rendere il linguaggio cinematografico autonomo rispetto a quello letterario. Il film riapre anche la spinosa questione riguardo la fedeltà dell’opera cinematografica rispetto al testo letterario, anche perché la novella di Pirandello ne esce alquanto distorta nella trasposizione cinematografica. In realtà, il cinema ha compiuto una sorta di smembramento nei confronti delle opere di Pirandello, fatto questo che se da una parte ha destato disappunto nello scrittore, dall’altra dimostra l’esigenza del cinema di costruire un proprio stile e un proprio specifico linguaggio.

 

Nel 1933 fu lo stesso Pirandello a scrivere un testo appositamente per il cinema: Giuoca, Pietro! Che sullo schermo uscì con il titolo Acciaio, per la regia di Walter Ruttmann. Nonostante anche questo testo fosse stato completamente stravolto nella traduzione cinematografica, ricevendo numerosi giudizi negativi, proprio Pirandello sembra essere tra i pochi a rendersi conto che cinema e letteratura sono due linguaggi diversi e con esigenze linguistiche e stilistiche specifiche.

 

A proposito di questo film, infatti, Pirandello dichiara: «Non solo lo spirito del mio tema è stato rispettato, ma la rappresentazione dei caratteri nell’annodarsi e sciogliersi dell’azione [...] lo esprime fino in fondo con monumentale concisione. Il film è davvero riuscito».

 

Pirandello, ponendo l’accento sullo “spirito” dell’opera, dimostra un atteggiamento completamente nuovo nei confronti del cinema e del suo rapporto con la letteratura. Nel corso degli anni, saranno molte le opere dello scrittore a essere tradotte sullo schermo, tra cui due versioni de Il fu Mattia Pascal.

 

Il Fu Mattia Pascal fu tradotto per il cinema durante il periodo del muto nel 1923 in Francia dal regista Marcel L’Herbier, che firmò una delle versioni cinematografiche più riuscite di un’opera pirandelliana. Il regista francese ha offerto una traduzione cinematografica del testo letterario molto valida, ricco di suggestioni e capace di anticipare e definire i molteplici volti di quell’angoscia esistenziale che caratterizza l’uomo contemporaneo.

 

Meno avvincente e originale risulta la seconda versione cinematografica del Fu Mattia Pascal realizzata da Pierre Chenal nel 1937. Il regista non solo apporta sostanziali cambiamenti alla struttura e alla trama in sede di sceneggiatura, ma di fatto si limita a rappresentare sullo schermo gli elementi basilari dell’universo pirandelliano, tralasciando tutti gli aspetti più importanti che costituiscono la poetica dell’autore siciliano: le implicazioni psicologiche, esistenziali e filosofiche dei suoi personaggi e del mondo che egli delinea.

 

Come è noto, tutta l’opera pirandelliana riflette una visione tragica della vita. Egli vede l’uomo come una creatura smarrita in una solitudine immensa, senza punti di riferimento e incapace di raggiungere la verità oltre le apparenze. Pertanto i suoi personaggi rappresentano gli uomini che si interrogano sulla propria identità, che risulta sempre più frammentata e scissa tra le numerose maschere che l’individuo è costretto a indossare per rispettare i ruoli sociali e apparire, di volta in volta, la persona che gli altri si aspettano che egli sia. E dietro le molteplici maschere l’angosciante consapevolezza di essere “nessuno”.

 

Chenal, quindi, realizza un’opera che potremmo definire “realista”, senza neppure tentare di addentrarsi nel complesso e intricato labirinto psicologico dell’uomo pirandelliano. A questo proposito occorre ricordare che il cinema è pur sempre un’industria popolare e, in quanto tale, ha precise leggi di mercato e di consumo che rendono comprensibili le ragioni per cui gli sceneggiatori abbiano deciso di attenuare, se non addirittura eliminare, gli aspetti più complessi e intricati che caratterizzano la psicologia di Mattia Pascal, gli angoscianti interrogativi esistenziali e le problematiche metafisiche che caratterizzano le avventure del personaggio pirandelliano. Meglio proporre un’opera “realista”, comprensibile e accettabile dal grande pubblico.

 

Questo atteggiamento dimostra che i tempi non erano ancora maturi per far emergere le straordinarie potenzialità espressive del cinema, precocemente intuite dallo stesso Pirandello che in un’intervista del 1924, apparsa su “Nouvels Litteraires”, dichiarò: «Io credo che il Cinema, più facilmente e più completamente di qualsiasi altro mezzo d’espressione artistica, possa darci la visione del pensiero. Perché tenerci lontano da questo nuovo modo d’espressione, che ci permette di rendere sensibili fatti appartenenti a un ambito, che è quasi del tutto interdetto al Teatro e al Romanzo? [...]. È un film russo, Padre Sergio, che, durante la guerra, mi ha fatto intravedere la possibilità di questa giovane arte: il Sogno, il Ricordo, l’Allucinazione, la Follia, lo Sdoppiamento della personalità».

 

Le numerose traduzioni cinematografiche delle opere letterarie di questo periodo, però, dimostrano che l’incontro che Pirandello auspicava tra cinema e letteratura ma, soprattutto la possibilità di trasferire sul piano del linguaggio cinematografico le suggestioni scaturite dalla pagina letteraria sono ancora un’utopia.

 

“I quaderni di Serafino Gubbio operatore”: il diario di un uomo-macchina

 

Nonostante Pirandello abbia espresso giudizi positivi nei confronti del cinema in quanto forma di espressione artistica capace di rappresentare, più di ogni altra, le suggestioni scaturite dal testo letterario, lo scrittore manifestò anche preoccupazione e inquietudine per la preponderanza dell’aspetto meccanico su quello umano, con tutte le conseguenze negative che questo comporta.

 

Il rapporto di Pirandello con la macchina, tuttavia, non fu mai univoco, ma in perenne oscillazione fra l’odio e l’ammirazione, nell’ambiguità tipica del monstrum, ovvero di ciò che affascina meravigliosamente e al tempo stesso terrorizza, come dimostra il romanzo I Quaderni di Serafino Gubbio Operatore, una delle opere più originali dell’intera produzione pirandelliana. Il romanzo, che rappresenta anche un tentativo di comprendere come stesse cambiando il ruolo dello scrittore con l’avvento dell’industria cinematografica, appare come la più complessa riflessione teorica sul cinema fino agli anni Venti.

 

A catturare l’attenzione di Pirandello è la nuova realtà della settima arte che, proprio in questi anni, inizia a trasformarsi da forma di intrattenimento popolare, in una vera e propria rivoluzione culturale. Proprio al mondo del cinema, infatti, allude il primo titolo del romanzo, Si gira che, non solo è la formula tecnica tradizionalmente utilizzata per indicare l’inizio di una ripresa, ma è anche il soprannome del protagonista, Serafino Gubbio, il cui ruolo è appunto quello di essere un operatore cinematografico. 

 

Il titolo e la stesura definitivi del romanzo saranno messi a punto solo nel 1925. Ma ben lontani dall’essere un semplice conte philosophique sul cinema, I Quaderni di Serafino Gubbio Operatore sono concepiti come il diario di un uomo-macchina, costretto a sperimentare sulla propria pelle le conseguenze degli sviluppi tecnologici, vedendo così la propria identità sfaldarsi e perdersi nella corsa spersonalizzante incontro al progresso.

 

Fin dal principio Serafino si presenta come un osservatore freddo, distante e distaccato, il cui compito principale è quello di studiare la gente intenta alle sue più ordinarie occupazioni, analizzandone il comportamento e le attitudini di fronte alle situazioni della vita. Tuttavia, l’indagine di Serafino non si esaurisce in un mero esercizio intellettuale, in quanto ciò che egli restituisce al lettore non è affatto un insieme di personaggi presentati nella loro coerenza e unitarietà, ma una serie di personalità frantumate e contraddittorie, imprigionate all’interno della forma o maschera che la società gli ha assegnato e incapaci, pertanto, di rendersi conto dei propri limiti.

 

Uno dei passi più significativi dell’opera sintetizza molto bene l’idea del cinema come “macchina da guerra” e il rifiuto di quel “mito della macchina” che, imperante nei primi anni del Novecento, fu poi rifiutato e demonizzato da molti. Pirandello, infatti, scrive: «la macchina con gli enormi guadagni che produce può compensarli molto meglio che qualunque impresario o direttore proprietario di compagnia drammatica. Non solo – ma essa – con le sue riproduzioni meccaniche, potendo offrire a buon mercato al gran pubblico uno spettacolo sempre nuovo, riempie le sale cinematografiche e lascia vuoti i teatri sicchè tutte le compagnie fanno miseri affari. Gli attori odiano la macchina perché si sentono strappati dalla comunione con il pubblico […]. Qua si sentono in esilio […] non soltanto dal palcoscenico ma da loro stessi. Perché l’azione viva, del loro corpo vivo là sullo schermo non c’è più».

 

Nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, quindi, Pirandello si propone di mettere in evidenza il senso di alienazione che attanaglia l’uomo moderno a servizio della macchina. Il narratore adopera la tecnica dell’analessi, che consiste nel presentare un episodio tramite ricordi frammentati di eventi passati. Serafino Gubbio si sente totalmente alienato dal suo lavoro al punto da affermare: «Finii d’esser Gubbio e diventai una mano». Sono passati oltre cento anni dal momento in cui queste parole furono pronunciate per la prima volta a denunciare profeticamente il potere pervasivo della macchina, tema attuale quanto mai.

 

Per Luigi Pirandello la vita è imitata dal cinema e, allo stesso tempo, ne è uccisa. Nella civiltà delle macchine, infatti, come nella finzione scenica, l’uomo è alienato da se stesso, perso nel vertiginoso meccanismo di un’esistenza di automatismi e follie, a cui per pura fatalità anche Serafino si ritrova a partecipare.

 

Egli stesso, cineoperatore, esaminandosi dall’esterno si riconosce come nient’altro che l’ennesimo insignificante elemento di un mondo inautentico e insensibile nel proprio alternarsi fra realtà e finzione; egli è angosciato da tale presa di coscienza, ma è anche costretto, suo malgrado, a vivere un processo psicologico capace di condurlo a una progressiva accettazione filosofica di tale realtà.

 

A differenza di altri personaggi pirandelliani, tuttavia, Serafino non vivrà la propria condizione di “forestiero della vita” come una posizione privilegiata o come il presupposto per una condizione pacificante, ma ne sarà completamente annichilito. Il protagonista del romanzo subito si chiede «se tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno, sempre più si complica e s’accelera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follia che presto proromperà frenetica a sconvolgere e distruggere tutto». I personaggi del romanzo si sentono schiavi della macchina manovrata da Serafino che, suo malgrado, è consapevole di essere il sacerdote di una sorta di rito sacrificale che disumanizza l’uomo, diventato quasi un’appendice della macchina che adopera.

 

Un giorno, poi, il protagonista viene incaricato di riprendere con la sua cinepresa la scena dell’uccisione di una tigre da parte di un cacciatore. All’interno della gabbia si trova l’attore che veste i panni del cacciatore, la tigre e un’attrice. L’attore che dovrebbe uccidere l’animale rivolge l’arma contro l’attrice togliendole la vita per questioni di gelosia e la tigre spaventata si avventa sull’uomo e lo sbrana. Serafino, che sta filmando la scena, rinuncia a ogni forma di sentimento e di comunicazione: egli continua meccanicamente a girare la manovella della cinepresa, indifferente al dramma che si sta consumando davanti ai suoi occhi. Serafino diviene muto per lo shock e si rifugia nell’alienazione.

 

La crudeltà della scena che Serafino si ritroverà a girare con assoluta freddezza, sarà capace di lasciare una profonda ferita nella sua psiche, tale da sconvolgerlo nel profondo e da indurlo a rifiutare qualsiasi ulteriore partecipazione alla vita. Con l’auto-definizione finale di «solo, muto e impassibile» egli infatti accetterà in maniera definitiva la sua nuova condizione di sconfitto. La perdita della voce, tuttavia, rappresenterà per Serafino non solo il blocco di ogni comunicazione con l’esterno, ma anche la paralisi stessa della sua persona fin nelle sue radici più profonde, una condizione ormai definitiva e priva di una qualsivoglia via d’uscita. 

 

Nell’opera pirandelliana, tuttavia, l’assenza della parola è a ben vedere protagonista incontrastata fin dall’inizio del romanzo, sebbene arrivi ad assumere di volta in volta sfaccettature sempre differenti. In primo luogo vi è il silenzio in cui sprofonda l’uomo con l’avvento dei macchinari, capaci di relegarlo alla triste condizione di automa.

 

In proposito, non si può fare a meno di constatare come Pirandello, pur rimanendo ancorato a una visione estremamente individualistica della questione, sia in estremo anticipo sui tempi, trattando una problematica che diverrà di scottante attualità solo nella seconda parte del Novecento, anche se in quegli anni di certo non era avvertita come tale. Con questo romanzo, infatti, lo scrittore siciliano crea un ponte con l’universo immaginato da Fritz Lang nel 1927 con il film Metropolis e dieci anni dopo da Charlie Chaplin nel film Tempi moderni del 1936, in cui si parla proprio dell’uomo robotizzato.

 

Se, pertanto, D’Annunzio vede nel cinema una straordinaria opportunità per consolidare il suo progetto estetico, rappresentando e immaginando i simboli che fondano l’identità nazionale, Pirandello riscontra nel cinema il momento di massima perdita identitaria dell’individuo.

 

I quaderni di Serafino Gubbio, l’operatore che non opera nulla, che prepara la propria macchina di fronte alla scena da riprendere, misura lo spazio, colloca in modo preciso ogni elemento all’interno di un sistema di rapporti, dimostra come il cinema sia lo strumento simbolico che più di ogni altro rivela e accelera il processo di sdoppiamento e di frammentazione dell’individuo che, perso nei meandri della propria personalità, si trova a essere sempre di più uno, nessuno e centomila.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Brunetta G. P., Storia del cinema italiano, vol. 1, Editori Riuniti, s.l. 1993.

Brunetta G. P., Attrazione fatale. Letterati italiani e letteratura dalla pagina allo schermo. Una storia culturale, Mimesis, Milano 2017.

Ciani I., Fotogrammi dannunziani, Ediars, Pescara 1999.

Ferrara G., Il nuovo cinema italiano, ed. Le Monnier, s.l. 1957.

Raya G., Verga e il cinema, Herder, Roma 1984.

Tagliabue C., Cinema e letteratura italiana, Guerra Edizioni, Perugia 1990.

Verdone M., Gabriele D'Annunzio nel cinema italiano, in "Bianco e nero", 1963.

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