N. 4 - Aprile 2008
(XXXV)
NON C’E’ LEGALITA’ SENZA CULTURA
Prolusione per l’inaugurazione dell’Anno
Accademico dell’Università MEDITERRANEA
di Pietro Grasso
«
Magnifico Rettore, Autorità civili, militari e
religiose, cari studenti, signore e signori, ho accolto
con deferente rispetto e con sincero e spontaneo
entusiasmo l’invito a presenziare a questa solenne
cerimonia, che segna l’inizio dell’anno accademico
dell’Università Mediterranea.

Sono
veramente onorato di avere la possibilità di svolgere
qualche riflessione su un tema, come quello della
legalità, insolito nel tempio di una Istituzione,
l’Università, chiamata ad elargire cultura. Mi sono,
però, ritrovato immediatamente in sintonia con il
Magnifico Rettore, allorché mi ha espresso la sua
convinzione, oggi ribadita, che una Università matura
non può limitarsi a diffondere solo i principi della
conoscenza, del sapere, dell’educazione alla libertà
d’azione, tralasciando il contesto ambientale con cui
gli studenti sono chiamati ad interagire, la realtà
calabrese, caratterizzata da una incombente presenza
della criminalità, che li pone in una condizione di
evidente svantaggio rispetto alle prospettive del loro
futuro.
Del
resto, non esiste cultura fuori della società e delle
dinamiche interattive, che caratterizzano l’acquisizione
e la trasmissione di conoscenze, di valori, la
formazione di idee, di attitudini e di competenze.
Non
esiste cultura fuori della storia, se per cultura si
intende quel complesso di manifestazioni della vita,
materiale, sociale e spirituale, di un popolo in un dato
momento storico. Manifestazioni che comprendono la
conoscenza, le credenze religiose, l’arte, la morale, la
legge, le tradizioni, i costumi e ogni altra abitudine e
capacità acquisita dall’uomo, come membro della società.
Capacità non solo di apprendere, ma anche di trasmettere
conoscenza alle generazioni successive, attraverso il
linguaggio, il pensiero ed altri strumenti.
I
giovani sono, da sempre, i più sensibili nel recepire
tutto ciò che promana da scelte esistenziali forti, da
esempi di vita. Ascoltano più volentieri i testimoni che
i maestri. Il maestro sale in cattedra addita una via,
un ideale da seguire; il testimone vive questo ideale
sulla propria pelle, lo fa suo senza paura di mettersi
sempre in gioco, di rischiare il tutto per tutto. Ad una
opinione, ad una teoria se ne può contrapporre un’altra,
ma chi potrà mai confutare una vita, fatti e
comportamenti concreti?
Ecco
perché i migliori maestri, coloro che riescono ad
infondere la “cultura”, sono anche dei testimoni che con
il loro esempio mostrano di condividere e praticare le
idee, gli ideali, i valori che propugnano.
Cerchiamo, dunque, noi adulti di essere il più possibile
credibili e coerenti per avvicinarci ad essere dei veri
testimoni. La sfida di oggi è la sedimentazione
culturale di quei principi che la mentalità mafiosa
intende cancellare. È dei giovani la voglia di cambiare
il mondo, di combattere le ingiustizie, di reagire alle
prepotenze ed ai soprusi, di contrastare le illegalità,
ma in talune regioni del sud, purtroppo, la violenza, la
frequenza dei reati, la presenza della criminalità
organizzata, ancora oggi, rimane una componente
strutturale di vaste aree, dove taluni cittadini sono
costretti a vivere in condizioni di sudditanza, di
intimidazione e di omertà, dove traumatico è il contatto
con l’ambiente, con taluni quartieri, con la loro realtà
di miseria, di disoccupazione, di carcere, di dolore e
di morte, ove spesso unica maestra di vita, soprattutto
per i ragazzi cresciuti troppo in fretta, è la strada e
non la famiglia o la scuola.
Da qui
il pericolo del disimpegno morale, di frequenti
comportamenti antisociali, di mancanza di senso civico,
accompagnato dalla diffusa tentazione di “farsi gli
affari propri,” in un quadro di totale sfiducia nelle
Forze dell’Ordine, nei familiari e negli insegnanti, con
il solo coinvolgimento del contesto amicale al precipuo
fine di ottenere consigli, aiuti o complicità.
È
venuto il tempo di una nuova alleanza, una nuova
solidarietà, fatta di coerenti messaggi educativi tra
chi produce formazione, cultura e chi produce legalità,
con programmi alternativi e costruttivi, tendenti ad
incanalare il sano desiderio di protagonismo individuale
nell’ambito universitario in partecipazione ad
iniziative, incontri, confronti, in spazi che facciano
sentire i ragazzi soggetti e non oggetti emarginati di
questa società, che spesso li confina nell’isolamento ed
in una prevenuta ostilità generazionale.
Si
tratta allora di lavorare su due piani, entrambi
importanti e fortemente integrati fra loro. Anzitutto
sul piano della cultura, perché se non riusciamo a
intervenire in tutti gli strati, dal popolare
all’intellettuale, promuovendo una cultura convinta
della necessità di superare ogni chiusura
all’isolamento, alla separatezza, per giungere alla
capacità di lavorare in squadra, di accogliere
all’interno di questo lavoro l’alterità, la diversità
dei suoi membri e questa diversità come ricchezza e non
come pericolo, non saremo mai in grado di porre le basi
di un reale mutamento di atteggiamento mentale per
l’inizio di un’epoca più solidale.
Al
concetto di “primo della classe”, ancora così dominante,
si sostituisca quello di “gruppo di lavoro” in cui il
primo è capace di chinarsi anche sui soggetti più
deboli, per trarne tutte le vitalità che anch’essi
portano, se pure in misura minore.
Perché
la legge della “reciprocità” prevalga su quella della
“superiorità”, senza cancellare per questo i doni
personali che ciascuno ha, ma ponendoli al servizio di
chi ci vive vicino e costituirà domani o il compagno di
lavoro o il collega di professione.
In
Calabria la ‘Ndrangheta è ancora oggi potere opprimente,
privazione di libertà e di democrazia; la domanda di
legalità registra alti e bassi, che oscillano tra le
madri che chiedono di intervenire per salvare i loro
figli dalla droga ed interi quartieri che cercano di
evitare l’arresto degli spacciatori; tra le voci dei
bambini che dalle scuole invocano il poliziotto di
quartiere e la sempre più ampia diffusione del
racket
e della droga a strati sociali mai colpiti.
Ma
qual’è il rapporto delle giovani generazioni con la
legalità, quale percezione hanno i ragazzi dei fenomeni
di tipo mafioso, della corruzione?
Nel
nostro Paese assistiamo ad una grave crisi della
legalità: è venuto meno il sistema dei valori, il senso
etico. Le notizie, i dati, le informazioni riportate
dagli organi d’informazione ci parlano di cattivi
esempi, che portano a cattive imitazioni.
L’unanime consenso, anche in aule parlamentari, ad
invettive contro la magistratura; l’esplicita ammissione
che le pratiche clientelari, l’occupazione delle
strutture sanitarie, l’interesse nei rapporti economici
e negli affari sul territorio costituiscono
comportamenti normali a cui tutti si attengono; le opere
pubbliche generosamente finanziate, magari contese a
colpi di tangente o di attentati, iniziate e mai
completate con notevole spreco del danaro dei cittadini,
costituiscono una realtà disperante, fonte di
pessimismo, ma può far nascere soltanto momenti di
disarmo, di resa e di rassegnazione? Perché questo è il
pericolo.
Purtroppo ancora si registra un diffuso senso di rifiuto
da parte di tanti cittadini, tra i quali prevale un
ragionamento del tipo: “lasciamo stare, non c’è niente
da fare, la lotta alla mafia lasciamola alla polizia,
alla magistratura”!
Così
si corre il pericolo che il contrasto alla criminalità
organizzata continui ad essere delegato a pochi eroi
isolati, senza che la società si assuma le proprie
responsabilità.
Non
prendiamocela sempre coi ragazzi: l’affievolirsi delle
coscienze ha delle ricadute, esiste un mondo degli
adulti che ha gravi responsabilità. In molte scuole, in
tante università si costruiscono percorsi educativi sul
rispetto delle regole, sulla convivenza civile e mi
trovo spesso in presenza di spunti di riflessioni da
parte di giovani che mi pongono domande sulla coerenza
della classe dirigente, dei loro genitori, dei loro
educatori. Tutto ciò porta nei più sensibili e
consapevoli ad un senso di ribellione, che con
difficoltà si riesce a frenare. I nostri ragazzi hanno
bisogno di legarsi a modelli positivi.
L’impegno civile e politico diventa ogni giorno più
difficile, soprattutto per i giovani, che, spinti verso
naturali aspirazioni e ricerca di certezze per il
proprio futuro, risentono oggi più che mai della
progressiva riduzione dell’etica contemporanea, ridotta
ad una mera fase di patteggiamento tra le istituzioni,
partiti e le forze sociali.
Una
situazione che getta in uno sconforto quegli stessi
giovani, che, per istinto naturale, cercano,invece,
riferimenti e posizioni ideologiche certe su cui poter
contare.
È
necessario quindi che l’attuale isolamento giovanile, si
trasformi in appartenenza generazionale, naturale filtro
di un percorso di crescita e di cambiamento, per quella
stessa società in cui bisogna stimolare sentimenti
partecipativi e d’appartenenza.
Ecco
che l’essere giovani deve sottolineare, non solo una
naturale condizione fisica ma, essenzialmente, un modo
positivo e produttivo per confrontarsi con i fenomeni
della vita.
Bisogna che i problemi ed il disagio giovanile diventino
problemi e disagio dell’intera società, di quella stessa
società che deve ritrovare la dignità per rinnovarsi.
Così
come siamo noi adulti che abbiamo la responsabilità
della memoria.
I
ragazzi di oggi all’epoca di certi fatti, come le stragi
di Falcone e Borsellino, (sono passati circa 16 anni)
erano dei bambini.
Quelle
stragi hanno dato vita ad emozioni molto forti e
diffuse, che hanno generato le catene umane, la società
delle lenzuola, un’eccezionale, meravigliosa
partecipazione alla protesta contro la violenza, la
barbarie di una mafia che fa saltare in aria
rappresentanti delle istituzioni, colpevoli solo di
avere fatto il proprio dovere, di una mafia che uccide
bambini, preti, vittime innocenti.
La
classe dirigente avrebbe dovuto cavalcare l’onda emotiva
e riorganizzare le forze sociali per soddisfare le
esigenze della comunità ed evitare che il peso degli
interessi materiali individuali soffocasse l’impeto di
rivolta morale.
Quando
i cittadini non vedono risultati di efficienza e di
benessere sociale, non vedono perseguiti interessi
collettivi, non vedono trasparenza e pulizia morale,
allora sì che si rischia che prenda il sopravvento la
delusione, la sfiducia, il declino etnico,
l’indifferenza, l’atavica rassegnazione.
La
questione meridionale nasce dall’Unità d’Italia. I
crediti del Sud sono enormi rispetto al Nord. Il
Mezzogiorno continua a dare mano d’opera alle industrie
del nord, costituisce area di consumo per i prodotti del
nord, rimane un bacino elettorale che influenza il
formarsi della maggioranza parlamentare e di governo del
Paese.
Migliaia e migliaia di giovani del Sud intravedono nel
loro futuro soltanto violenza, sopraffazione e
disoccupazione; costretti al clientelismo, al richiesta
del favore, alla negazione dei più elementari diritti.
Per
migliaia di ragazze e di ragazzi del Mezzogiorno, nel
corso di decenni la politica, lo Stato e la legalità non
hanno sinora rappresentato né dignità né futuro.
Lo
Stato deve ricostruire un rapporto di fiducia con queste
generazioni.
La
lotta contro la mafia non è separabile da nuovi principi
regolativi della società meridionale. È mancata sinora
la regolamentazione del lavoro, dei diritti,
dell’impresa.
La
mediazione politica e la mediazione mafiosa hanno
sostituito nel sud le essenziali funzioni dello Stato e
del mercato. Un’economia pubblica senza spirito pubblico
e un’assistenza senza efficienza hanno devastato la
società civile favorendo l’educazione al favore, alla
clientela, alla fuga dalla responsabilità.
Molte
aree del Centro e del Nord stanno subendo danni gravi
per l’espandersi delle organizzazioni mafiose che
proprio da queste politiche è derivato. Saldare quei
debiti, coniugando finalmente la repressione con le
politiche sociali e di effettivo sviluppo, non è solo un
dovere verso il Sud, è una convenienza per tutto il
Paese, perché la mafia
in
Europa e nel mondo è considerato il nostro principale
fattore di arretratezza e non si può nascondere,
negandone l’esistenza ed inaridendo le fonti
d’informazione.
È
ripreso il fenomeno dell’emigrazione, soprattutto
giovanile, tanti giovani in maggioranza diplomati hanno
sostituito i braccianti e gli operai generici degli anni
50 e 60.
Dopo
un periodo di precariato il 70% di essi trova un lavoro
stabile, nelle regioni più industrializzate del
centro-Nord, depauperando ancora di più della loro
energia lavorativa e della loro fantasia e genialità il
Sud, dove i precari ultra ventennali ormai esasperati
sono diventati un problema di ordine pubblico.
In
questo contesto è un fortuna se tanti giovani
preferiscono emigrare anzichè farsi attrarre, come tanti
altri, che magari non hanno avuto la possibilità di
studiare, da un
forzato lavoro minorile o, peggio ancora, dal canto
delle sirene della criminalità.
Perciò
non basta contrastare la mafia. Bisogna ricostruire la
democrazia nel Mezzogiorno e rafforzarla nel resto
d’Italia, con l’impegno di tutti: sia di coloro che
rappresentano gli interessi dei cittadini nei partiti,
nella politica, nelle istituzioni, nei sindacati, nei
movimenti, nelle associazioni di categoria, sia con
l’impegno dei singoli, degli stessi cittadini.
L’antimafia diretta alla repressione della criminalità
mafiosa deve perciò essere accompagnata dall’antimafia
della correttezza della politica, dell’efficienza della
pubblica amministrazione, della scuola funzionante,
delle regole del libero mercato.
Un
partito, un governo, uno Stato che operasse in questa
direzione meriterebbe la fiducia dei cittadini,
condizione essenziale per non ridurre la lotta contro la
mafia a una guerra tra buoni e cattivi e per farle
acquisire la dignità di un impegno per la conquista
della libertà, della democrazia, di una maggiore
giustizia sociale.
Non
abbassiamo la soglia della coscienza dell’illegalità,
non coltiviamo la rassegnazione, la neutralità,
l’indifferenza soprattutto in posti dove l’unica lingua
parlata è il silenzio.
Bisogna urlare che non riteniamo giustificabile la
corruzione, i favoritismi, i compromessi,
l’intimidazione, la violenza, il finanziamento illegale
della politica, la compravendita degli appalti,
l’appropriazione dei finanziamenti pubblici, lo
svuotamento delle casse delle aziende pubbliche, il
taglieggiamento di quelle private.
Perché
il sangue di Falcone e Borsellino non sia stato versato
invano si impone all’attenzione di tutti la costante
presenza, la pericolosità e l’attualità del fenomeno
mafioso. Il loro sacrificio rimane un monito alle
coscienze di tutti gli italiani.
Perché
sono morti? Erano dei sognatori, degli idealisti, degli
utopisti? Forse!
Certamente sono la testimonianza di chi ha pagato con la
vita il sogno di un Paese migliore, liberato dalle
troppe ingiustizie e illegalità.
Ci si
voglia o non ci si voglia credere sono le utopie che
fanno la storia. Si pensi ai grandi movimenti, come
quello femminile, come quello della liberazione
sessuale, come quello della tutela dei minori, quello
della centralità della persona, e si vedrà che l’aver
difeso questi principi per decine di anni come utopia,
in posizioni di minoranza, tutto ciò, e solo tutto ciò,
ha portato alle vittorie democratiche di oggi.
L’utopia ha appunto una sua forza inarrestabile che
cresce nella misura in cui qualcuno dimostra che vi è un
mutamento possibile rispetto alla situazione che si vive
in un dato momento storico. Perciò dobbiamo e vogliamo
sperare che non solo le utopie del passato trovino
sempre una nuova spinta per continuare a produrre il
mutamento, ma che nuove ne sorgano nel terzo millennio,
per portare avanti il cammino dell’umanità.
L’uomo, lasciato senza ideali, si riduce ad una creatura
spinta da meri impulsi, abbandonando l’utopia perde la
volontà di fare la storia e la capacità di comprenderla.
Ricordo quanto mi diceva un mio vecchio professore di
storia e filosofia: la qualità più importante che
possiedono i giovani oltre all’entusiasmo è l’ingenuità.
Alla
mia richiesta di chiarimenti, mi spiegò: vedi i giovani,
non ancora dotati del tipico scetticismo degli anziani,
credono, nella loro ingenuità, che i loro sogni, le loro
utopie
siano
realizzabili e ciò costituisce l’unica speranza che
riescano a realizzare quelle cose che per il resto
dell’umanità appaiono impossibili.
I
momenti più felici della civiltà occidentale sono stati
quelli informati al diritto del dissenso.
L’aperta sfida a leggi universalmente accettate da parte
di uomini quali Copernico, Galileo, Newton, Darwin ed
Einstein hanno capovolto sistemi che apparivano
immutabili e, facendo così, hanno spianato la via al
progresso.
Siamo
nel terzo millennio in un periodo denso di minacce per
il futuro della nostra specie e di quello delle altre
specie animali viventi sul globo, per cui dico ai
giovani: continuate a essere ingenui, come lo sono
ancora io ed a credere nei sogni, nelle idee e nella
speranza che si possano realizzare.
Ma
attenti! Bisogna stare attenti alle utopie di oggi, ai
sogni di oggi, bisogna far sì che i sogni rimangano
ancorati ai veri valori della vita e non ad un orizzonte
culturale che enfatizza il culto dell’immagine, dei
soldi, della prestazione, del risultato a qualsiasi
costo, e quindi il doping, la chirurgia estetica, il
mito delle veline, dei calciatori e dei cantanti o dei
partecipanti al Grande Fratello o all’Isola dei famosi.
Bisogna stare attenti perché un sogno del genere si
trasforma in fragilità sociale, in predisposizione a
essere manipolati dalla demagogia, in passiva e inerte
attesa del miracolo, del santo protettore, del principe
azzurro sul bianco cavallo, del giustiziere che
vendicherà i torti e instaurerà la vera giustizia, il
regno della felicità, concedendo a tutti una libertà
senza regole, senza valori, senza steccati da superare o
da rispettare, fatta di piccole e grandi furberie, di
enormi egoismi, di facili scorciatoie.
Stiamo
attenti questo è l’orizzonte culturale che ci sta
fregando, ci sta appiattendo, ci sta adeguando, tutti. E
la mafia ringrazia, perché è il suo orizzonte culturale
moltiplicato per dieci, ma non è solo il suo ma anche
quello di chi è potente, di chi persegue il preciso
disegno di mantenere in eterno il disagio sociale, il
bisogno, la disoccupazione e tutte le altre calamità
sociali, per potere poi intervenire, con una
intermediazione interessata, per risolvere il problema
del singolo ed ottenerne il consenso, per gestire potere
sui cittadini ridotti a sudditi.
Allora, auguro ai giovani di avere il coraggio di essere
inadeguati oggi rispetto a questo orizzonte culturale,
di impegnarvi nel costruire nella quotidianità una nuova
dimensione.
Qual è
il futuro di una società che non trasmette valori e
fiducia ai giovani?
Quale
il futuro di una politica vissuta dai giovani solamente
come luogo di relazione clientelare?
Appare
dunque questa la sfida della società italiana:
”rieducare” la popolazione e formare una nuova classe
dirigente. E chi lo può fare se non un esercito di
educatori?
Perché, vedete, cultura della legalità è qualcosa di più
della semplice osservanza delle leggi, delle regole; è
un sistema di principi, di idee, di comportamenti, che
deve tendere alla realizzazione dei valori della
persona, della dignità dell’uomo, dei diritti umani, dei
principi di libertà, eguaglianza, democrazia, verità,
giustizia come metodo di convivenza civile.
La
cultura, la conoscenza aprono la nostra mente alla
riflessione ed al coraggio, al rispetto degli altri e
alla tolleranza; ci rendono migliori, ci rendono più
liberi.
Nessun
regime autoritario potrà mai fermare il nostro pensiero.
La
legalità è la forza dei deboli, delle vittime dei
soprusi e delle violenze dei ricatti del potere.
Perché
la mafia attenta a tutti questi valori, perché è
violenza, sopraffazione, intimidazione, prevaricazione,
collusione, corruzione, compromesso, contiguità
complicità.
La
mafia è eclissi di legalità.
Forte
e diffuso è il rischio di un assordante silenzio, della
disattenzione, dello sconforto, della rassegnazione,
della rimozione, del rifugio nel mito di martiri ed eroi
in una oleografia staccata dalla realtà di oggi.
Finché
la mafia esiste bisogna ricordarlo, parlarne,
discuterne, reagire.
Il
silenzio è l’ossigeno grazie al quale i sistemi
criminali, la pericolosissima simbiosi di mafia economia
e potere, si rafforzano, si riorganizzano.
I
silenzi di oggi saremo destinati a pagarli più duramente
domani, con una mafia sempre più forte, con cittadini
sempre meno liberi.
Come
Procuratore Nazionale Antimafia non posso che pensare
alla repressione, con tutte le mie forze, con tutto il
mio impegno, di tutti i traffici illeciti, di tutte le
mafie nazionali e straniere, dovunque si trovino, ma
oggi ho bisogno anche della collaborazione della società
tutta e dei giovani in particolare.
Io sto
dalla parte dell’antimafia concreta, dell’antimafia
della repressione e dell’antimafia che chiede consenso e
aiuto a tutte le altre componenti della società,
dell’antimafia della speranza.
Oggi
abbiamo la piena conoscenza della realtà sociale in cui
viviamo e del suo condizionamento da parte di tanti
fattori come la mafia e nessuno può più accampare alibi.
Oggi
si può, si deve, scegliere da che parte stare.
Per
fortuna ci sono tante iniziative, tanti cambiamenti che
lasciano ben sperare.
Imprenditori che denunciano il racket, i giovani di
Addio Pizzo, Confindustria siciliana pronta ad espellere
chi sottosta all’estorsione, una madre spinta alla
collaborazione con la giustizia dalle figlie educate
dalle insegnanti alla legalità e così via. Purtroppo si
tratta di iniziative ancora isolate che devono
coordinarsi coi tanti movimenti antimafia, come Libera,
la fondazione Falcone, la fondazione Caponnetto,
Riferimenti in Calabria, ed altre iniziative del genere
promosse nel Paese.
Come i
giovani di Locri che sotto lo sguardo perplesso, se non
pavido, degli adulti, hanno osato scendere in piazza per
ridare speranza e dignità ad una regione abbandonata
come
un vuoto a perdere e hanno urlato, rompendo il secolare
silenzio: “ora ammazzateci tutti!!!”.
Un
grido disperato per non fare cancellare del tutto la
Calabria dai progetti dell’economia, della cultura,
della politica, che è diventato, così l’ho inteso io, un
inno alla resistenza: “siamo disposti a morire per non
far morire la Calabria tutta”.
Questi
giovani, che sono riusciti, insieme a quelli di Addio
Pizzo, a quelli contro il racket e la Camorra, a creare
una rete telematica, virtuale e virtuosa, tra i giovani
di tutta Italia, sono la nostra Speranza.
La
speranza di riconquistare spazi per una forte azione
antimafia nell’unità dei movimenti della società civile.
Allora
cerchiamo questi spiragli di speranza di farli diventare
brecce, dei varchi attraverso cui gli eserciti
dell’antimafia riconquistino le posizioni perdute.
La
magistratura, ben consapevole che non appena si allenta
la presa, la morsa della repressione, il nemico
riconquista le posizioni perdute, non ha mai mollato.
Pur
con alterne vicende, fortune, errori, successi,
insuccessi, si è sempre distinta come testimonianza di
un impegno, di un esempio, che possa far guardare ad
essa come preciso e visibile punto di riferimento nel
contrasto alla mafia.
Si
sappia che noi magistrati andremo avanti a tutta forza.
Ci impegneremo ancora di più nel nostro lavoro, con la
massima professionalità, cercheremo di accelerare anche
di un sol giorno il lento procedere della giustizia.
Al
Presidente della Corte di Assise che lo interrogava nel
corso del processo per la strage di Capaci, Buscetta
riferì che Falcone, a lui che prevedeva che sarebbe
stato preso per pazzo e che non sarebbero sopravvissuti
a quell’avventura, ripeteva sempre: “non importa dopo di
me ci saranno altri magistrati che continueranno”.
Dopo
la strage di Capaci, Borsellino, sebbene fisicamente e
moralmente distrutto per la perdita del suo compagno ed
amico Falcone, si assunse la sua pesante eredità con la
precisa consapevolezza che presto avrebbe seguito il suo
destino; aveva deciso di continuare e si era buttato
senza un attimo di tregua nelle indagini, imponendosi
ritmi massacranti con l’ansia di una vera lotta contro
il tempo.
Questo
il suo grande insegnamento: “Andare avanti pur sapendo
quale destino ti attende”.
Agli
amici che gli consigliavano di andare via da Palermo, di
mollare tutto, di far combattere ad altri la mafia,
amareggiato, rispondeva: “Non è amico chi mi da questi
consigli. Gli amici sinceri sono quelli che condividono
le mie scelte, i miei stessi ideali, i valori in cui
credo. Come potrei fuggire, deludere le speranze dei
cittadini onesti”.
In
queste parole il senso della sua vita, dell’estremo
sacrificio, che, con la morte, fa riacquistare una nuova
vita, stavolta eterna, sempre presente nella memoria
collettiva.
Il
valore del sacrificio della vita di Giovanni Falcone e
di Paolo Borsellino non si dovrà mai disperdere, ci
lasciano un testamento spirituale, una pesante eredità,
un patrimonio morale di equilibrio, di coraggio, di
serietà, di rigore, di umanità e di professionalità, che
oggi ci impegna tutti a continuare con tutte le proprie
forze professionali, intellettuali e morali per tentare
di rendere migliore il nostro Paese.
Noi
magistrati ci siamo stati, ci siamo e ci saremo sempre
nel contrasto alla mafia e a qualsiasi tipo di
criminalità e di illegalità, nell’estenuante ricerca
della verità e della giustizia. Siamo noi quei
magistrati, matti o utopisti, che ancora credono che in
Italia si possa riuscire a processare, oltre ai mafiosi
ed agli autori delle stragi, anche la mafia dei colletti
bianchi, gli infiltrati nelle istituzioni, i corruttori
di giudici, di pubblici funzionari e di politici, coloro
che creano all’estero società fittizie per riciclare
denaro sporco e tutte le illegalità anche le più
piccole. Si sappia che noi magistrati andremo avanti a
tutta forza. Ci impegneremo ancora di più nel nostro
lavoro, con la massima professionalità, cercheremo di
accelerare anche di un sol giorno il lento procedere
della giustizia. » |