I rapporti tra cinema e letteratura
sono stati sempre ambigui e
controversi. Il dibattito culturale
si è concentrato sul complesso
rapporto tra fonti letterarie e
immagini filmiche. Come sostiene
Biganardi, le questioni di cui
tenere conto sono numerose e non
sempre ben definite, tra queste «i
diritti e le libertà che l'autore
cinematografico può assumersi
rispetto all'originale letterario; i
modi e gli strumenti più opportuni
per far confluire un mezzo narrativo
nell'altro; l'autonomia o l'obbligo
alla fedeltà, teoricamente e
sostanzialmente impossibile, del
prodotto cinematografico rispetto
alle sue fonti; la traduzione in
immagine degli espedienti retorici
di tipo letterario; i procedimenti
narrativi; il valore delle
sceneggiature come testo autonomo».
Fin dalla sua apparizione, senza
alcun dubbio, il cinema esercita sui
letterati italiani un interesse e un
fascino indiscutibili. Da una parte
gli intellettuali avvertono un senso
di colpa e di sdoppiamento nel
mettere in relazione un’arte nobile
e tradizionale, come la letteratura,
con la nuova arte popolare
rappresentata dal nuovo mezzo
espressivo.
Eppure la letteratura fa parte del
corredo genetico del cinema
italiano, ne costituisce la
struttura portante, nonostante
l’esplosione del cinematografo non
ottenne un vero e proprio benvenuto
da parte degli intellettuali
italiani, che guardavano con
sospetto a questa nuova forma di
intrattenimento di massa. Anche
coloro che si dimostrarono
predisposti a collaborare con il
cinema, offrendo le proprie opere
come fonte da cui trarre le
sceneggiature dei film, come nel
caso di Luigi Pirandello, lo fecero
con quel pudore di chi crede di
accostarsi ad ambiti compromettenti
dai quali teme di uscirne
contaminato. Non a caso tanto più la
massa dimostrava di apprezzare la
nuova arte, tanto meno gli
intellettuali mostravano di
gradirla.
C’è poi da considerare l’influenza
che la letteratura e i letterati
hanno sempre esercitato nella
filiera del processo creativo e
realizzativo del film, fino al
riconoscimento di un ruolo
privilegiato come custodi della
memoria cinematografica. Un rapporto
che certo può essere visto come un
impedimento alla piena
individualizzazione del nuovo mezzo
espressivo, ma che invece
rappresenta l’elemento identitario
del cinema italiano.
La nuova invenzione sembra
realizzare finalmente l’antico sogno
dell’uomo di riprodurre la realtà e,
infatti, i primi film dimostrano
l’utilizzo del cinema come documento
di quanto accade nella società
contemporanea. Presto, tuttavia, si
avverte la necessità di narrare
storie, anche immaginarie o comunque
verosimili.
Pertanto il cinema si trova
costretto a prendere in prestito i
soggetti delle sceneggiature da
altre forme d’arte, attingendo al
patrimonio culturale dove erano
custoditi i frutti della creatività
e dell’immaginazione umane. E come
sottolinea Tagliabue, proprio la
letteratura diventa, fin dagli inizi
della storia del cinema, la fonte
primaria della nuova forma di
comunicazione per immagini, che ai
primi del ‘900 pone nelle mani
dell’uomo uno strumento “magico”,
dalle infinite possibilità, compresa
quella di “narrare
l’inenarrabile”, di dare forma
ai sogni e animare la fantasia,
rappresentando ciò che non era mai
stato rappresentato.
Da questo momento in poi il cinema
ha sempre ricercato storie da
raccontare attraverso le immagini e
la letteratura ha rappresentato la
fonte primaria di tale
approvvigionamento. Gli studiosi
sono concordi nel considerare Il
fornaretto di Venezia del 1907,
il primo film italiano che ha come
soggetto un’opera letteraria.
Prodotto dalla Cines di Roma e
tratto dall’omonimo dramma di
Francesco Dall’Ongaro è un testo
appartenente alla tradizione
romantica, cultura ancora viva e
diffusa nel pubblico italiano
dell’epoca e di particolare
interesse per il cinema italiano,
come testimoniano le due versioni
dei Promessi sposi uscite nel
1908: la prima firmata da Mario
Morais e la seconda da Giuseppe De
Liguoro.
Dal 1908 al 1922, il romanzo di
Alessandro Manzoni ha avuto ben otto
trasposizioni cinematografiche
durante il periodo del muto.
Certamente queste prime traduzioni
cinematografiche di opere letterarie
sono limitate dalla struttura stessa
e dalle configurazioni tecniche del
cinema delle origini, che rendono di
fatto impossibile articolare e
proporre un discorso, se non fedele,
che abbia comunque una relazione
complessa con il testo letterario
preso in considerazione. Infatti, i
film avevano la lunghezza di poche
centinaia di metri: impossibile
quindi tradurre nel giro di qualche
minuto il contenuto di un’opera
letteraria.
La prima versione cinematografica
del romanzo di Manzoni aveva una
durata di 11 minuti, tempo
assolutamente insufficiente anche
solo per narrare gli episodi
principali o delineare il ritratto
di uno solo dei personaggi del
capolavoro manzoniano. Tuttavia nel
giro di pochi anni la struttura
delle opere cinematografiche
assumerà i caratteri tipici dei film
come li conosciamo oggi. E infatti
l’ultima trasposizione
cinematografica dei Promessi
sposi, quella del 1922, ha la
durata di 186 minuti divisi in due
episodi.
Ma in questi anni la critica
cinematografica, che aveva la sua
formazione specifica nella critica
letteraria, si concentra soprattutto
sulla questione della “fedeltà”
dell’opera cinematografica al testo
letterario. E non mancano aspre
critiche in tal senso, che tuttavia
non scoraggiano registi e cineasti
nel continuare a trarre i soggetti
delle loro sceneggiature dalla
letteratura. Inoltre, l’enorme
successo di massa ottenuto dal
cinema e gli ingenti profitti
economici rendono del tutto
irrilevante la questione della
fedeltà al testo.
Il cinema ha la necessità di
reperire soggetti per le
sceneggiature e la letteratura
rappresenta la fonte più diretta e
immediata per questa operazione di
reperimento. Pertanto, l’industria
cinematografica fin dai suoi primi
passi si pone nei confronti della
letteratura, come di fronte a un
testo unico a cui attingere senza
limiti per la transcodificazione di
tutta la memoria letteraria e la
produzione di un nuovo tipo di
memoria, capace di raggiungere
pubblici mai raggiunti dai testi
letterari.
Come sottolinea Gian Piero Brunetta
è evidente nella relazione tra
cinema e letteratura l’intenzione di
trasferire la biblioteca delle opere
letterarie in una corrispondente
filmoteca che, nel giro di pochi
anni, sarà popolata dai nomi più
illustri della nostra letteratura:
Dante, Ariosto, Tasso, Foscolofino a
Verga, Capuana, Deledda e Serao,
solo per citarne alcuni.
Il rapporto tra il nostro cinema e
la letteratura italiana, quindi, da
un punto di vista quantitativo è
molto intenso, come lo è il
dibattito culturale che lo
accompagna. Non è possibile ignorare
il fatto che la nuova invenzione nel
giro di pochi anni aveva
completamente cambiato i riti dello
spettacolo, le modalità di
rappresentazione della realtà
imponendosi a livello di massa. Gli
intellettuali e gli scrittori
italiani, quindi, entrano
inevitabilmente in contatto con il
cinema confrontandosi con esso,
anche se il rapporto con questa
nuova forma di espressione non viene
mai risolta e chiarita in modo
definitivo.
Il cinema come luogo mitopoietico
dell’estetica dannunziana
Nonostante la settima arte, sin
dalle sue origini, abbia avuto un
intenso rapporto con la letteratura,
in particolare romantica, l’incontro
decisivo tra cinema e cultura in
Italia fu determinato dalla
collaborazione diretta di Gabriele
D’Annunzio con il nuovo linguaggio
espressivo. A partire dagli anni
dieci del Ventesimo secolo emergono
nuove tendenze nelle modalità di
rapportarsi con i testi letterari
dai quali attingere le storie per lo
schermo.
In questo periodo il cinema
enfatizza al massimo la sua capacità
e volontà di meravigliare e
di suscitare nello spettatore
emozioni forti e mai
sperimentate. Allo stesso tempo il
linguaggio e la tecnica si evolvono,
la lunghezza dei film acquista una
sua durata standard e il rapporto
con la letteratura diventa ancora
più intenso.
In questo contesto altamente
innovativo è fondamentale, per
cogliere l’evoluzione di tale
rapporto, l’analisi del ruolo svolto
da Gabriele D’Annunzio nei confronti
di quella che egli stesso definiva
la nuova invenzione.
L’atteggiamento del Vate nei
confronti dell’industria
cinematografica, tuttavia, appare
ambiguo e caratterizzato da un
duplice aspetto. Inizialmente
D’Annunzio appare fortemente
interessato alla produzione
cinematografica e dimostra di
apprezzarla non poco.
Nel 1908 in un’intervista sul
“Corriere della Sera” dichiarache il
cinema può diventare uno strumento
efficacissimo di elevazione del
gusto e del pensiero e di
rafforzamento estetico e
d’istruzione. E ancora nel 1914,
sempre sul “Corriere della Sera” si
poteva leggere: «A Milano fui
attratto dalla nuova invenzione che
mi pareva potesse muovere una nuova
estetica del movimento. […] Pensavo
che dal cinematografo potesse
nascere un’arte piacevole il cui
elemento essenziale fosse il
meraviglioso». Nonostante
D’Annunzio dichiari che lo schermo è
l’unico luogo in cui è possibile
“proiettare” sogni e desideri,
individuali e collettivi, e
nonostante fosse lo scrittore
italiano più visitato dal cinema in
quegli anni, l’atteggiamento
favorevole nei confronti di questa “fabbrica
del meraviglioso” non durerà a
lungo. Al contrario, con il tempo
D’Annunzio dimostrerà disinteresse e
quasi fastidio nei confronti del
cinema.
Come è noto, Gabriele D’Annunzio è
stato un uomo poliedrico, un
intellettuale dalla personalità
eccentrica e inimitabile che ha
profondamente influenzato la sua
epoca, anche se del Decadentismo non
pare aver colto il dramma morale, ma
solo alcuni atteggiamenti in cui
esprime il suo disprezzo per la
mediocrità borghese. Egli incarna le
figure dell’esteta, l’individuo
dalla sensibilità sopraffine che
concepisce la vita come culto
dell’arte e della bellezza, e del
superuomo, colui che è capace di
vivere una vita fuori dal comune,
all’insegna dell’eroismo. Questi
modi di sentire hanno avuto una
ricaduta su tutta la sua produzione
artistica, compresa la sua
collaborazione con l’industria
cinematografica, di cui ha saputo
intuire tutte le potenzialità.
La sua influenza sul cinema fu
intensa e determinata non tanto dal
suo coinvolgimento diretto nella
realizzazione di film, quanto dal
fatto di aver promosso una tendenza,
il “dannunzianesimo
cinematografico”, veicolata dalla
trasposizione sullo schermo della
sua opera letteraria, i cui
ingredienti sono il divismo, la
sensualità, i personaggi raffinati
ed estetizzanti. La traduzione
cinematografica delle opere di
D’Annunzio ha la sua massima
concentrazione negli anni di maggior
splendore del cinema italiano nel
periodo del muto. La figlia di
Jorio, La fiaccola sotto il
moggio, La
gioconda, L’innocente,
La nave sono tutti film
realizzati nel 1911. Di alcuni di
questi ci saranno versioni
successive, come nel caso del film
La nave del 1921, per la
regia del figlio Gabriellino che
chiude il rapporto piuttosto fitto
di D’annunzio con il cinema.
C’è da sottolineare che lo scrittore
non dimostra mai di interessarsi
molto a quanto viene realizzato nel
cinema dalle sue opere, né si
preoccupa di rispettare gli impegni
presi contrattualmente e questo gli
causerà non poche controversie
legali. Per quanto riguarda
l’interesse a seguire la
realizzazione cinematografica dei
suoi lavori letterari,
l’atteggiamento di D’Annunzio è
improntato sulla totale
indifferenza. Non desidera vedere
come le sue opere vengano tradotte
dalla nuova invenzione, né gli
interessa verificare l’attinenza dei
film con i soggetti da cui sono
tratti. E anche quando lo scrittore
partecipa direttamente alla
realizzazione di un film, come
vedremo con il caso di Cabiria,
l’interesse che lo muove è
prevalentemente di carattere
economico e non certo legato alla
stima e alla considerazione nei
confronti dell’industria
cinematografica.
Nonostante D’Annunzio avesse provato
a scrivere dei soggetti per il
cinema questi non vennero mai
realizzati, tranne La crociata
degli innocenti, un film diretto
da Alberto Traversa non
particolarmente eccellente, in
realtà dal risultato finale
piuttosto modesto. L’unico film al
quale lo scrittore partecipa
direttamente è Cabiria
realizzato nel 1914 da Giovanni
Pastrone e considerato il più
illustre colossal italiano del
cinema muto. Il film è ambientato
nel III secolo a.C., durante le
guerre puniche e i soggetti
utilizzati per la scrittura della
sceneggiatura furono tratti dai
romanzi di Emilio Salgari, Gustave
Flaubert e alcune cronache dello
scrittore latino Tito Livio.
A Catania, la piccola Cabiria riesce
a salvarsi con l’aiuto della nutrice
dall’eruzione dell’Etna, ma finisce
per essere rapita dai pirati fenici,
che vendono la giovane a Cartagine,
come vittima da immolare nel tempio
del dio Moloch. Fortunatamente il
romano Fulvio Axilla e il suo
schiavo Maciste riescono a
liberarla, consegnandola alle cure
della regina Sofonisba. Dieci anni
più tardi, dopo molte guerre e
altrettante alleanze, Cartagine
viene conquistata dai Romani e
Cabiria ritorna a casa con Fulvio.
Nella scena finale i due si
abbracciano, avendo scoperto di
essere innamorati.
Al di là della trama, Cabiria
è un’opera fondamentale per lo
studio del rapporto tra letterati e
cinema delle origini. D’Annunzio
entra nel film con un peso specifico
superiore a quello immaginato dal
giovane regista quando propose al
poeta un «progetto di buon
profitto con il minimo disturbo».
La proposta di Pastrone è per
D’annunzio l’occasione di saldare i
suoi debiti, dato il compenso enorme
per quell’epoca. Ma non ci sono
dubbi che lo scrittore sia anche
affascinato dalle potenzialità del
cinema di raggiungere orizzonti non
concessi alla parola.
A D’Annunzio venne chiesto di
scrivere le didascalie del film e lo
fece con la piena convinzione che
questo testo scritto, riproposto
sulla scena, più che svolgere un
ruolo di supporto all’azione,
dovesse servire a illuminarla,
considerando la didascalia una
struttura poetica indispensabile che
produce la visione. Il cinema offre
allo scrittore l’occasione per
rafforzare le sue convinzioni in
questo senso.
Pastrone chiese a Gabriele
D’Annunzio di rielaborare le
didascalie approntate da lui stesso.
Infatti in Cabiria esse
tendono a seguire due registri
diversi: uno “alto”, nel quale si
avverte maggiormente l’intervento di
D’Annunzio e un altro più “basso”
che contraddistingue i passaggi
eminentemente narrativi del film,
dal tono meno solenne e da
attribuirsi pressoché integralmente
a Pastrone. Nelle didascalie dal
registro “alto”, il Poeta che ha
sempre ricercato la parola
raffinata, inconsueta e suggestiva
impiega un linguaggio letterario,
votato al sublime, basato su
strutture sintattiche latine e su un
lessico aulico e arcaizzante,
allontanandosi del tutto dalla
lingua comunemente impiegata nelle
didascalie degli altri film.
Sebbene, quindi, il Vate si limiti a
firmare le auliche didascalie e a
suggerire i nomi di alcuni
personaggi, oltre al titolo stesso
del film, Cabiria,
letteralmente “nata dal fuoco”, a
lui è attribuita la totale paternità
del film, dal momento che lo stesso
Pastrone gli chiese di firmare a suo
nome l’intera opera. In questo modo,
il regista costruì intorno al film
una vera e propria campagna
pubblicitaria che aveva in
D’Annunzio un testimonial
illustre, garante della qualità del
prodotto, al quale ha conferito una
dignità artistica e culturale
modificando, in modo importante,
l’equilibrio dei rapporti tra cinema
e letteratura.
D’Annunzio vede nello schermo il
luogo per eccellenza per realizzare
l’utopia wagneriana dell’opera
d’arte totale, dal momento che il
progetto ambizioso unisce diverse
forme d’arte: la tradizione
teatrale, la pittura nelle grandi
scenografie, la musica, fatta
realizzare appositamente per il film
e,infine, la letteratura. In questo
modo, come ha scritto Brunetta «la
tela bianca può caricarsi del peso
delle grandi mitologie e il passato
proporsi, grazie al cinema, come
realtà rappresentativa di
aspirazioni future d’un intero
popolo». Pertanto,
Cabiria
è un’opera unica che dimostra
l’importanza del contributo del Vate
allo sviluppo del primo cinema
italiano.
L’aspetto forse più interessante da
sottolineare è l’influenza che
l’opera e la figura di D’Annunzio
hanno avuto nel pervadere e
caratterizzare un’epoca in tutti i
suoi aspetti. Quello che è stato
definito il dannunzianesimo
ha coinvolto pienamente anche il
cinema, anzi proprio in esso trova
il terreno più fertile per
diffondersi e proporre alle masse,
enfatizzandoli, quegli atteggiamenti
esistenziali, fatti di eroismi e
grandi passioni, tipici contenuti
delle opere del Poeta.
Pertanto è proprio il cinema, più
della letteratura stessa, a dare
rilievo e spazio alle sensazioni e
alle atmosfere decadenti e sensuali
che D’Annunzio aveva immaginato nei
suoi testi. I film dell’epoca
propongono storie che possiamo
definire dannunziane:
passioni sfrenate, estasi amorose,
personaggi eroici, sentimenti
esasperati e retorici.
Le innovazioni da lui apportate nel
cinema si concentrano nella
sensualità, in atmosfere decadenti e
rarefatte e in personaggi
estetizzanti. Lancia l’immagine
della femminilità promossa
attraverso donne ammaliatrici,
fascinose ed erotiche come Lyda
Borelli e Eleonora Duse. Nascono le
figure di attrici languide, magiche
e astratte con il loro particolare
stile di recitazione, nasce il divismo.
D’altra parte, l’incontro di
Gabriele D’Annunzio con il cinema
rappresenta per lo scrittore, al di
là del movente economico, una delle
tante occasioni per costruire il
mito di se stesso, l’opera forse più
autentica del Poeta. Il suo modo di
accostarsi a questa nuova
espressione artistica è stato del
tutto innovativo.
D’Annunzio ha fatto cinema con
soggetti mai realizzati, esperimenti
con la macchina da presa e regie più
o meno accreditate, ma ha anche
teorizzato sul cinema, inserendo
quest’ultimo all’interno delle sue
coordinate poetico-ideologiche, per
certi versi in qualche modo
tributarie delle aperture futuriste
e avanguardiste.
La sua collaborazione con la settima
arte è stata sempre segnata da una
ricerca del bello e dalla volontà di
farsi promotore di importanti
conoscenze storiche e letterarie,
mettendo a servizio le sue
eccellenti doti poetiche per la
realizzazione di un’opera che
potesse offrire al grande pubblico
un’occasione di elevazione dello
spirito e un momento di distrazione
e fuga dalla realtà quotidiana.