N. 36 - Dicembre 2010
(LXVII)
Laicità e antitotalitarismo nel pensiero di Salvemini
una lezione da imparare
di Pierpaolo Lauria
Non
appena
rimise
piede
nell’Italia
finalmente
liberata,
nel
1947,
Gaetano
Salvemini
non
si
perse
in
inutili
chiacchiere
festose
e in
trionfalismo
retorico,
sedendosi
comodo
sugli
allori.
Sapeva
bene
che
il
cammino
della
democrazia
appena
imboccato,
dopo
i
lunghi
anni
bui
vissuti
nel
vicolo
cieco
della
dittatura,
sarebbe
stato
difficile
e
pieno
d’insidie,
tormentato
da
ombre
minacciose
e
molto
tortuoso.
Non
disperse
quindi
una
goccia
d’entusiasmo
che
si
sprigionava
in
lui
da
ogni
poro,
ma
le
convogliò
in
forza
motrice
ed
energia
che
lo
spinse
a
impegnarsi
come
un
tarantolato
per
tentare
di
costruire
un
paese
più
libero,
più
democratico
e
più
giusto.
Giustizia,
libertà
e
democrazia
sono
le
tre
stelle
polari
del
suo
pensiero
politico
fin
dalle
origini:
non
è un
caso
che
scegliesse
“Tre
Stelle”
come
uno
dei
suoi
pseudonimi
giornalistici.
Per
il
vecchio
guerriero,
che
non
sentiva
gli
acciacchi
e il
peso
degli
anni,
non
era
ancora
giunta
l’età
della
pensione;
lontani
erano
i
cipressi,
i
castagni
e le
querce,
sotto
cui
gustare
l’ombra
amica
della
meditazione
spensierata;
così
come
il
torpore
avvolgente
del
focolare,
conciliatore
degli
studi
invernali;
era
tornato
così
come
se
n’era
andato:
non
per
cantare
Giovinezza
giovinezza.
Riprese
a
insegnare,
con
la
gioia
di
un
maestro
alle
prime
armi,
all’ateneo
fiorentino,
la
sua
Università.
Cominciò
a
scrivere.
con
penna
di
fuoco,
affilata
e
pungente,
su
alcune
testate
giornalistiche
per
scuotere
gli
animi
più
pigri
e
quelli
più
imbelli
a
contribuire
alla
costruzione
della
neonata
e
giovane
Italia
repubblicana
e
democratica,
e
per
sferzare
energicamente
i
vili
e i
mascalzoni,
che
costruivano
invece
facciate
nuove,
dietro
cui
nascondere
travi
e
impalcature
vecchie.
La
collaborazione
più
importante
di
questa
nuova
e
prolifica
stagione
giornalistica
è
con
“Il
Mondo”
di
M.
Pannunzio,
e
poi
interventi
a
sua
prestigiosa
firma
si
susseguirono
su
“Controcorrente”,
sul
“Ponte”
diretto
da
P.
Calamandrei
(padre
costituente
e
amico
di
vecchia
data),
sul
“Mulino”
e su
“Critica
sociale”.
Tra
i
diversi
argomenti,
trattati
su
queste
testate,
la
sua
attenzione
si
appuntò
particolarmente
sulla
difesa
di
A.
Tasca
(uno
sventurato,
vittima
di
due
totalitarismi,
che
per
fuggire
al
fascismo
si
era
rifugiato
nella
parrocchia
comunista:
dalla
padella
alla
brace,
direbbe
Salvemini)
dall’infamante
accusa
dei
“parrocchiani
comunisti”
di
collaborazionismo
con
il
regime
di
Vichy;
sulla
dura
polemica
contro
i
rigurgiti
neofascisti
e le
nostalgie
monarchiche,
protese
a
riabilitare
spudoratamente
la
memoria
del
duce
infallibile
(il
revisionismo
del
fascismo,
a
tutt’oggi
di
preoccupante
attualità,
ha
radici
lunghe),
“ostetrico
eccezionale
costretto
ad
operare
con
ferri
di
fortuna”,
mentre
in
pari
tempo
si
colpiva
l’antifascismo
accusandolo
di
antinazionalismo
(anche
il
tema
della
“morte
della
patria”
non
è
nuovo).
Di
contro
si
assolveva
la
monarchia
impotente
rispetto
a un
popolo
che
era
quel
che
era,
carogna
e
buono
a
nulla:
“Gli
italiani
sono
fatti
così”,
ricurvi
e
gobbi;
sulla
difesa
della
laicità
contro
la
ripresa
dell’offensiva
“clerocratica”
e,
in
misura
minore,
contro
quella
comunista.
Nel
dopoguerra
si
ritrovò
di
nuovo
a
misurarsi
faccia
a
faccia
con
la
strisciante
e
subdola
minaccia
clericale:
il
nemico
da
combattere
era
antico
e
ritornava
baldanzoso
sugli
scudi.
Già
in
principio
di
secolo
se
l’era
vista
brutta
con
questo
pericoloso
mostro,
che
ora
era
risorto
più
forte
di
prima
sulle
ceneri
del
fascismo,
che
fu
il
secondo
temibile
avversario
affrontato
ed
era
ora
in
ritirata,
mentre
avanzava
un
insidioso
e
nuovo
nemico,
a
trombe
levate
e a
spron
battuto,
il
comunismo
internazionale,
tutto
impettito
di
medaglie
sulla
scia
del
prestigio
conseguito
in
battaglia.
Sono
le
“tre
bestie
totalitarie”
in
ordine
di
comparsa
nell’esistenza
di
Salvemini,
da
lui
gagliardamente
e
tenacemente
combattute.
La
difesa
della
tradizione
laica
è
uno
dei
toni
costanti
del
suo
impegno
civile.
La
sua
preoccupazione
maggiore
per
la
laicità
dello
Stato,
nell’Italia
una
volta
fascista
e
ora
democrista,
era
rivolta
all’Annibale
clericale
che,
a
differenza
di
quello
comunista,
che
non
aveva
ancora
varcato
le
Alpi,
era
già
nella
fortezza.
In
questo
senso
va
letta
come
un
dotarsi
di
un’arma
di
difesa
per
contrastare
l’assalto
clericale,
un
antidoto
al
veleno,
la
pubblicazione
nel
1951
del
volume
Il
programma
scolastico
dei
clericali,
che
raccoglie
e
ripropone
una
serie
di
scritti
risalenti
al
periodo
liberale.
Tanto
grande
era
stata
la
sua
stima
per
Sturzo,
un
vero
democratico
cristiano,
quanto
la
sua
avversione
e il
fastidio
provato
per
i
cristiani
democratici,
servi
del
Vaticano.
Era
allergico
agli
“ismi”
di
tutti
i
tipi
per
la
sua
ben
nota
propensione
al
concreto,
per
cui
acconsentiva
che
si
parlasse
di
“politica
cattolica”
e
bandiva
nel
contempo
l’astrazione
“cattolicesimo”.
All’interno
di
questa
politica
distingueva
tra
l’alto
clero
fedele
alla
politica
cattolica
e
obbediente
come
gli
scolaretti
al
Papa
(le
spinte
conciliaristiche
si
erano
spente
da
almeno
cinque
secoli)
e il
basso
clero,
che
“lavorò
sul
campo”
tra
i
fedeli,
tra
cure
d’anime
e
gli
altri
loro
quotidiani
problemi,
spesso
dissidente
rispetto
alla
politica
ufficiale
delle
alte
sfere
e
del
sommo
pontefice.
Negli
anni
del
centrismo,
temeva
che
i
cattolici
trasformassero
la
democrazia
in
clericocrazia,
che
lo
Stato
diventasse
clericale.
Sospettava
che
A.
De
Gasperi,
che
proclamava
“democrazia,
democrazia,
democrazia”,
fosse
solo
il
capitano
del
vapore
mentre
il
padrone
fosse
il
Papa.
Profuse
quindi
il
massimo
dell’impegno
nell’evitare
l’ingerenza
della
Chiesa
nello
Stato,
denunciandola
ai
sette
venti
ogni
volta
che
ne
fiutava
i
loschi
tentavi;
d’altro
canto
lo
Stato
doveva
restare
nel
proprio
orto,
senza
prevaricare
in
quelli
altrui,
ficcando
il
naso
e
intromettendosi
nelle
questioni
della
Chiesa:
“Libera
chiesa
in
libero
stato”,
dunque.
La
laicità
è
infatti
“una
dottrina
politica”
che
afferma
l’incompetenza
delle
autorità
secolari
a
decidere
di
questioni
religiose.
Cesare
e
Cristo
potevano
essere
buoni
amici,
come
lui
e
Sturzo,
ma
non
andavano
confusi,
dovevano
essere
distinti
e
separati
sulle
competenze,
perché
sono
diverse.
All’autorità
religiosa
non
va
impedito
di
svolgere
il
proprio
ufficio,
l’insegnamento
e la
dottrina;
né
va
intralciata
nella
propaganda
delle
proprie
idee,
nella
libertà
di
espressione
e di
opinione;
né
gli
va
negato
il
diritto
di
consigliare
e
dare
indicazioni
ai
fedeli.
Lo
Stato
doveva
restare
aconfessionale
in
materia
di
fede,
garantendo
la
tolleranza
delle
diverse
religioni;
ed
essere
laico
garantendo
il
godimento
e
l’esercizio
delle
libertà
personali
e
politiche,
tutelando
così
i
diritti
inviolabili
e
intangibili
degli
individui
fuori
portata
e
della
disponibilità
di
qualunque
autorità,
compresa
quello
dello
Stato.
Lo
stato
laico
è in
sostanza
uno
Stato
libero,
che
dà
diritto
di
scelta
e
rispetta
la
sacralità
degli
individui
e la
loro
discrezionalità
di
decisione,
perché
è
neutrale
(neuter
significa
propriamente
“né
l’uno
né
l’altro”),
non
s’impone
con
la
forza
sulle
loro
prerogative
personali.
Su
questo
punto,
nella
prima
metà
del
secolo
scorso,
Francesco
Ruffini
scriveva
parole,
seppur
ostiche
nella
forma,
inequivocabili
nel
significato:
“Termine
fondamentale
del
problema
è
l’uomo
e
l’assoluto
rispetto
della
sua
individualità,
egli
ha
diritto
poziore
e
superiore
da
far
valere
nel
litigio
sopra
tutte
le
pretese
di
supremazia
di
questo
o di
quell’ente,
il
diritto
alla
propria
piena
libertà
[…]
Con
che
non
si
vuol
punto
dire
che
la
Chiesa
non
possa
in
tutta
libertà
continuare
a
sancire
per
mezzo
delle
sue
autorità
e a
professar
per
bocca
dei
suoi
dottori
gli
antichi
sistemi
e le
antiche
teoriche,
che
noi,
dal
canto
nostro,
stimiamo
sorpassati.
Questa
sua
facoltà
fa
parte
anzi
di
quel
regime,
che
noi
propugniamo;
il
quale
deve
garantire
piena
libertà
religiosa
in
tutte
quante
le
sue
manifestazioni,
siano
esse
individuali,
siano
esse
collettive
[…]
Si
vuol
dire
solamente,
che
lo
stato
più
non
potrebbe
considerare
la
protezione
e il
favore
di
codeste
particolari
manifestazioni
come
suo
obbligo
precipuo
e
specifico;
e
tanto
meno
spingere
il
suo
favore
fino
a
consentire
che
l’esercizio
della
libertà
religiosa
delle
collettività
o
delle
Chiese
ridondasse
a
diniego
e
menomazione
dell’eguale
libertà
di
altre
collettività
o
Chiese,
e
soprattutto
a
coartazione
della
piena
libertà
religiosa
degli
individui”.
Allorché
lo
Stato
dà
la
possibilità
di
scegliere
a
tutti
e
tanto
meno
la
nega
al
cattolico,
non
si
capisce
come
mai
costui
si
lamenti
e
insorga
indignato.
Cosa
l’offende?
cosa
l’urta?
Perché
mai
è
così
suscettibile?
Forse
gli
si
tocca
un
nervo
scoperto:
la
tentazione
egemonica
e
totalitaria
della
Chiesa
sull’intera
società,
che
si
vorrebbe,
anziché
civile
e
plurale,
solo
e
unicamente
cristiana,
in
cui
il
suo
verbo
è
comandamento
per
tutti.
Furono
molte
le
battaglie
che
impegnarono
Salvemini.
Fra
le
tante
sostenne
perfino
una
singolare
“guerra
di
preposizioni”:
“Si
legge
sull’“Osservatore
romano”
un
articolo
intitolato
“Per
la
libertà
dall’errore”.
La
libertà
dell’errore,
per
chi
non
è
totalitario,
è un
diritto
fondamentale
dell’uomo
e
del
cittadino.
Libertà,
badiamo
bene,
giuridica,
non
libertà
intellettuale.
Intellettualmente
nessuno
ha
il
diritto
di
proclamare
la
libertà
dell’errore:
sarebbe
come
se
dicesse
che
intende
liberarsi
dalla
ragione,
che
non
gli
importa
quel
che
è e
quel
che
non
è
verità;
che
si
sente
libero
di
cambiare
opinione
ogni
volta
vi
trovi
un
profitto,
distinguendo
non
fra
verità
ed
errore,
ma
fra
proprio
utile
e
proprio
danno.
Ma
chi
si
riconosce
intellettualmente
a
rifiutare
la
libertà
dell’errore,
non
passa
con
questo
ad
affermare
il
proprio
diritto
giuridico
a
violare
negli
altri
la
libertà
dell’errore”.
Siccome
la
Chiesa
ritiene
di
avere
la
“verità
in
tasca”,
di
detenerne
il
monopolio
legittimo,
ed è
anche
convinta
della
sua
infallibilità,
almeno
da
Gregorio
VII
in
avanti,
dichiara
l’errore,
vale
a
dire
tutte
le
opinioni
che
contrastano
con
la
sua
verità
assoluta,
“innominabile”,
un
abominio
da
scacciare,
schiacciare
e
perseguitare
a
ogni
costo
(alla
verità
non
piace
la
concorrenza).
Da
qui
il
giornale
della
“Santa
sede”
parte
per
l’ennesima
crociata
contro
la
serpe,
di
mille
e
mille
anni,
da
calpestare,
per
liberare
il
mondo
da
questo
cancro
infestante.
Il
clericale
non
tollera
la
libertà
individuale
di
coscienza.
Ciò
che
si
discosta
dalla
verità
va
proibito
e
annientato
con
tutti
i
mezzi,
comprese
le
armi
e le
leggi.
Non
si
contenta
che
l’errore
sia
punito
nell’aldilà
e
bruci
tra
le
fiamme
dell’inferno.
I
presunti
possessori
della
verità,
sicuri
della
loro
salvezza,
hanno
premura
di
salvare
anche
le
anime
degli
altri,
pure
a
forza
e
contro
il
loro
volere
(l’universalismo
del
messaggio
che,
da
semplice
proposta,
diventa
un
atto
di
forza,
un
obbligo),
dalla
perdizione
(chi
non
è
religioso
è
bollato
di
immoralità,
è un
essere
maligno
e
pericoloso
per
la
società
tout
court,
in
realtà
per
quella
cristiana);
si
preoccupano,
con
fervente
spirito
missionario,
del
“gregge”
da
preservare
dall’“errare”
e
dallo
smarrimento.
L’errore
non
è
ammesso,
non
ha
cittadinanza,
è
eretico,
fuori
della
comunità
dei
fedeli,
della
chiesa
e
non
ha
diritto
di
circolazione.
Il
clericale
ne
chiede
la
soppressione
in
tutti
gli
ordini
e
gradi,
quindi
anche
sul
piano
giuridico
e
rivendica
perentoriamente
la
libertà
della
sola
verità
e la
libertà
della
Chiesa,
che
altro
non
è se
non
la
sua
solita
pretesa
di
supremazia
ed
egemonia.
Chi
proclama
la
“libertà
dell’errore”
nega
di
fatto
la
“libertà
dell’errore”.
Al
contrario
il
liberale
pensa
che
nessuno
possa
impedire
giuridicamente
agli
altri
di
poter
sbagliare,
“è
un
diritto
fondamentale
dell’uomo
e
del
cittadino”,
la
libertà
dell’errore
è la
tutela
giuridica
del
dissenso,
cioè
dell’opinione
che
giudichiamo
sbagliata
ma
che
non
soffochiamo
perciò
nel
sangue.
La
dottrina
liberale
sostiene
che
nessuna
autorità
può
imporre
le
proprie
verità
con
le
galere,
i
manicomi
e le
ghigliottine.
Il
liberale
è
convinto
delle
sue
opinioni
e
ritiene
che
quelle
opposte
alle
sue
siano
false
e
moralmente
e
intellettualmente
vi
si
oppone
e
contrasta
ciò
che
reputa
sbagliato,
almeno
finché
non
si
convince
liberamente
di
essere
in
torto,
ma
non
si
sente
autorizzato
a
obbligare
gli
altri
ad
accettare
le
sue
verità.
Egli
difende
la
tolleranza
giuridica
non
quella
intellettuale,
mentre
la
Chiesa
non
consente
né
l’una
né
l’altra.
Salvemini,
oltre
alla
distinzione
capitale
tra
libertà
dall’errore
e
libertà
dell’errore,
riguardo
a
quest’ultima
ci
tiene
a
non
far
confusione
tra
il
piano
giuridico
che
l’ammette
e il
piano
intellettuale
che
non
la
consente,
altrimenti
non
ci
si
curerebbe
più
della
differenza
tra
verità
ed
errore
e si
scivolerebbe
in
una
parificazione
e
uguaglianza
scettico-relativistica,
in
cui
verità
ed
errore
si
scambiano
indifferentemente
di
ruolo
nel
gioco
utilitaristico
delle
parti
e
per
il
puro
profitto.
L’anticlericalismo
di
Salvemini
è
“reazionario”,
difensivo,
non
di
“principio”,
come
per
Mussolini
per
esempio,
bensì
di
seconda
mano,
non
un
valore
in
sé,
perché
il
valore
è la
laicità,
negata
dal
clericalismo,
come
nel
suo
antifascismo
il
valore
era
la
democrazia
negata
dal
fascismo.
La
sua
pungente
critica
affonda
nella
piaga
di
un
modo
di
pensare
dogmatico,
in
un
comportamento
fanatico
piuttosto
che
in
una
categoria
definita
di
persone
e sa
che
il
farmaco
che
inietta
per
curare
la
malattia
è
veleno
pericoloso
e
letale,
se
assunto
senza
ragione
e
precauzione:
“Questo
nostro
anticlericalismo
non
è
salute:
è
una
malattia
fastidiosa,
che
ci è
indispensabile
per
guarire
da
una
malattia
peggiore:
il
clericalismo;
l’anticlericalismo
segue
come
l’ombra
il
corpo:
scomparso
o
attenuato
l’uno
scomparirebbe
o si
attuenerebbe
l’altro”.
Manifesto
di
tutte
queste
sue
battaglie
laiche
e
del
suo
antitotalitarismo
può
essere
considerato
il
discorso
La
difesa
della
cultura
(pronunciato
al
Congresso
internazionale
degli
scrittori
per
la
difesa
della
cultura,
tenuto
a
Parigi,
nel
1935).
Qui
egli
accomuna
fascismo
e
comunismo
come
regimi
negatori
del
pluralismo,
tirannici
e
liberticidi,
di
contro
alla
glorificazione
di
taluni
che
ne
cantano
le
meraviglie
e ne
tessono
le
lodi
sperticate
come
l’ideale
dell’umanità:
“Non
mi
sentirei
il
diritto
di
protestare
contro
la
Gestapo
e l’Ovra
fascista
se
mi
sforzassi
di
dimenticare
che
esiste
una
polizia
politica
sovietica.
In
Germania
ci
sono
i
campi
di
concentramento,
in
Italia
ci
sono
isole-penitenziario
e
nella
Russia
sovietica
c’è
la
Siberia.
Ci
sono
proscritti,
tedeschi
ed
italiani
e ci
sono
proscritti
russi.
Siamo
tutti
d’accordo
che
la
libertà
significa
il
diritto
di
essere
eretici,
non
conformisti
di
fronte
alla
cultura
ufficiale
e
che
la
cultura,
in
quanto
creatività,
sconvolge
la
tradizione
ufficiale.
Il
marxismo
che,
nelle
società
borghesi,
è
creatività
anti-ufficiale,
è
divenuto
tradizione
ufficiale
nella
società
sovietica.
La
libertà
di
creazione
nelle
società
borghesi
di
tipo
non
fascista
è
compressa.
Nella
società
borghese
di
tipo
fascista
è
totalmente
repressa.
Altrettanto
repressa
è
nella
Russia
sovietica”.
Senza
difendere
a
oltranza,
oltre
il
lecito
e il
consentito,
le
società
borghesi
non
fasciste
per
quello
che
sono
(significativamente
le
connota
in
negativo,
senza
l’attribuzione
di
“libere”),
lungi
dall’essere
il
paradiso
in
terra,
perfette
e
inattaccabili,
ammonisce
aspramente
i
suoi
critici
più
radicali
di
non
disprezzarle
più
del
dovuto,
perché
in
esse
spiragli
di
libertà
e
spazi
di
manovra
per
cambiarle,
si
spera
in
meglio,
se
ne
intravedono,
al
contrario
delle
altre,
quelle
fasciste
e
comuniste,
che
sono
praticamente
immutabili
perché
perfette
e
infallibili,
addirittura
meglio
del
migliore
dei
mondi
possibili:
“Non
si
apprezzano
l’aria
e la
luce
finché
le
si
hanno:
per
comprenderne
il
valore
bisogna
averle
perdute.
Ma
il
giorno
in
cui
le
libertà
sono
perdute,
riconquistarle
non
è
facile
[...]
Insomma
ci
sono
delle
società
borghesi
che
presentano
dei
buchi
attraverso
i
quali
può
spirare
un
soffio
di
libertà,
dov’è
possibile
per
esempio
tenere
questo
congresso,
e ci
sono
società
borghesi
in
cui
ogni
buco
è
ostruito
e
una
sola
cultura
può
svilupparsi,
la
cultura
della
menzogna
ufficiale
[…]
Non
disprezzate
le
vostre
libertà,
difendetele
ostinatamente
pur
continuando
a
dichiararle
insufficienti,
a
lottare
per
svilupparle”.
Siccome
la
libertà
è il
diritto
di
pensarla
diversamente,
di
essere
eretici
per
l’appunto,
l’intellettuale
non
deve
riconoscere
a
nessuna
dottrina
il
monopolio
legale
della
verità,
e
invitava
a
fare
delle
parole
di
Voltaire,
il
motto
proprio
di
chiunque
voglia
dirsi
liberale:
“Signor
abate,
sono
convinto
che
il
suo
libro
è
pieno
di
corbellerie,
ma
sarei
pronto
a
donare
fino
all’ultima
goccia
del
mio
sangue
per
assicurarle
il
diritto
di
pubblicare
le
sue
corbellerie”.
In
coda
all’intervento
nomina
la
categoria
che
raccoglie
i
tratti
comuni
di
fascismo
e
comunismo.
I
due
fenomeni
presentono
altresì
differenze
significative,
e si
augura
che
ciò
che
malauguratamente
è
toccato
a
vivere
a
lui
non
sfiori
neppure
per
malasorte
gli
altri:
“Forse
occorre
aver
vissuto
l’esperienza
di
uno
Stato
totalitario,
non
fra
i
dominatori,
ma
fra
coloro
che
sono
stati
schiacciati,
bisogna
conoscere
la
degradazione
morale
a
cui
lo
Stato
totalitario
riduce
non
soltanto
le
classi
intellettuali,
ma
anche
le
classi
operaie,
per
rendersi
conto
dell’odio
e
del
disprezzo
che
qualsiasi
Stato
totalitario,
qualsiasi
dittatura
suscita
nel
mio
animo.
Vi
auguro,
amici
di
Paesi
ancora
relativamente
liberi,
di
non
dover
mai
vivere
questa
esperienza”.
Sulla
scia
di
quest’augurio
ricominciò
il
conflitto
con
la
Chiesa
quando
le
corbellerie
degli
abati
ritornarono
a
pretendere
di
diventare
legge,
i
peccati
reati,
la
fede
diritto.
Nel
dopoguerra
la
sua
proposta
politica
mirava
alla
costruzione
di
una
“terza
forza”,
portava
avanti
i
propositi
di
GL,
per
aprire
una
terza
via
democratico-liberale
e
sfuggire
all’asfissiante
morsa
totalitaria
di
sinistra
e di
destra:
una
proposta
radicalmente
alternativa
rispetto
alle
opzioni
Pio
XII
e
Stalin.
Desiderava
che
i
gruppi
di
centro-sinistra
e di
sinistra
di
tradizione
democratica,
“i
passerotti
della
politica”,
non
finissero
nelle
grinfie
delle
“aquile
totalitarie”,
ma
confluissero
e si
concentrassero
in
una
“confederazione”
polemica
e
battagliera,
in
cui
ogni
gruppo
conservasse
le
proprie
organizzazioni,
i
propri
consigli
direttivi,
le
proprie
tradizioni,
in
linea
con
l’antipatia
quasi
viscerale
emersa
oramai
da
tempo
verso
la
forma
fissa
e
rigida
del
partito
classico.
Il
desiderio
restò
tuttavia
inappagato;
il
progetto
politico
di
Salvemini
si
rivelò,
nelle
condizioni
di
allora,
null’altro
che
un
sogno
vano,
che
non
spiccò
mai
il
volo,
tenuto
a
terra
dal
forte
vento
della
“guerra
fredda”,
che
spirava
da
Oriente
e da
Occidente,
e
stretto
dai
rapporti
di
forza
interni
al
sistema
politico
italiano,
dominato
dai
cattolici,
forza
tradizionale
nel
paese
di
casa
del
Papa,
e
dai
comunisti,
nuova
forza
uscita
prepotentemente
alla
ribalta
dalla
vittoriosa
guerra
di
liberazione
antifascista
e
partigiana.
Nella
pratica,
messo
davanti
alle
scelte
concrete
elettorali
e di
alleanza
politiche,
era
favorevole
–
sebbene
tutt’altro
che
entusiasta,
di
necessità
faceva
virtù
–
all’appoggio
e
alle
alleanze
dei
gruppi
e
dei
partiti
di
centro-sinistra
e di
sinistra
alla
DC,
che
rappresentava
per
lui
il
male
minore.
Il
suo
attivo
anticomunismo
fu
generato
dal
timore
dello
sbocco
totalitario.
Era
sospettoso
di
Togliatti,
troppo
legato
a
Stalin
e
diffidente
della
svolta
di
Salerno,
pensava
che
i
comunisti
covassero
segreti
piani
rivoluzionari.
Tuttavia
non
c’era
una
chiusura
“totale”
verso
il
partito
comunista,
prevedendo
in
talune
circostanze
accordi
transitori
e
convergenze
temporanee
su
determinati
problemi
e su
singole
questioni
e
nutrendo
riposte
speranze
verso
una
sua
evoluzione
socialdemocratica.
I
fatti,
a
lungo
andare,
gli
hanno
dato
ampiamente
ragione,
ma a
questo
processo,
già
in
atto,
contribuì
in
misura
decisiva
il
crollo
del
muro
di
Berlino
e
ciò
che
ne
conseguì
(il
collasso
dell’URSS
e la
fine
della
guerra
fredda)
e
non
solo
i
bisogni
e le
condizioni
della
lotta
politica
interna
italiana:
“I
comunisti
resisi
conto
che
la
dipendenza
dal
governo
russo
e il
metodo
totalitario
non
rispondono
a
nessun
bisogno
italiano,
adotteranno
quei
metodi
del
socialismo
gradualista
che
hanno
fatto
ottima
prova
in
Inghilterra,
e
fuori
dei
quali,
in
società
come
quelle
dell’Europa
occidentale,
non
è
possibile
vedere
nessuna
sicurezza
di
elevamento
materiale,
intellettuale
e
morale
per
le
classi
lavoratrici”.
La
sua
ostilità
incondizionata,
senza
spiragli
di
cambiamento
e
senza
possibilità
di
ravvedimento,
andava
alle
destre
fasciste,
clerico-fasciste
e
monarchico-fasciste:
i
veri
nemici
acerrimi
e
irriducibili.
