IL
KURDISTAN, IL CONFEDERALISMO, LE
DONNE
UN MONDO DA COSTRUIRE
/ PARTE III
di Giuseppe
Tramontana
Il sistema del confederalismo
democratico è un progetto innovativo
in Medio Oriente. Tra i suoi
pilastri vanno annoverati
l’uguaglianza di genere e il ruolo
della donna curda. Si tratta della
cosiddetta filosofia
Jineolojî,
ideata da
Öcalan, il quale formulò il
concetto in base al quale il livello
di libertà di una società è dato dal
livello di libertà delle sue donne.
Come abbiamo visto, per il leader e
teorico curdo, il patriarcato e la
sottomissione delle donne sono alla
base di tutte le forme di dominio
vigenti nella società capitalistica.
Senza la schiavitù delle donne,
nessuna delle altre forme di dominio
potrebbe esistere e svilupparsi. Il
capitalismo e lo stato-nazione sono
la forma più manifesta e
istituzionalizzata di potere del
maschio: «il capitalismo e lo
stato-nazione sono il monopolio del
maschio dispotico e sfruttatore» (Öcalan
2019: 15). Il patriarcato nel Vicino
Oriente ha determinato una brutale
sottomissione delle donne e, come
conseguenza, la legalizzazione di
soprusi generalizzati ai danni dei
bambini, i cui matrimoni vengono
ammessi, e della stessa componente
femminile della società costretta a
processi ingiusti, a non essere
titolare di denaro o non poter
compiere operazioni bancarie, a cui
viene negata l’istruzione, a cui
vengono imposti vestiti da
indossare.
Nella Carta, sono tre i principali
istituti su cui si incardina il
sistema della perfetta uguaglianza
tra uomini e donne: 1) le quote: in
tutti i consigli elettivi vi deve
essere una quota garantita di almeno
il 40% di ciascun genere (e quindi
anche di donne) e ciò garantisce una
tendenziale parità numerica nelle
istituzioni amministrative e nei
comitati (art. 87); 2) ai sensi del
combinato disposto di cui agli artt.
28 (che demanda a leggi ad hoc la
previsione di istituti che
garantiscano la parità di genere) e
44 (che stabilisce che la lista dei
diritti e delle libertà prevista
nella Carta non è esaustiva,
potendosene aggiungere altri) è
stato varato il sistema di
co-presidenze: tutte le posizioni
chiave a tutti i livelli negli
organi decisionali seguono il
sistema di co-presidenze donna-uomo.
Per le posizioni dirigenziali
(sindaco, presidente di un consiglio
elettivo o di assemblea) un uomo e
una donna di etnie differenti sono
considerati presidenti ed hanno gli
stessi poteri; 3) le commissioni per
l’uguaglianza di genere: sono
commissioni per i diritti delle
donne e sono composte solo da donne
di diversa etnia. Sono parallele
agli organi decisionali e hanno il
diritto di veto su materie
riguardanti i diritti o la vita
delle donne. Possono provvedere
anche a servizi di supporto alle
donne in difficoltà a causa di
violenza o abusi o che hanno bisogno
di tutela in caso di violenze
domestiche.
È palese, allora, come il femminismo
rivendicato dalle donne curde non
riguardi un progetto statale, ma una
forma di organizzazione e azione
voluto dalle donne e gestito da loro
stesse. Le organizzazioni a difesa
della donna – accademie, comitati,
Unità di autodifesa, tribunali e
cooperative esclusivamente femminili
– stanno dando un contributo
notevole all’affermazione dei
diritti delle donne.
«Il
Movimento delle Donne Curde si
organizza autonomamente in tutte le
sfere della vita, dalla difesa
all’economia, dall’istruzione alla
salute. Affinché una lotta di
liberazione assuma pieno
significato, l’emancipazione della
donna non deve essere solo un fine,
ma anche uno strumento che concorra
attivamente al processo. In effetti,
la democrazia è in larga misura
definita dal grado di libertà della
donna» (Dirik 2017: 179-180).
Il movimento di liberazione delle
donne curdo ha alle spalle una lunga
storia, essendo nato ed essendosi
sviluppato negli anni Settanta, un
periodo di forti lotte sociali e di
forte influenza del cosiddetto
socialismo reale:
«alla
sua fondazione, nel 1978, il Partito
dei lavoratori del Kurdistan (PKK)
aspirava alla fondazione di uno
Stato-nazione socialista. Il
movimento delle donne curde nasce e
si sviluppa all’interno del
movimento di liberazione» (Milano-Tanrikulu
2015. 293). Ma presto, in relazione
alla lotta per la liberazione delle
donne, l’organizzazione si accorse
della gravità del problema che aveva
davanti e costruì la YJWK (Unione
Patriottica delle Donne del
Kurdistan) nel 1987. La
fondazione di questa unione fu la
prima dichiarazione di intenti verso
un’organizzazione delle donne unica
e separata. Negli anni ‘90 c’è stato
un enorme afflusso di donne nelle
forze della guerriglia. Il
conseguente sviluppo delle donne
nell’autodifesa diede loro
sicurezza. Questo portò a enormi
trasformazioni ideologiche,
politiche e sociali. E portò anche a
cambiamenti nel modo in cui le donne
erano percepite all’interno della
società curda e dai maschi. Questa
nuova consapevolezza, accompagnata
dal riconoscimento esterno, condusse
alla formazione di una nuova
organizzazione con le forze della
guerriglia. Nel 1993 per la prima
volta furono formate unità di sole
donne. Ciò significava che non
sarebbero state sotto il controllo
diretto di guerriglieri maschi e che
avrebbero avuto modo grado di fare
dei propri piani di decisioni e
quindi di realizzare questi piani.
Nel 1995 fu formata la YAJK (Unione
delle Donne Libere del Kurdistan).
All’interno della lotta di
liberazione del popolo curdo, si
innesta un’altra problematica:
quella della liberazione della
donna. E la soluzione richiedeva un
rimettere in questione la mentalità
patriarcale e i rapporti da essa
derivanti vigenti nella società
curda. Era una questione di potere e
di mentalità che comportava la
rottura con tabù storici, come, ad
esempio, la sottomissione agli
ordini maschili, e la creazione di
spazi di democrazia egualitaria.
Ovviamente non mancarono le tensioni
e i conflitti. Nel 1998, le donne
definirono i principi dell’ideologia
della liberazione delle donne e per
metterla in pratica formarono il
PJKK (Partito delle Lavoratrici
del Kurdistan). Nel 2000
allargarono la loro prospettiva
organizzativa e di lotta e fondarono
il Pajk– Partito delle Donne
Libere del Kurdistan. Una delle
più importanti conquiste di questo
periodo fu il Contratto Sociale
delle Donne. Tuttavia, questi
tentativi non superarono
completamente i limiti e la
struttura del patriarcato. Non solo
il movimento delle donne, ma tutta
l’organizzazione era alla ricerca di
un’alternativa. C’era bisogno di
un’organizzazione delle donne che
trascendesse le strutture di partito
e che fosse più flessibile e che
fosse un’organizzazione completa
confederale delle donne. Quindi nel
2005 è stato fondato il KJB (Alto
Consiglio delle Donne), con
l’obiettivo di farne il punto di
coordinamento tra le forze di
autodifesa, organizzazioni sociali,
il partito delle donne PAJK e
l’organizzazione delle giovani
donne. Il primo passo concreto verso
la nascita di questa nuova società
si è avuto nel 2012 con
l’autoproclamata autonomia del
Kurdistan della Siria del Nord Est (Rojava).
Qui, partendo dallo studio delle
esperienze rivoluzionarie degli
altri poli, hanno cercato di
elaborare un sistema che si
adattasse al proprio contesto: la
“teoria della rottura”. I suoi
principi essenziali sono: agire
indipendentemente dall’uomo; contare
sulle proprie forze; rivelare la
propria consapevolezza di genere;
creare proprie organizzazioni per le
donne. La liberazione delle donne è
considerato il fondamento della
lotta per la democrazia, il
presupposto per la liberazione dal
capitalismo.
Nel settembre del 2014
l’organizzazione delle donne ha
attraversato un’altra trasformazione
e contemporaneamente di conseguenza
ha cambiato il suo nome in KJK (Komalên
Jinên Kurdistan, Comunità delle
donne del Kurdistan). In questo modo
le donne si organizzarono e si
organizzano a partire dal livello
locale verso e in tutte le strutture
decisionali.
A livello giuridico un passo
decisivo verso la parità di genere
fu l’approvazione, sempre nel 2014,
della Legge delle Donne del
2014 che comprendeva il diritto al
divorzio e al lavoro, oltre alla
proibizione della poligamia e dei
matrimoni forzati e/o precoci.
Questa legge è applicata
regolarmente nelle regioni di Afrin,
Kobane e Jazeera, ma non ancora del
tutto in altre aree. Gli uomini
impiegati nelle istituzioni
pubbliche della Siria del Nord e
dell’Est non possono sposare più di
una donna, anche se a quelli che si
trovano già in una condizione di
matrimoni multipli pre-esistente non
viene espulso dal lavoro. Nelle
regioni in cui la Legge delle
Donne non è stata ancora
pienamente applicata, le attiviste
hanno scelto di adottare un
approccio graduale finalizzato ad un
cambiamento profondo della società
evitando l’imposizione dall’alto di
leggi che potrebbero essere
rifiutate dalla popolazione e anche
dalle donne stesse. La quantità di
energie impiegate per risolvere “la
questione delle donne” è
testimoniata dallo stesso numero di
istituzioni, assemblee e iniziative
che fanno parte del movimento delle
donne nella Siria del Nord e
dell’Est. In queste senso, la prima
importante istituzione da citare è
il Kongreya Star, Congresso
Star, (in riferimento alla antica
dea mesopotamica Istar), il
congresso del movimento delle donne
della Siria del Nord e dell’Est, una
federazione basata sulla
partecipazione di organizzazioni,
comitati e unioni. La sua idea è di
sviluppare un Rojava libero, una
Siria democratica e un Medio Oriente
democratico promuovendo la libertà
delle donne e il concetto della
nazione democratica. Esso assume
decisioni in una conferenza che si
tiene ogni due anni, delegando il
potere decisionale alle varie
strutture e ai singoli comitati che
ne fanno parte. È organizzato in
comuni e consigli con l’apporto
anche di istituzioni accademiche,
sindacati, partiti politici,
cooperative, associazioni e
comitati.
Le donne sono organizzate nel
Kongreya Star entro le strutture
dell’Amministrazione Autonoma e
altre strutture come la Unione delle
Donne Siriache (per le donne
siriaco-assire) e lavora in forma
indipendente. Il Kongreya Star
organizza il lavoro attraverso vari
comitati come quello delle Relazioni
Diplomatiche, dei Media,
dell’Educazione, dell’Ambiente,
della Giustizia e così via, comprese
le Forze Collettive di Autodifesa
delle Donne. Il Kongreya Star
organizza e sostiene molte attività
a tutti i livelli della società
comprese manifestazioni, programmi
di formazione, la partecipazione a
partnership internazionali e
costituendo cooperative. Nonostante
le sue radici siano nel movimento
curdo, ci si sta muovendo per
includere le donne di tutti i gruppi
etnici che vivono nella Siria del
Nord e dell’Est.
Un aspetto interessante di quanto
qui prodotto è stato lo sviluppo
della Jineoloji, la “scienza delle
donne”. Il termine Jineolojî,
derivante da Jin (“donna”, in
curdo, che, però condivide la stessa
radice di Jiyan/Jin, “vita”)
e lojî è l’adattamento curdo
del greco – logia – apparve
per la prima volta nel terzo volume
del Manifesto della civiltà
democratica di Öcalan,
intitolato Sociologia della
libertà. Più che una filosofia
è, come dice la definizione
medesima, una scienza, elaborata a
partire dal 2008. Nel 2011 fu
costituito il primo comitato di
Jineolojî all’interno del Pajk, il
Partito delle donne libere del
Kurdistan. Nel 2015 le donne del
partito si riunirono sulle montagne
del Kurdistan per la prima
conferenza di Jineolojî organizzata
dal Paik. In quell’occasione furono
creati diversi comitati per
promuovere il lavoro di
Jineolojî
nelle quattro parti del Kurdistan e
in Europa, muovendo i primi passi
per la diffusione della scienza
delle donne.
Anche se il primo comitato di
Jineolojî è nato all’interno del
Pajk, la sua rete oggi è diffusa in
varie parti del mondo, e anche donne
di organizzazioni diverse, che non
sono legate al Pajk, fanno parte di
Jineolojî. Questa filosofia (o
scienza) viene insegnata oggi in
centri predisposti in cui le donne
vengono educate ai principi
dell’emancipazione e
dell’autodifesa, specie in caso di
delitti d’onore, stupri o violenze
domestiche. Si tratta di un
movimento non elitario, aperto a
tutte, a prescindere da credo
religioso, etnia o opinioni
politiche. Le donne analfabete
imparano a leggere e scrivere; vi
sono donne che non sono mai andate a
scuola e lavorano gomito a gomito
con le laureate.
Öcalan, nello scritto Liberare la
vita. La rivoluzione delle donne
(nel quale dedica un intero
capitolo, il 12, alla Jineolojî
come scienza della donna)
sostiene che
«la libertà delle donne e
l’uguaglianza possono essere
raggiunte solo attraverso il
successo di una lotta complessiva e
democratica. Se non si ottiene la
democrazia, non si possono ottenere
neanche la libertà e l’uguaglianza.
(…) Un’arida uguaglianza giuridica
non significa nulla in assenza di
politiche democratiche; non darà
alcun contributo al raggiungimento
della libertà» (Öcalan
2013. 49).
Fu anche da queste esigenze di
carattere sociale che emerse la
volontà di costituire delle
formazioni militari di sole donne.
L’Ypj, che nacque ufficialmente nel
2013, ha alle spalle una lunga
storia di attivismo politico
femminile iniziato nel 1979. La
svolta si ebbe nel congresso del Pyd
del 2-3 aprile del 2012, al quale
parteciparono circa 200 donne.
In base alla cosiddetta «teoria
della rosa» avanzata da Öcalan
(ossia: anche la rosa è provvista di
spine per potersi difendere), nel
congresso venne posta all’ordine del
giorno la formazione di un
battaglione di autodifesa totalmente
femminile (il primo battaglione, in
realtà, esisteva già fin dal 5 marzo
2012: era il battaglione martire
Ruken di Afrin), separato dallo Ypg,
seppur inquadrato al suo interno. Il
congresso approvò la creazione del
nuovo battaglione, lo Ypj, l’Unità
di protezione delle donne (con
un significato ambivalente della
preposizione “delle” (donne), che
indica sia la specificazione – si
vogliono proteggere le donne – sia
un possessivo – formata da donne).
Non era mai accaduto nella storia
qualcosa del genere. Certamente,
erano esistite in passato
combattenti donne (basti pensare
alle miliziane durante la guerra
civile spagnola o alla presenza di
partigiane in molti europei durante
la Seconda Guerra mondiale), ma
costoro erano inquadrate sempre
all’interno di formazioni miste al
comando delle quali c’era sempre
uomini. La fondazione dello Ypj fu
qualcosa di rivoluzionario: si
trattava di formazioni combattenti,
che pur inquadrate all’interno dello
Ypg, erano esclusivamente femminili,
con funzioni difensive per reagire
quando la vita, la libertà e le
aspirazioni delle donne erano e sono
minacciate. Insomma, l’esercito
delle donne si è sviluppato seguendo
l’ideologia della liberazione delle
medesime donne. All’interno di esso
«non vi
è una vera e propria gerarchia e le
donne soldato non prendono ordini da
altri ufficiali uomini; viceversa,
hanno invece la possibilità di poter
comandare alcuni battaglioni di
uomini delle Ypg» (Gombacci 2019:
405).
Nel congresso vennero prese
deliberazioni in merito all’apertura
dei centri di addestramento dello
Ypj, sulle questioni relative ai
ruoli di comando e alla formazione
dei consigli militari, delle
accademie e dei battaglioni. Come
sottolinea Arzu Demir, all’interno
dello Ypg si applicano meccanismi
molto importanti nella lotta
all’egemonia maschile. Esiste
inoltre una piattaforma per gli
uomini che, in combattimento, non
obbediscono agli ordini di una donna
oppure si fanno notare per
un’aggressione fisica a una donna.
Su questa piattaforma, aperta solo
alle donne, questi uomini e i loro
comportamenti vengono processati:
gli uomini non possono partecipare
come giudici. Nel caso venga
accertata qualche molestia si
applicano sanzioni proporzionate
alla gravità della colpa: la
rimozione dall’incarico, un
avvertimento o una punizione. La
maggior parte delle donne delle YPJ
sono giovani e non sposate, ma le
donne sposate o con figli possono
unirsi ad alcune divisioni. Unirsi
alle forze armate è in alcuni casi
anche un modo per le giovani donne
(gli arruolamenti riguardano donne
dai 18 ai 40 anni) di sfuggire al
matrimonio forzato o a situazioni
familiari. Tuttavia, sono state
istituite accademie che accettano
donne dai 16 ai 18 anni in cui
possono vivere e ricevere istruzione
e sostegno, pur non svolgendo alcun
ruolo militare.
Oltre ai citati Ypj e Yak-Star, le
donne sono impegnate in altre
formazioni combattenti o di polizia.
Una delle più giovani è
rappresentata dalle Forze di
Protezione delle Donne di Bethnahrin
(Bethnahrin Women Protection
Forces, HSNB), fondate nel 2015
e operanti a Gozarto, il termine
siriaco-aramaico per indicare la
regione di Jazeera. L’Unità di Donne
Guardie di Khabur (Mawtbā s-Nātorē
s-Hābor, MNH) opera nell’area della
valle di Khabur. Entrambe le forze
si organizzano autonomamente come
parte del Consiglio Militare Siriaco
e delle guardie di Khabur. Fanno
parte delle FDS e sebbene il loro
numero sia relativamente basso,
hanno preso parte attiva alla
protezione dei villaggi
siriaco-assiri nella valle di Khabur
durante l’ultima offensiva turca.
Nella Federazione della Siria
dell’Est e del Nord operano, invece,
le Asayisha Jin (costituzionalizzate
con l’art. 15, ultimo comma, della
Carta), le forze di sicurezza
interne, organizzate in diversi
rami. Asayisha Jin, in
particolare, è la divisione
di donne delle forze generali di
sicurezza interna Asayish,
responsabili dei checkpoint tra le
città ed all’interno delle stesse,
delle operazioni di ricerca e
arresto, partecipano anche ad
operazioni militari, in particolare
all’interno delle città. Le donne
possono rivolgersi direttamente all’Asayisha
Jin in caso di violenza
domestica, cosa decisamente
importante considerato che nella
cultura locale è praticamente
inconcepibile per le donne
denunciare forme intime di violenza
e abusi al personale di sicurezza
maschile. Anche le donne
siriaco-assire sono organizzate
all’interno delle forze di sicurezza
interna di Sutoro e Nattoreh: sono
le Forze di Protezione Civili delle
Donne (Hezen Parastina Cawari
- HPC Jin), la divisione di donne
delle HPC, sono composte
principalmente da madri e nonne, ma
anche da alcune giovani donne.
Partecipano a tutte le funzioni
generali delle HPC, inoltre le HPC
Jin si occupano di controllare gli
edifici e le riunioni dei consigli e
delle istituzioni delle donne.
Le HPC Jin sono considerate le più
adatte all’intervento nelle
controversie domestiche in cui una
donna potrebbe trovarsi in una
posizione sensibile o vulnerabile.
Tutte le donne, indipendentemente
appunto dal credo religioso,
dall’appartenenza etnica o altro,
sono sottoposte a un periodo di
formazione e di addestramento
militare. La maggior parte dello
studio avviene nelle accademie e
nelle Case delle Donne. Qui si
insegna alle donne a «“disimparare
il patriarcato” e a sostituirlo con
un altro modello di società» (Gombacci
2019: 409). Viene insegnato loro la
volontà di resistenza (irada) e
l’autocontrollo per dominare i
propri impulsi, compresi quelli
sessuali, per dedicarsi solo alla
lotta dominando le paure,
sopportando i dolori più lancinanti,
conducendo operazioni rischiose,
imparando a tollerare la perdita dei
compagni o dei loro stessi cari.
Grazie a questo impegno, l’attività
rivoluzionaria, la presa di
coscienza della loro condizione e la
determinazione nel portare avanti la
lotta hanno permesso loro di
conquistare dignità e rispetto. Come
sottolineano Milano e Tanrikulu, la
mentalità feudale è dura a morire,
anche tra le stesse donne, ma il
processo di liberazione ormai pare
avviato ed è diventato un punto di
riferimento per tutte le donne del
Medio Oriente e non solo.
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