[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 213 / SETTEMBRE 2025 (CCXLIV)


arte

LETTEratura italiana e industria cinematografica

linguaggi a confronto / I
di Alessandra Olivares

 

I rapporti tra cinema e letteratura sono stati sempre ambigui e controversi. Il dibattito culturale si è concentrato sul complesso rapporto tra fonti letterarie e immagini filmiche. Come sostiene Biganardi, le questioni di cui tenere conto sono numerose e non sempre ben definite, tra queste «i diritti e le libertà che l'autore cinematografico può assumersi rispetto all'originale letterario; i modi e gli strumenti più opportuni per far confluire un mezzo narrativo nell'altro; l'autonomia o l'obbligo alla fedeltà, teoricamente e sostanzialmente impossibile, del prodotto cinematografico rispetto alle sue fonti; la traduzione in immagine degli espedienti retorici di tipo letterario; i procedimenti narrativi; il valore delle sceneggiature come testo autonomo».

 

Fin dalla sua apparizione, senza alcun dubbio, il cinema esercita sui letterati italiani un interesse e un fascino indiscutibili. Da una parte gli intellettuali avvertono un senso di colpa e di sdoppiamento nel mettere in relazione un’arte nobile e tradizionale, come la letteratura, con la nuova arte popolare rappresentata dal nuovo mezzo espressivo.

 

Eppure la letteratura fa parte del corredo genetico del cinema italiano, ne costituisce la struttura portante, nonostante l’esplosione del cinematografo non ottenne un vero e proprio benvenuto da parte degli intellettuali italiani, che guardavano con sospetto a questa nuova forma di intrattenimento di massa. Anche coloro che si dimostrarono predisposti a collaborare con il cinema, offrendo le proprie opere come fonte da cui trarre le sceneggiature dei film, come nel caso di Luigi Pirandello, lo fecero con quel pudore di chi crede di accostarsi ad ambiti compromettenti dai quali teme di uscirne contaminato. Non a caso tanto più la massa dimostrava di apprezzare la nuova arte, tanto meno gli intellettuali mostravano di gradirla.

 

C’è poi da considerare l’influenza che la letteratura e i letterati hanno sempre esercitato nella filiera del processo creativo e realizzativo del film, fino al riconoscimento di un ruolo privilegiato come custodi della memoria cinematografica. Un rapporto che certo può essere visto come un impedimento alla piena individualizzazione del nuovo mezzo espressivo, ma che invece rappresenta l’elemento identitario del cinema italiano.

 

La nuova invenzione sembra realizzare finalmente l’antico sogno dell’uomo di riprodurre la realtà e, infatti, i primi film dimostrano l’utilizzo del cinema come documento di quanto accade nella società contemporanea. Presto, tuttavia, si avverte la necessità di narrare storie, anche immaginarie o comunque verosimili.

 

Pertanto il cinema si trova costretto a prendere in prestito i soggetti delle sceneggiature da altre forme d’arte, attingendo al patrimonio culturale dove erano custoditi i frutti della creatività e dell’immaginazione umane. E come sottolinea Tagliabue, proprio la letteratura diventa, fin dagli inizi della storia del cinema, la fonte primaria della nuova forma di comunicazione per immagini, che ai primi del ‘900 pone nelle mani dell’uomo uno strumento “magico”, dalle infinite possibilità, compresa quella di “narrare l’inenarrabile”, di dare forma ai sogni e animare la fantasia, rappresentando ciò che non era mai stato rappresentato.

 

Da questo momento in poi il cinema ha sempre ricercato storie da raccontare attraverso le immagini e la letteratura ha rappresentato la fonte primaria di tale approvvigionamento. Gli studiosi sono concordi nel considerare Il fornaretto di Venezia del 1907, il primo film italiano che ha come soggetto un’opera letteraria. Prodotto dalla Cines di Roma e tratto dall’omonimo dramma di Francesco Dall’Ongaro è un testo appartenente alla tradizione romantica, cultura ancora viva e diffusa nel pubblico italiano dell’epoca e di particolare interesse per il cinema italiano, come testimoniano le due versioni dei Promessi sposi uscite nel 1908: la prima firmata da Mario Morais e la seconda da Giuseppe De Liguoro.

 

Dal 1908 al 1922, il romanzo di Alessandro Manzoni ha avuto ben otto trasposizioni cinematografiche durante il periodo del muto. Certamente queste prime traduzioni cinematografiche di opere letterarie sono limitate dalla struttura stessa e dalle configurazioni tecniche del cinema delle origini, che rendono di fatto impossibile articolare e proporre un discorso, se non fedele, che abbia comunque una relazione complessa con il testo letterario preso in considerazione. Infatti, i film avevano la lunghezza di poche centinaia di metri: impossibile quindi tradurre nel giro di qualche minuto il contenuto di un’opera letteraria.

 

La prima versione cinematografica del romanzo di Manzoni aveva una durata di 11 minuti, tempo assolutamente insufficiente anche solo per narrare gli episodi principali o delineare il ritratto di uno solo dei personaggi del capolavoro manzoniano. Tuttavia nel giro di pochi anni la struttura delle opere cinematografiche assumerà i caratteri tipici dei film come li conosciamo oggi. E infatti l’ultima trasposizione cinematografica dei Promessi sposi, quella del 1922, ha la durata di 186 minuti divisi in due episodi.

 

Ma in questi anni la critica cinematografica, che aveva la sua formazione specifica nella critica letteraria, si concentra soprattutto sulla questione della “fedeltà” dell’opera cinematografica al testo letterario. E non mancano aspre critiche in tal senso, che tuttavia non scoraggiano registi e cineasti nel continuare a trarre i soggetti delle loro sceneggiature dalla letteratura. Inoltre, l’enorme successo di massa ottenuto dal cinema e gli ingenti profitti economici rendono del tutto irrilevante la questione della fedeltà al testo.

 

Il cinema ha la necessità di reperire soggetti per le sceneggiature e la letteratura rappresenta la fonte più diretta e immediata per questa operazione di reperimento. Pertanto, l’industria cinematografica fin dai suoi primi passi si pone nei confronti della letteratura, come di fronte a un testo unico a cui attingere senza limiti per la transcodificazione di tutta la memoria letteraria e la produzione di un nuovo tipo di memoria, capace di raggiungere pubblici mai raggiunti dai testi letterari.

 

Come sottolinea Gian Piero Brunetta è evidente nella relazione tra cinema e letteratura l’intenzione di trasferire la biblioteca delle opere letterarie in una corrispondente filmoteca che, nel giro di pochi anni, sarà popolata dai nomi più illustri della nostra letteratura: Dante, Ariosto, Tasso, Foscolofino a Verga, Capuana, Deledda e Serao, solo per citarne alcuni.

 

Il rapporto tra il nostro cinema e la letteratura italiana, quindi, da un punto di vista quantitativo è molto intenso, come lo è il dibattito culturale che lo accompagna. Non è possibile ignorare il fatto che la nuova invenzione nel giro di pochi anni aveva completamente cambiato i riti dello spettacolo, le modalità di rappresentazione della realtà imponendosi a livello di massa. Gli intellettuali e gli scrittori italiani, quindi, entrano inevitabilmente in contatto con il cinema confrontandosi con esso, anche se il rapporto con questa nuova forma di espressione non viene mai risolta e chiarita in modo definitivo.

 

Il cinema come luogo mitopoietico dell’estetica dannunziana

  

Nonostante la settima arte, sin dalle sue origini, abbia avuto un intenso rapporto con la letteratura, in particolare romantica, l’incontro decisivo tra cinema e cultura in Italia fu determinato dalla collaborazione diretta di Gabriele D’Annunzio con il nuovo linguaggio espressivo. A partire dagli anni dieci del Ventesimo secolo emergono nuove tendenze nelle modalità di rapportarsi con i testi letterari dai quali attingere le storie per lo schermo.

 

In questo periodo il cinema enfatizza al massimo la sua capacità e volontà di meravigliare e di suscitare nello spettatore emozioni forti e mai sperimentate. Allo stesso tempo il linguaggio e la tecnica si evolvono, la lunghezza dei film acquista una sua durata standard e il rapporto con la letteratura diventa ancora più intenso.

 

In questo contesto altamente innovativo è fondamentale, per cogliere l’evoluzione di tale rapporto, l’analisi del ruolo svolto da Gabriele D’Annunzio nei confronti di quella che egli stesso definiva la nuova invenzione. L’atteggiamento del Vate nei confronti dell’industria cinematografica, tuttavia, appare ambiguo e caratterizzato da un duplice aspetto. Inizialmente D’Annunzio appare fortemente interessato alla produzione cinematografica e dimostra di apprezzarla non poco.

 

Nel 1908 in un’intervista sul “Corriere della Sera” dichiarache il cinema può diventare uno strumento efficacissimo di elevazione del gusto e del pensiero e di rafforzamento estetico e d’istruzione. E ancora nel 1914, sempre sul “Corriere della Sera” si poteva leggere: «A Milano fui attratto dalla nuova invenzione che mi pareva potesse muovere una nuova estetica del movimento. […] Pensavo che dal cinematografo potesse nascere un’arte piacevole il cui elemento essenziale fosse il meraviglioso». Nonostante D’Annunzio dichiari che lo schermo è l’unico luogo in cui è possibile “proiettare” sogni e desideri, individuali e collettivi, e nonostante fosse lo scrittore italiano più visitato dal cinema in quegli anni, l’atteggiamento favorevole nei confronti di questa “fabbrica del meraviglioso” non durerà a lungo. Al contrario, con il tempo D’Annunzio dimostrerà disinteresse e quasi fastidio nei confronti del cinema.

 

Come è noto, Gabriele D’Annunzio è stato un uomo poliedrico, un intellettuale dalla personalità eccentrica e inimitabile che ha profondamente influenzato la sua epoca, anche se del Decadentismo non pare aver colto il dramma morale, ma solo alcuni atteggiamenti in cui esprime il suo disprezzo per la mediocrità borghese. Egli incarna le figure dell’esteta, l’individuo dalla sensibilità sopraffine che concepisce la vita come culto dell’arte e della bellezza, e del superuomo, colui che è capace di vivere una vita fuori dal comune, all’insegna dell’eroismo. Questi modi di sentire hanno avuto una ricaduta su tutta la sua produzione artistica, compresa la sua collaborazione con l’industria cinematografica, di cui ha saputo intuire tutte le potenzialità.

 

La sua influenza sul cinema fu intensa e determinata non tanto dal suo coinvolgimento diretto nella realizzazione di film, quanto dal fatto di aver promosso una tendenza, il “dannunzianesimo cinematografico”, veicolata dalla trasposizione sullo schermo della sua opera letteraria, i cui ingredienti sono il divismo, la sensualità, i personaggi raffinati ed estetizzanti. La traduzione cinematografica delle opere di D’Annunzio ha la sua massima concentrazione negli anni di maggior splendore del cinema italiano nel periodo del muto. La figlia di Jorio, La fiaccola sotto il moggio, La gioconda, L’innocente, La nave sono tutti film realizzati nel 1911. Di alcuni di questi ci saranno versioni successive, come nel caso del film La nave del 1921, per la regia del figlio Gabriellino che chiude il rapporto piuttosto fitto di D’annunzio con il cinema.

 

C’è da sottolineare che lo scrittore non dimostra mai di interessarsi molto a quanto viene realizzato nel cinema dalle sue opere, né si preoccupa di rispettare gli impegni presi contrattualmente e questo gli causerà non poche controversie legali. Per quanto riguarda l’interesse a seguire la realizzazione cinematografica dei suoi lavori letterari, l’atteggiamento di D’Annunzio è improntato sulla totale indifferenza. Non desidera vedere come le sue opere vengano tradotte dalla nuova invenzione, né gli interessa verificare l’attinenza dei film con i soggetti da cui sono tratti. E anche quando lo scrittore partecipa direttamente alla realizzazione di un film, come vedremo con il caso di Cabiria, l’interesse che lo muove è prevalentemente di carattere economico e non certo legato alla stima e alla considerazione nei confronti dell’industria cinematografica.

 

Nonostante D’Annunzio avesse provato a scrivere dei soggetti per il cinema questi non vennero mai realizzati, tranne La crociata degli innocenti, un film diretto da Alberto Traversa non particolarmente eccellente, in realtà dal risultato finale piuttosto modesto. L’unico film al quale lo scrittore partecipa direttamente è Cabiria realizzato nel 1914 da Giovanni Pastrone e considerato il più illustre colossal italiano del cinema muto. Il film è ambientato nel III secolo a.C., durante le guerre puniche e i soggetti utilizzati per la scrittura della sceneggiatura furono tratti dai romanzi di Emilio Salgari, Gustave Flaubert e alcune cronache dello scrittore latino Tito Livio.

 

A Catania, la piccola Cabiria riesce a salvarsi con l’aiuto della nutrice dall’eruzione dell’Etna, ma finisce per essere rapita dai pirati fenici, che vendono la giovane a Cartagine, come vittima da immolare nel tempio del dio Moloch. Fortunatamente il romano Fulvio Axilla e il suo schiavo Maciste riescono a liberarla, consegnandola alle cure della regina Sofonisba. Dieci anni più tardi, dopo molte guerre e altrettante alleanze, Cartagine viene conquistata dai Romani e Cabiria ritorna a casa con Fulvio. Nella scena finale i due si abbracciano, avendo scoperto di essere innamorati.

 

Al di là della trama, Cabiria è un’opera fondamentale per lo studio del rapporto tra letterati e cinema delle origini. D’Annunzio entra nel film con un peso specifico superiore a quello immaginato dal giovane regista quando propose al poeta un «progetto di buon profitto con il minimo disturbo». La proposta di Pastrone è per D’annunzio l’occasione di saldare i suoi debiti, dato il compenso enorme per quell’epoca. Ma non ci sono dubbi che lo scrittore sia anche affascinato dalle potenzialità del cinema di raggiungere orizzonti non concessi alla parola.

 

A D’Annunzio venne chiesto di scrivere le didascalie del film e lo fece con la piena convinzione che questo testo scritto, riproposto sulla scena, più che svolgere un ruolo di supporto all’azione, dovesse servire a illuminarla, considerando la didascalia una struttura poetica indispensabile che produce la visione. Il cinema offre allo scrittore l’occasione per rafforzare le sue convinzioni in questo senso.

 

Pastrone chiese a Gabriele D’Annunzio di rielaborare le didascalie approntate da lui stesso. Infatti in Cabiria esse tendono a seguire due registri diversi: uno “alto”, nel quale si avverte maggiormente l’intervento di D’Annunzio e un altro più “basso” che contraddistingue i passaggi eminentemente narrativi del film, dal tono meno solenne e da attribuirsi pressoché integralmente a Pastrone. Nelle didascalie dal registro “alto”, il Poeta che ha sempre ricercato la parola raffinata, inconsueta e suggestiva impiega un linguaggio letterario, votato al sublime, basato su strutture sintattiche latine e su un lessico aulico e arcaizzante, allontanandosi del tutto dalla lingua comunemente impiegata nelle didascalie degli altri film.

 

Sebbene, quindi, il Vate si limiti a firmare le auliche didascalie e a suggerire i nomi di alcuni personaggi, oltre al titolo stesso del film, Cabiria, letteralmente “nata dal fuoco”, a lui è attribuita la totale paternità del film, dal momento che lo stesso Pastrone gli chiese di firmare a suo nome l’intera opera. In questo modo, il regista costruì intorno al film una vera e propria campagna pubblicitaria che aveva in D’Annunzio un testimonial illustre, garante della qualità del prodotto, al quale ha conferito una dignità artistica e culturale modificando, in modo importante, l’equilibrio dei rapporti tra cinema e letteratura.

 

D’Annunzio vede nello schermo il luogo per eccellenza per realizzare l’utopia wagneriana dell’opera d’arte totale, dal momento che il progetto ambizioso unisce diverse forme d’arte: la tradizione teatrale, la pittura nelle grandi scenografie, la musica, fatta realizzare appositamente per il film e,infine, la letteratura. In questo modo, come ha scritto Brunetta «la tela bianca può caricarsi del peso delle grandi mitologie e il passato proporsi, grazie al cinema, come realtà rappresentativa di aspirazioni future d’un intero popolo». Pertanto, Cabiria è un’opera unica che dimostra l’importanza del contributo del Vate allo sviluppo del primo cinema italiano.

 

L’aspetto forse più interessante da sottolineare è l’influenza che l’opera e la figura di D’Annunzio hanno avuto nel pervadere e caratterizzare un’epoca in tutti i suoi aspetti. Quello che è stato definito il dannunzianesimo ha coinvolto pienamente anche il cinema, anzi proprio in esso trova il terreno più fertile per diffondersi e proporre alle masse, enfatizzandoli, quegli atteggiamenti esistenziali, fatti di eroismi e grandi passioni, tipici contenuti delle opere del Poeta.

 

Pertanto è proprio il cinema, più della letteratura stessa, a dare rilievo e spazio alle sensazioni e alle atmosfere decadenti e sensuali che D’Annunzio aveva immaginato nei suoi testi. I film dell’epoca propongono storie che possiamo definire dannunziane: passioni sfrenate, estasi amorose, personaggi eroici, sentimenti esasperati e retorici.

 

Le innovazioni da lui apportate nel cinema si concentrano nella sensualità, in atmosfere decadenti e rarefatte e in personaggi estetizzanti. Lancia l’immagine della femminilità promossa attraverso donne ammaliatrici, fascinose ed erotiche come Lyda Borelli e Eleonora Duse. Nascono le figure di attrici languide, magiche e astratte con il loro particolare stile di recitazione, nasce il divismo. 

 

D’altra parte, l’incontro di Gabriele D’Annunzio con il cinema rappresenta per lo scrittore, al di là del movente economico, una delle tante occasioni per costruire il mito di se stesso, l’opera forse più autentica del Poeta. Il suo modo di accostarsi a questa nuova espressione artistica è stato del tutto innovativo. D’Annunzio ha fatto cinema con soggetti mai realizzati, esperimenti con la macchina da presa e regie più o meno accreditate, ma ha anche teorizzato sul cinema, inserendo quest’ultimo all’interno delle sue coordinate poetico-ideologiche, per certi versi in qualche modo tributarie delle aperture futuriste e avanguardiste.

 

La sua collaborazione con la settima arte è stata sempre segnata da una ricerca del bello e dalla volontà di farsi promotore di importanti conoscenze storiche e letterarie, mettendo a servizio le sue eccellenti doti poetiche per la realizzazione di un’opera che potesse offrire al grande pubblico un’occasione di elevazione dello spirito e un momento di distrazione e fuga dalla realtà quotidiana.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]