IL
KURDISTAN, IL CONFEDERALISMO, LE
DONNE
UN MONDO DA COSTRUIRE
/ PARTE I
di Giuseppe
Tramontana
Chi
sono i Curdi? Da dove vengono? La
maggioranza dei 25-30 milioni di
Curdi abita oggi in una regione
grande come la Francia che gli
specialisti e i nazionalisti curdi
chiamano Kurdistan. Ma il Kurdistan
non ha né esistenza diplomatica né
esistenza politica. Questo paese dai
confini incerti occupa gran parte
della regione montagnosa che si
estende dal Mar Nero al nord, fino
alle steppe della Mesopotamia al
sud, oltre la catena dei monti
Zagros a est. Quest’area di alte
montagne – alcune come l’Ararat
superano i 5000 metri – ha dato vita
a numerosi corsi d’acqua tra cui i
due grandi fiumi biblici: Tigri ed
Eufrate che scorrono per centinaia
di chilometri nella regione prima di
attraversare i territori arabi
dell’Iraq e della Siria per poi
gettarsi nel Golfo arabo-persico.
Anche l’Arasse nasce nelle montagne
del Kurdistan. I loro numerosi
affluenti ne bagnano le fertili
vallate. Dal punto di vista
geografico, quindi,
«è
estremamente vario: vi si trovano
pianure verdi e sconfinate, dolci
colline brulle e montagne altissime
che si stagliano contro il cielo con
le vette coperte di neve. Ovunque,
cascate d’acqua»
(Aziz 2020: 6).
Altra
ricchezza è il petrolio: il
sottosuolo del Kurdistan racchiude
immense riserve di petrolio di cui i
curdi non fruiscono affatto
(Galletti1999). Ma non solo. Vi si
trovano anche ferro, zinco, uranio e
miniere di cromo. I curdi sono
divisi tra i territori di quattro
Stati: Turchia (15-16 milioni, che
vivono nella regione curda formata
dalle 17 province orientali e
sud-orientali, chiamata “regione
dell’Est” o “Anatolia orientale”),
Iran (circa 8 milioni che vivono i 4
province delle quali una sola è “Kordestan”),
Iraq (circa 6 milioni, che vivono
nella regione del Kurdistan, sotto
protezione internazionale), Siria
(un milione e mezzo, nella zona a
nord/nord-est chiamata Giarizah).
Dal punto di vista storico, la
questione curda o problema curdo si
sarebbe potuto risolvere già
all’indomani della Prima guerra
mondiale, allorché il Trattato di
Sèvres del 1920, agli articoli 62,
63 e 64, prevedeva la possibilità di
creare uno Stato curdo. La
definizione dei confini era
demandata ad una Commissione di tre
membri, in rappresentanza di Gran
Bretagna, Francia e Italia, con sede
a Costantinopoli (art. 62), ma entro
un anno i Curdi avrebbero dovuto
dare il loro assenso – tramite un
referendum – alla nascita della
nuova entità statale (art. 64). Ma
le cose andarono diversamente.
La
rivolta di Mustafà Kemal Atatürk,
il completo discredito del
precedente governo firmatario del
Trattato di Sèvres, la riconquista
dei territori sottratti allo Stato
turco al termine della guerra
portarono, nel 1923, al Trattato di
Losanna che superò quello di Sèvres
e divise il territorio del possibile
futuro Kurdistan indipendente in
quattro zone attribuite, appunto, a
Turchia, Iran, Iraq e Siria. La
lotta dei curdi continuò per tutti
gli anni Trenta e Quaranta. Nel 1943
Mustafà Barzani guidò una rivolta
contro l’Iraq per ottenere
l’autonomia del territorio curdo
sotto lo Stato iracheno. Tra il 1945
e il 1946 si formò la cosiddetta
Repubblica di Mahabad diretta da
Qazi Muhammad con il sostegno
dell’Unione Sovietica, ma le
pressioni americane indussero i
sovietici a togliere l’appoggio ai
curdi: Barzani si rifugiò in Iran,
instaurando, in un primo momento
buoni rapporti con il regime di Reza
Pahlavi, da dove conduceva la
guerriglia contro lo stato iracheno.
Ma, alla fine degli anni Sessanta un
accordo Iran-Iraq produsse
l’abbandono del sostegno iraniano a
Barzani, in cambio di una striscia
di territorio al confine, lo
Shat-el-Arab. Barzani venne cacciato
da Teheran e arrestato subito dopo.
Morirà in esilio da lì a poco. I
seguaci e successori, Talabani e
Ahmed, si ritirarono in Siria, nel
1975, e fondarono il PUK, l’Unione
Patriottica del Kurdistan. Intanto,
in Turchia, fin dal 1960, dopo il
colpo di stato del colonnello
Alparslan Türkeş contro il governo
democraticamente eletto del primo
ministro Adnan Menderes, la politica
nazionalista aveva subito un giro di
vite: una religione, un popolo, una
lingua. Le cose si aggravarono
ulteriormente dapprima nel 1971,
dopo il colpo di stato (cosiddetto
del Memorandum) degli ufficiali
turchi e la formazione del governo
Erim, e poi con quello del generale
Kenan Evren, nel 1980. Le
conseguenze furono una progressiva
persecuzione delle minoranze,
compresa la curda, e una loro
forzata “turchizzazione”.
Nel
frattempo il 27 novembre 1978 era
nato il PKK (Partiya Karkerên
Kurdistanê, Partito dei
Lavoratori Kurdi), di ispirazione
marxista-leninista, fondato da
Abdullah
Öcalan, che «promulgava una
sorta di rivoluzione socialista in
Turchia, riprendendo in parte
l’ideologia dei movimenti
anticolonialisti sorti in Asia e
Africa negli anni Cinquanta e
Sessanta» (Torelli 2016: 84). A ciò
si aggiungeva la forte
identificazione del PKK come partito
del Kurdistan turco, oppositore del
governo di Istanbul. Questo suo
ruolo, negli anni Ottanta, lo fa
diventare una pedina importante nel
gioco geopolitico tra le grandi
potenze. Infatti, il PKK viene
appoggiato dall’URSS in funzione
anti-turca e anti-NATO (di cui la
Turchia fa parte dal 1952). Nel 1984
il PKK intraprese la lotta armata,
operando principalmente dalla Siria
o dal Libano, attaccando sia
funzionari, soldati e poliziotti
turchi che esponenti curdi moderati.
Furono anni di violenza e morte in
cui la comunità curda in Turchia,
esposta alle rappresaglie
dell’esercito di Istanbul, fu
costretta a fuggire e disperdersi.
Tra gli anni Ottanta e Novanta gli
scontri causarono circa 40.000
morti. «Il Pkk si presentava come un
movimento di liberazione che ambiva
a portare nuovi diritti, nuove
libertà e ridare voce al
nazionalismo curdo anche attraverso
l’uso della violenza. La risposta
della Turchia a questa spirale di
violenza fu la creazione di una
“macro area” altamente militarizzata
nella parte sudorientale
dell’Anatolia, denominata Olağanŭstŭ
Hâl Bölge Valİlİğ- Ohal (Governo
della Regione in Stato di
Emergenza)» (Torelli 2019: 73).
Dal
punto di vista finanziario il Pkk
poteva contare sui ricavi del
traffico di droga: secondo i turchi
il giro di tale traffico ammontava a
200-500 milioni di dollari.
All’inizio degli anni Novanta gli
attacchi alla Turchia si
intensificarono anche per lo scoppio
della prima guerra del Golfo
(1990-1991). Nel 1993 una serie di
questi attacchi colpirono obiettivi
turchi in Europa, in particolare in
Germania (Bonn, Francoforte, Mainz,
Hessen), ma anche Francia,
Inghilterra, Svizzera, Austria e
Danimarca. Tra il 1996 e il 1999 il
Pkk utilizzò anche attentati
suicidi. Undici su quindici vennero
compiuti da donne. Anche per via
degli attentati la causa curda
cominciò a perdere consensi in
Europa. Tanto che nel 1995 Öcalan,
attraverso il canale MedTv,
dichiarò il cessate il fuoco
unilaterale proponendo una soluzione
politica e non violenta alla
questione curda. Ma gli scontri non
cessarono. A complicare le cose,
tuttavia, c’era anche una questione
geopolitica. Dagli anni Novanta, il
Pkk era diventato la longa manus
della Siria di Hafiz al-Assad,
contro la medesima Turchia. I due
Stati, Siria e Turchia, oltre a far
parte di schieramenti geopolitici
opposti (filo-occidentale la
Turchia, filo-sovietica e poi
filorussa la Siria), avevano
relazioni tese a causa del controllo
delle risorse idriche della zona del
Tigri e dell’Eufrate. Damasco, la
capitale siriana, divenne la base
del PKK e di Öcalan, in particolare.
E da qui partivano gli attacchi
contro il territorio turco e non
solo. La situazione divenne talmente
insostenibile che nel 1998 i due
Paesi furono sull’orlo di una guerra
e, per evitarla, la Siria fu
costretta ad espellere
Öcalan
dal suo territorio. Da questo
episodio scaturirà alla fine
l’arresto del leader curdo, dopo una
rocambolesca fuga tra Russia, Italia
e, infine, Kenya, dove, appunto,
verrà arrestato da CIA e Mossad, i
servizi segreti israeliani, mentre
si sta recando all’aeroporto di
Nairobi per imbarcarsi alla volta
del Sudafrica, dove era stato
invitato da Nelson Mandela. Verrà
processato e condannato a morte,
condanna tramutata in carcere a vita
da scontarsi nel carcere di Imrali,
minuscola isola nel Mar di Marmara.
Dopo
l’arresto
Öcalan e la parziale dipartita
del Pkk dalla Siria, si creò un
vuoto politico e un nuovo partito,
lo Yekîtî, Unità, tentò, con
scarsi risultati, di riunire tutti i
curdi - dagli esponenti di sinistra
ai conservatori -, sotto un’unica
bandiera. La svolta avvenne nel 2003
con la nascita del Pyd (Partiya
Yekîtia Demokrat, Partito
dell’Unione democratica), ispirato
al pensiero di Öcalan e al principio
di democrazia diretta o
municipalismo libertario, pensiero a
sua volta maturato dal leader curdo
ormai in carcere grazie
all’influenza esercitata su di lui
dal filosofo anarco-ecologica
americano Murray Bookchin (Biehl
2017: 10).
Quando
scoppiarono le proteste, nel 2011,
in seguito alle cosiddette
“Primavere arabe”, anche la Siria ne
venne coinvolta. Manifestazioni di
curdi si tennero a Damasco. Il
governo siriano, all’inizio,
rispose, con la repressione e
l’arresto di centinaia di
oppositori, cui seguirono
manifestazioni davanti al Ministero
dell’Interno per chiederne la
liberazione. Intanto, nelle città
cominciarono a formarsi i primi
comitati di resistenza al governo,
mentre nel Paese emergevano gruppi
qaedisti, islamisti e jihadisti. I
partiti curdi, in particolare il Pyd,
braccio siriano del Pkk, che stava
diventando il punto di riferimento
politico per i curdi-siriani del
nordest, decise di non aderire
all’opposizione anti-Assad, ma
nemmeno di dar credito alle aperture
dello stesso governo siriano.
Nell’ottobre 2011, per tentare di
costituire una forma di unità
politica, tutti i partiti curdi,
eccetto il Pyd, si riunirono nel
Consiglio Nazionale Curdo (Kurdish
National Council), supportato e
sponsorizzato dal Presidente del
Kurdistan iracheno Massoud Barzani
con lo scopo di avere uno strumento
politico unitario per il dialogo sia
con Damasco che con il Consiglio
nazionale siriano, l’opposizione ad
Assad in Parlamento. Il Pyd, invece,
scelse una terza via: né opporsi
radicalmente ad Assad né collaborare
in toto con l’opposizione siriana.
Privilegiando l’autodifesa anziché
l’attacco e ricercando la formazione
di un’entità territoriale retta dai
principi del comunitarismo
federalista, decise di usare le
proprie milizie, le Ypg (Yenîkeyên
Parastina Gel, Unità di
Protezione Popolare), fondate nel
2004, per mantenere l’ordine. In
breve tempo, le Ypg, forti del
supporto e delle armi del Pkk,
divennero uno strumento fondamentale
per il controllo del territorio del
Nord della Siria.
Quando
nel 2012, Assad, in serie difficoltà
ad Aleppo, dovette ritirare le
truppe dal Nord per concentrarle al
Centro e al Sud, le Ypg ne
approfittarono per prendere il
controllo delle zone di Kobane,
Afrin e Jazeera, creando una zona
autonoma politico-amministrativa
sotto il diretto controllo curdo, su
cui, nel 2013, il Pyd decise di
proclamare autonomamente il governo
ad interim. La decisione, concordata
a Qamishl anche con gli altri
dignitari curdi e con quelli arabi e
cristiani della zona, sopprimeva un
ormai inutile Consiglio Supremo
Curdo e istituiva l’autoproclamata
amministrazione autonoma del Rojava,
il Kurdistan occidentale. Nel 2013
vennero fondate le Ypj (Yekîneyên
Parastina Jin, Unità di
Protezione delle Donne), che contava
intorno a 750 membri, mentre in
quello stesso periodo le Ypg ne
contava circa 3000, diventati 45.000
tre anni dopo (Barfi 9.10.2015). Le
Ypg e le Ypj si distinsero in
numerose battaglie, in particolare
in quella per la difesa di Kobane,
assediata dalle truppe dell’ISIS dal
settembre 2014 al gennaio 2015. Qui,
anche grazie al supporto
dell’aviazione americana e ai
contributi di combattenti
internazionali (Compasso 2015;
Andolina 2020; Zerocalcare 2016;
Demir 2016), e pur avendo un forte
ostacolo nell’ambigua politica
militare turca, ufficialmente
schierata contro il Califfato, ma
nei fatti più preoccupata di erodere
terreno ai curdi per non rafforzarli
eccessivamente, la qualità dei
combattenti Ypg e l’eroismo delle
donne guerriere dell’Ypj
conquistarono le simpatie
dell’opinione pubblica
internazionale. Cominciò a parlarsi
di “Rivoluzione del Rojava”. Proprio
per evidenziare i precetti di Öcalan
sul multi-etnicismo e sul
municipalismo confederale, nel 2015
vennero create, con l’accordo di
tutti i leader curdi presenti sul
territorio, le Forze democratiche
siriane (Sdf, Syrian democratic
Forces), una coalizione
multietnica e multireligiosa unitasi
per collaborare con le Ypg e le Ypj
alla lotta contro il Califfato e gli
islamisti. Tra i fondatori delle Sdf
troviamo le Ypg, Ypj, Jaysh
al-Tuwar (milizie arabe e
turcomanne), i cristiani del
Syriac Military Council,
Sanadeed Army, Raqqa
Revolutionary Front, e una
miriade di altre sigle riconducibili
a varie entità tribali, compresi due
battaglioni yazidi formatisi dopo le
stragi commesse dall’ISIS contro i
loro villaggi. Secondo dati
attendibili le Sdf arrivarono ad
avere un numero di uomini e donne
tra 60 e 75.000.
Nell’ottobre del 2017, le Sdf,
sempre appoggiate dall’aviazione
Usa, riuscirono a liberare la città
di Raqqa, capitale
dell’autoproclamato Califfato, e dei
villaggi a nord di Deier Ezzor. Il
23 marzo 2019 dichiararono concluse
le operazioni militari contro l’ISIS.
Dopo meno di sei mesi, si consumò
tuttavia, l’ennesimo tradimento ai
danni dei curdi. Il presidente
americano Donald Trump, la notte tra
il 6 e il 7 ottobre, comunicò al
premier turco Erdogan che avrebbe
ritirato seduta stante il
contingente americano di stanza nel
nord della Siria, dando di fatti via
libera a qualsiasi operazione
militare turca contro i curdi. E
l’offensiva non si fece attendere.
Già il 7 ottobre vennero sparati i
primi colpi di artiglieri al confine
di Fishkabour, tra Siria e Iraq per
evitare una saldatura tra curdi
siriani e iracheni, come successo a
Kobane nel 2014. Le truppe turche,
appoggiate dagli islamisti del
Free Syrian Army, dotate di
artiglieria pesante, costrinsero i
curdi, senza artiglieria, a
indietreggiare, lasciando il loro
territorio. L’avanzata
turco-islamista portò a una serie
inaudita di violenze con l’uccisione
a freddo di combattenti Ypg e Ypj.
Lo sdegno contro la scelta di Trump
fece mobilitare le cancellerie
internazionali, ma fu la Russia di
Vladimir Putin a porsi come
mediatrice tra Turchia, Curdi e
Siria. L’accordo prevedeva, oltre
all’allontanamento delle Sdf da una
striscia di 30 chilometri dalla
frontiera turca, l’affidamento del
controllo della stessa frontiera
alla polizia militare russa e a un
reparto transfrontaliero della
polizia siriana. Una coincidenza
particolare riguardò, il 27 ottobre
2019, l’annuncio di Trump
dell’uccisione da parte di uomini
specializzati dei servizi segreti
americani di al-Baghdadi, il leader
dell’ISIS, che aveva proclamato nel
2014 la nascita del Califfato. La
vicinanza delle date tra annuncio
del ritiro dalla Siria e uccisione
del leader Isis hanno fatto pensare
ad una sorta di accordo sottobanco
tra lo stesso Trump ed Erdogan:
al-Baghdadi, spacciato poi, a fini
propagandistici ed elettoralistici,
come un grande successo della
politica estera del presidente Usa
in cambio del via libera all’azione
contro i curdi.
Il confederalismo democratico (noto
anche come comunalismo curdo o
apoismo), è la proposta del
movimento di liberazione curdo per
far avanzare la liberazione del
Kurdistan. In particolare, è il
tentativo di creare, nel Rojava, un
sistema democratico, per realizzare
la liberazione e la
democratizzazione del popolo curdo,
tanto in una prospettiva nazional/culturale
quanto sociale. Questo sistema non
persegue la creazione di uno
stato-nazione curdo, bensì la
creazione di una nazione
democratica, la cui base è la
società civile organizzata
autonomamente in forma democratica,
il cui centro di autogestione
politica sono le assemblee delle
comunità e dei consigli aperti
locali, retti con la democrazia
diretta. Questi, liberamente
confederati e riuniti in congressi
generali, con funzioni di
coordinamento, vanno a costituire la
nazione democratica del Rojava.
In ambito economico il
confederalismo democratico persegue
un sistema che permetta tanto la
giusta distribuzione delle risorse
quanto la tutela dell’ambiente, per
cui si supera il capitalismo, verso
un socialismo democratico in cui le
risorse appartengono al popolo,
indirizzando l’economia verso il
bene collettivo e non verso
l’accumulazione del capitale e verso
il consumismo, cause tanto delle
ingiustizie sociali quanto delle
grandi violenze perpetrate contro
l’ambiente naturale e le persone.
La liberazione della donna è un
altro pilastro del confederalismo
democratico, con cui si cerca di
creare una società libera dal
sessismo, sia quello che proviene
dalla tradizionale società
patriarcale o dalle interpretazioni
religiose sessiste, sia quello che
promana dalla mercificazione della
donna attuata dalla e nella
modernità capitalista. Pertanto, di
fronte della modernità
capitalistica, di cui
Öcalan
ha indicato i tre pilastri nello
Stato-nazione, nel capitalismo e
nell’industrialismo, il
confederalismo democratico
rappresenta la modernità democratica
che libererà il Kurdistan dalla
oppressione nazional/culturale,
sociale, politica, economica,
patriarcale ed ecologica.