[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 211 / LUGLIO 2025 (CCXLII)


contemporanea

IL KURDISTAN, IL CONFEDERALISMO, LE DONNE
UN MONDO DA COSTRUIRE
/ PARTE I
di Giuseppe Tramontana

 

Chi sono i Curdi? Da dove vengono? La maggioranza dei 25-30 milioni di Curdi abita oggi in una regione grande come la Francia che gli specialisti e i nazionalisti curdi chiamano Kurdistan. Ma il Kurdistan non ha né esistenza diplomatica né esistenza politica. Questo paese dai confini incerti occupa gran parte della regione montagnosa che si estende dal Mar Nero al nord, fino alle steppe della Mesopotamia al sud, oltre la catena dei monti Zagros a est. Quest’area di alte montagne – alcune come l’Ararat superano i 5000 metri – ha dato vita a numerosi corsi d’acqua tra cui i due grandi fiumi biblici: Tigri ed Eufrate che scorrono per centinaia di chilometri nella regione prima di attraversare i territori arabi dell’Iraq e della Siria per poi gettarsi nel Golfo arabo-persico. Anche l’Arasse nasce nelle montagne del Kurdistan. I loro numerosi affluenti ne bagnano le fertili vallate. Dal punto di vista geografico, quindi, «è estremamente vario: vi si trovano pianure verdi e sconfinate, dolci colline brulle e montagne altissime che si stagliano contro il cielo con le vette coperte di neve. Ovunque, cascate d’acqua» (Aziz 2020: 6).

 

Altra ricchezza è il petrolio: il sottosuolo del Kurdistan racchiude immense riserve di petrolio di cui i curdi non fruiscono affatto (Galletti1999). Ma non solo. Vi si trovano anche ferro, zinco, uranio e miniere di cromo. I curdi sono divisi tra i territori di quattro Stati: Turchia (15-16 milioni, che vivono nella regione curda formata dalle 17 province orientali e sud-orientali, chiamata “regione dell’Est” o “Anatolia orientale”), Iran (circa 8 milioni che vivono i 4 province delle quali una sola è “Kordestan”), Iraq (circa 6 milioni, che vivono nella regione del Kurdistan, sotto protezione internazionale), Siria (un milione e mezzo, nella zona a nord/nord-est chiamata Giarizah). Dal punto di vista storico, la questione curda o problema curdo si sarebbe potuto risolvere già all’indomani della Prima guerra mondiale, allorché il Trattato di Sèvres del 1920, agli articoli 62, 63 e 64, prevedeva la possibilità di creare uno Stato curdo. La definizione dei confini era demandata ad una Commissione di tre membri, in rappresentanza di Gran Bretagna, Francia e Italia, con sede a Costantinopoli (art. 62), ma entro un anno i Curdi avrebbero dovuto dare il loro assenso – tramite un referendum – alla nascita della nuova entità statale (art. 64). Ma le cose andarono diversamente.

 

La rivolta di Mustafà Kemal Atatürk, il completo discredito del precedente governo firmatario del Trattato di Sèvres, la riconquista dei territori sottratti allo Stato turco al termine della guerra portarono, nel 1923, al Trattato di Losanna che superò quello di Sèvres e divise il territorio del possibile futuro Kurdistan indipendente in quattro zone attribuite, appunto, a Turchia, Iran, Iraq e Siria. La lotta dei curdi continuò per tutti gli anni Trenta e Quaranta. Nel 1943 Mustafà Barzani guidò una rivolta contro l’Iraq per ottenere l’autonomia del territorio curdo sotto lo Stato iracheno. Tra il 1945 e il 1946 si formò la cosiddetta Repubblica di Mahabad diretta da Qazi Muhammad con il sostegno dell’Unione Sovietica, ma le pressioni americane indussero i sovietici a togliere l’appoggio ai curdi: Barzani si rifugiò in Iran, instaurando, in un primo momento buoni rapporti con il regime di Reza Pahlavi, da dove conduceva la guerriglia contro lo stato iracheno. Ma, alla fine degli anni Sessanta un accordo Iran-Iraq produsse l’abbandono del sostegno iraniano a Barzani, in cambio di una striscia di territorio al confine, lo Shat-el-Arab. Barzani venne cacciato da Teheran e arrestato subito dopo. Morirà in esilio da lì a poco. I seguaci e successori, Talabani e Ahmed, si ritirarono in Siria, nel 1975, e fondarono il PUK, l’Unione Patriottica del Kurdistan. Intanto, in Turchia, fin dal 1960, dopo il colpo di stato del colonnello Alparslan Türkeş contro il governo democraticamente eletto del primo ministro Adnan Menderes, la politica nazionalista aveva subito un giro di vite: una religione, un popolo, una lingua. Le cose si aggravarono ulteriormente dapprima nel 1971, dopo il colpo di stato (cosiddetto del Memorandum) degli ufficiali turchi e la formazione del governo Erim, e poi con quello del generale Kenan Evren, nel 1980. Le conseguenze furono una progressiva persecuzione delle minoranze, compresa la curda, e una loro forzata “turchizzazione”.

Nel frattempo il 27 novembre 1978 era nato il PKK (Partiya Karkerên Kurdistanê, Partito dei Lavoratori Kurdi), di ispirazione marxista-leninista, fondato da Abdullah Öcalan, che «promulgava una sorta di rivoluzione socialista in Turchia, riprendendo in parte l’ideologia dei movimenti anticolonialisti sorti in Asia e Africa negli anni Cinquanta e Sessanta» (Torelli 2016: 84). A ciò si aggiungeva la forte identificazione del PKK come partito del Kurdistan turco, oppositore del governo di Istanbul. Questo suo ruolo, negli anni Ottanta, lo fa diventare una pedina importante nel gioco geopolitico tra le grandi potenze. Infatti, il PKK viene appoggiato dall’URSS in funzione anti-turca e anti-NATO (di cui la Turchia fa parte dal 1952). Nel 1984 il PKK intraprese la lotta armata, operando principalmente dalla Siria o dal Libano, attaccando sia funzionari, soldati e poliziotti turchi che esponenti curdi moderati. Furono anni di violenza e morte in cui la comunità curda in Turchia, esposta alle rappresaglie dell’esercito di Istanbul, fu costretta a fuggire e disperdersi. Tra gli anni Ottanta e Novanta gli scontri causarono circa 40.000 morti. «Il Pkk si presentava come un movimento di liberazione che ambiva a portare nuovi diritti, nuove libertà e ridare voce al nazionalismo curdo anche attraverso l’uso della violenza. La risposta della Turchia a questa spirale di violenza fu la creazione di una “macro area” altamente militarizzata nella parte sudorientale dell’Anatolia, denominata Olağanŭstŭ Hâl Bölge Valİlİğ- Ohal (Governo della Regione in Stato di Emergenza)» (Torelli 2019: 73).

 

Dal punto di vista finanziario il Pkk poteva contare sui ricavi del traffico di droga: secondo i turchi il giro di tale traffico ammontava a 200-500 milioni di dollari. All’inizio degli anni Novanta gli attacchi alla Turchia si intensificarono anche per lo scoppio della prima guerra del Golfo (1990-1991). Nel 1993 una serie di questi attacchi colpirono obiettivi turchi in Europa, in particolare in Germania (Bonn, Francoforte, Mainz, Hessen), ma anche Francia, Inghilterra, Svizzera, Austria e Danimarca. Tra il 1996 e il 1999 il Pkk utilizzò anche attentati suicidi. Undici su quindici vennero compiuti da donne. Anche per via degli attentati la causa curda cominciò a perdere consensi in Europa. Tanto che nel 1995 Öcalan, attraverso il canale MedTv, dichiarò il cessate il fuoco unilaterale proponendo una soluzione politica e non violenta alla questione curda. Ma gli scontri non cessarono. A complicare le cose, tuttavia, c’era anche una questione geopolitica. Dagli anni Novanta, il Pkk era diventato la longa manus della Siria di Hafiz al-Assad, contro la medesima Turchia. I due Stati, Siria e Turchia, oltre a far parte di schieramenti geopolitici opposti (filo-occidentale la Turchia, filo-sovietica e poi filorussa la Siria), avevano relazioni tese a causa del controllo delle risorse idriche della zona del Tigri e dell’Eufrate. Damasco, la capitale siriana, divenne la base del PKK e di Öcalan, in particolare. E da qui partivano gli attacchi contro il territorio turco e non solo. La situazione divenne talmente insostenibile che nel 1998 i due Paesi furono sull’orlo di una guerra e, per evitarla, la Siria fu costretta ad espellere Öcalan dal suo territorio. Da questo episodio scaturirà alla fine l’arresto del leader curdo, dopo una rocambolesca fuga tra Russia, Italia e, infine, Kenya, dove, appunto, verrà arrestato da CIA e Mossad, i servizi segreti israeliani, mentre si sta recando all’aeroporto di Nairobi per imbarcarsi alla volta del Sudafrica, dove era stato invitato da Nelson Mandela. Verrà processato e condannato a morte, condanna tramutata in carcere a vita da scontarsi nel carcere di Imrali, minuscola isola nel Mar di Marmara.

 

Dopo l’arresto Öcalan e la parziale dipartita del Pkk dalla Siria, si creò un vuoto politico e un nuovo partito, lo Yekîtî, Unità, tentò, con scarsi risultati, di riunire tutti i curdi - dagli esponenti di sinistra ai conservatori -, sotto un’unica bandiera. La svolta avvenne nel 2003 con la nascita del Pyd (Partiya Yekîtia Demokrat, Partito dell’Unione democratica), ispirato al pensiero di Öcalan e al principio di democrazia diretta o municipalismo libertario, pensiero a sua volta maturato dal leader curdo ormai in carcere grazie all’influenza esercitata su di lui dal filosofo anarco-ecologica americano Murray Bookchin (Biehl 2017: 10).

 

Quando scoppiarono le proteste, nel 2011, in seguito alle cosiddette “Primavere arabe”, anche la Siria ne venne coinvolta. Manifestazioni di curdi si tennero a Damasco. Il governo siriano, all’inizio, rispose, con la repressione e l’arresto di centinaia di oppositori, cui seguirono manifestazioni davanti al Ministero dell’Interno per chiederne la liberazione. Intanto, nelle città cominciarono a formarsi i primi comitati di resistenza al governo, mentre nel Paese emergevano gruppi qaedisti, islamisti e jihadisti. I partiti curdi, in particolare il Pyd, braccio siriano del Pkk, che stava diventando il punto di riferimento politico per i curdi-siriani del nordest, decise di non aderire all’opposizione anti-Assad, ma nemmeno di dar credito alle aperture dello stesso governo siriano. Nell’ottobre 2011, per tentare di costituire una forma di unità politica, tutti i partiti curdi, eccetto il Pyd, si riunirono nel Consiglio Nazionale Curdo (Kurdish National Council), supportato e sponsorizzato dal Presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani con lo scopo di avere uno strumento politico unitario per il dialogo sia con Damasco che con il Consiglio nazionale siriano, l’opposizione ad Assad in Parlamento. Il Pyd, invece, scelse una terza via: né opporsi radicalmente ad Assad né collaborare in toto con l’opposizione siriana. Privilegiando l’autodifesa anziché l’attacco e ricercando la formazione di un’entità territoriale retta dai principi del comunitarismo federalista, decise di usare le proprie milizie, le Ypg (Yenîkeyên Parastina Gel, Unità di Protezione Popolare), fondate nel 2004, per mantenere l’ordine. In breve tempo, le Ypg, forti del supporto e delle armi del Pkk, divennero uno strumento fondamentale per il controllo del territorio del Nord della Siria.

 

Quando nel 2012, Assad, in serie difficoltà ad Aleppo, dovette ritirare le truppe dal Nord per concentrarle al Centro e al Sud, le Ypg ne approfittarono per prendere il controllo delle zone di Kobane, Afrin e Jazeera, creando una zona autonoma politico-amministrativa sotto il diretto controllo curdo, su cui, nel 2013, il Pyd decise di proclamare autonomamente il governo ad interim. La decisione, concordata a Qamishl anche con gli altri dignitari curdi e con quelli arabi e cristiani della zona, sopprimeva un ormai inutile Consiglio Supremo Curdo e istituiva l’autoproclamata amministrazione autonoma del Rojava, il Kurdistan occidentale. Nel 2013 vennero fondate le Ypj (Yekîneyên Parastina Jin, Unità di Protezione delle Donne), che contava intorno a 750 membri, mentre in quello stesso periodo le Ypg ne contava circa 3000, diventati 45.000 tre anni dopo (Barfi 9.10.2015). Le Ypg e le Ypj si distinsero in numerose battaglie, in particolare in quella per la difesa di Kobane, assediata dalle truppe dell’ISIS dal settembre 2014 al gennaio 2015. Qui, anche grazie al supporto dell’aviazione americana e ai contributi di combattenti internazionali (Compasso 2015; Andolina 2020; Zerocalcare 2016; Demir 2016), e pur avendo un forte ostacolo nell’ambigua politica militare turca, ufficialmente schierata contro il Califfato, ma nei fatti più preoccupata di erodere terreno ai curdi per non rafforzarli eccessivamente, la qualità dei combattenti Ypg e l’eroismo delle donne guerriere dell’Ypj conquistarono le simpatie dell’opinione pubblica internazionale. Cominciò a parlarsi di “Rivoluzione del Rojava”. Proprio per evidenziare i precetti di Öcalan sul multi-etnicismo e sul municipalismo confederale, nel 2015 vennero create, con l’accordo di tutti i leader curdi presenti sul territorio, le Forze democratiche siriane (Sdf, Syrian democratic Forces), una coalizione multietnica e multireligiosa unitasi per collaborare con le Ypg e le Ypj alla lotta contro il Califfato e gli islamisti. Tra i fondatori delle Sdf troviamo le Ypg, Ypj, Jaysh al-Tuwar (milizie arabe e turcomanne), i cristiani del Syriac Military Council, Sanadeed Army, Raqqa Revolutionary Front, e una miriade di altre sigle riconducibili a varie entità tribali, compresi due battaglioni yazidi formatisi dopo le stragi commesse dall’ISIS contro i loro villaggi. Secondo dati attendibili le Sdf arrivarono ad avere un numero di uomini e donne tra 60 e 75.000.

 

Nell’ottobre del 2017, le Sdf, sempre appoggiate dall’aviazione Usa, riuscirono a liberare la città di Raqqa, capitale dell’autoproclamato Califfato, e dei villaggi a nord di Deier Ezzor. Il 23 marzo 2019 dichiararono concluse le operazioni militari contro l’ISIS. Dopo meno di sei mesi, si consumò tuttavia, l’ennesimo tradimento ai danni dei curdi. Il presidente americano Donald Trump, la notte tra il 6 e il 7 ottobre, comunicò al premier turco Erdogan che avrebbe ritirato seduta stante il contingente americano di stanza nel nord della Siria, dando di fatti via libera a qualsiasi operazione militare turca contro i curdi. E l’offensiva non si fece attendere. Già il 7 ottobre vennero sparati i primi colpi di artiglieri al confine di Fishkabour, tra Siria e Iraq per evitare una saldatura tra curdi siriani e iracheni, come successo a Kobane nel 2014. Le truppe turche, appoggiate dagli islamisti del Free Syrian Army, dotate di artiglieria pesante, costrinsero i curdi, senza artiglieria, a indietreggiare, lasciando il loro territorio. L’avanzata turco-islamista portò a una serie inaudita di violenze con l’uccisione a freddo di combattenti Ypg e Ypj. Lo sdegno contro la scelta di Trump fece mobilitare le cancellerie internazionali, ma fu la Russia di Vladimir Putin a porsi come mediatrice tra Turchia, Curdi e Siria. L’accordo prevedeva, oltre all’allontanamento delle Sdf da una striscia di 30 chilometri dalla frontiera turca, l’affidamento del controllo della stessa frontiera alla polizia militare russa e a un reparto transfrontaliero della polizia siriana. Una coincidenza particolare riguardò, il 27 ottobre 2019, l’annuncio di Trump dell’uccisione da parte di uomini specializzati dei servizi segreti americani di al-Baghdadi, il leader dell’ISIS, che aveva proclamato nel 2014 la nascita del Califfato. La vicinanza delle date tra annuncio del ritiro dalla Siria e uccisione del leader Isis hanno fatto pensare ad una sorta di accordo sottobanco tra lo stesso Trump ed Erdogan: al-Baghdadi, spacciato poi, a fini propagandistici ed elettoralistici, come un grande successo della politica estera del presidente Usa in cambio del via libera all’azione contro i curdi.

 

Il confederalismo democratico (noto anche come comunalismo curdo o apoismo), è la proposta del movimento di liberazione curdo per far avanzare la liberazione del Kurdistan. In particolare, è il tentativo di creare, nel Rojava, un sistema democratico, per realizzare la liberazione e la democratizzazione del popolo curdo, tanto in una prospettiva nazional/culturale quanto sociale. Questo sistema non persegue la creazione di uno stato-nazione curdo, bensì la creazione di una nazione democratica, la cui base è la società civile organizzata autonomamente in forma democratica, il cui centro di autogestione politica sono le assemblee delle comunità e dei consigli aperti locali, retti con la democrazia diretta. Questi, liberamente confederati e riuniti in congressi generali, con funzioni di coordinamento, vanno a costituire la nazione democratica del Rojava.

In ambito economico il confederalismo democratico persegue un sistema che permetta tanto la giusta distribuzione delle risorse quanto la tutela dell’ambiente, per cui si supera il capitalismo, verso un socialismo democratico in cui le risorse appartengono al popolo, indirizzando l’economia verso il bene collettivo e non verso l’accumulazione del capitale e verso il consumismo, cause tanto delle ingiustizie sociali quanto delle grandi violenze perpetrate contro l’ambiente naturale e le persone.

 

La liberazione della donna è un altro pilastro del confederalismo democratico, con cui si cerca di creare una società libera dal sessismo, sia quello che proviene dalla tradizionale società patriarcale o dalle interpretazioni religiose sessiste, sia quello che promana dalla mercificazione della donna attuata dalla e nella modernità capitalista. Pertanto, di fronte della modernità capitalistica, di cui Öcalan ha indicato i tre pilastri nello Stato-nazione, nel capitalismo e nell’industrialismo, il confederalismo democratico rappresenta la modernità democratica che libererà il Kurdistan dalla oppressione nazional/culturale, sociale, politica, economica, patriarcale ed ecologica.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]