[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 153 / SETTEMBRE 2020 (CLXXXIV)


attualità

KONFERENTSIYA
UN FILM SUI SOPRAVVISSUTI AI FATTI DEL TEATRO DUBROVKA
di Leila Tavi


Konferentsiya (Конференция, Conference) è un film di Ivan I. Tverdovskij (Ива́н Ива́нович Твердовский), in concorso alla settantasettesima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Venezia, nella sezione Giornate degli Autori (Venice Days). 

 

Si tratta di un’opera prima del giovane filmmaker moscovita sulla paura, sulla sindrome post-traumatica e sull’espiazione della colpa. Il film narra del dramma che tormenta una famiglia di sopravvissuti a diciassette anni dalla strage avvenuta il 26 ottobre 2002 nel teatro Dubrovka (Дубро́вка) di Mosca, dove 850 spettatori furono presi in ostaggio la sera del 23 ottobre, mentre andava in scena il musical Nord-Ost (Норд-О́ст). 

 

L’azione fu organizzata da un gruppo di militanti armati ceceni, fedeli al movimento separatista e composto anche da vedove nere, donne kamikaze chiamate «Shahidki», il plurale di shahidka (шахи́дка), termine che lega il suffisso femminile russo alla parola araba shahid, «martire» (شَهيد).

 

Proprio come una martire ci appare la protagonista all’inizio del film, come una figura ieratica, una monaca ortodossa, che con la sua veste nera integrale richiama alla memoria una vedova nera cecena. Natasha Samokhina non ha preso i voti da ragazza, ha un passato da madre e da moglie. Nel giorno dell’assalto al Dubrovka la donna era lì con la sua famiglia. 

 

 

Come ogni anno ha chiesto un appuntamento al direttore del teatro per affittare la sala e riunirsi con i parenti delle vittime, per ricordare i morti e coloro che, pur essendo sopravvissuti, sono rimasti invalidi a causa delle esalazioni del gas utilizzato dagli Specnaz (спецназ) per stordire i ribelli e poter, così, far irruzione nel teatro.

 

Nel riempire il formulario che il direttore le ha chiesto di compilare per richiedere l’affitto della sala, Natasha Samokhina vorrebbe inserire come motivazione “momento di lutto” o “commemorazione funebre”, ma il contratto di affitto del teatro non lo prevede. Il direttore sottolinea che gestisce una struttura commerciale e che la suora non può aspettarsi che sia interrotta la programmazione del teatro per un evento che comprende essere di tipo umanitario, ma che non può essere gratuito, farà un prezzo di favore e un biglietto ridotto, ma la suora deve barrare la casella conferenza, non ci sono eccezioni alla tipologia di eventi prevista dal contratto. 

 

Pochi vogliono ricordare, pochi vanno alla commemorazione, a eccezione di quella in ricorrenza dei 15 anni, addirittura con la troupe della televisione di Stato, che ha fatto un reportage, ricorda Natasha Samokhina con un’altra donna che ha perso un suo caro nell’attacco del 2002 e che ogni anno l’aiuta a organizzare l’evento commemorativo al Dubrovka.

 

Durante le scene del film si avverte la compostezza della sofferenza del popolo russo, che subisce in silenzio senza elaborare il lutto, senza analizzare le circostanze, perché quello che lo Stato fa non può essere contestato, si accetta passivamente e anche il sacrificio della perdita di centinaia di ostaggi uccisi dal gas lanciato dagli Specnaz è il prezzo da pagare alla Patria. 

 

Al vigilante del teatro, Galya la figlia di Natasha si presenta come ostaggio, ma l’ingresso è consentito solo nei giorni stabiliti, non si entra senza autorizzazione, non si entra senza essere in lista. All’entrata, come in tutti i luoghi pubblici di Mosca, il controllo con il metal detector. Galya acquista un biglietto per la commemorazione, fila 8 posto 26, come allora. Appena seduta non resiste, scappa in bagno, le manca l’aria, apre e chiude convulsamente la finestra, ossessivamente. Anche il padre di Galya è rimasto gravemente paralizzato dagli effetti del gas.

 

Nel ricordo degli ostaggi, è evocato Aslan, uno dei ribelli che durante il sequestro, nel film si dice, salì sul palco con una radio urlando che i media russi erano colpevoli di censurare la verità dei fatti sulla questione cecena e una combattente shaidka, dal soprannome Ira, ma dal nome Gulchatai, con una cintura esplosiva, l’unica ribelle con il volto scoperto, giovane dal tipico viso ceceno, che ti può capitare di incontrare per la strada o al mercato, racconta durante il film una superstite.

 

Poi il ricordo di Ol’ga Romanova (Ольга Романова), che il 24 settembre riuscì a eludere il cordone di sicurezza e a introdursi nel teatro per tentare di convincere i ribelli a lasciare liberi gli ostaggi e che divenne la prima delle oltre cento vittime di quell’assalto. 

 

Qualcuno tra il pubblico ricorda il lancio di vivande e di snack dal palco, come “trofei”, così come li chiamavano i militanti, poi il ricordo di quando con lo scotch i ribelli hanno legato a due sedie posizionate schiena contro schiena sul palco delle confezioni di cibo a dell’esplosivo, con quel tipico gracchiante rumore del nastro adesivo, un rumore che ti rimane addosso. Mentre costruivano la loro scenografia di morte, tra scatole di conserva e fili presi dall’impianto di illuminazione, troneggiava il vessillo nero con le scritte in arabo della Cecenia libera. 

 

Alcuni astanti hanno ancora impresso nella memoria la quindicenne che tra i ribelli, completamente coperta dal burqa, si comportava in modo sereno, come se si trattasse di una normale situazione della vita quotidiana. La ragazza era l’unica a parlare con gli ostaggi, raccontando di aver perso suo padre e suo fratello per mano dei soldati in russi in Cecenia, mentre a Mosca la gente si divertiva andando al cinema o a teatro. 

 

Nel silenzio, l’immagine della sala minata con bombe rudimentali, bombole a gas, mentre un giovane terrorista, appena diciottenne, si trastullava, come niente fosse, con i cellulari degli ostaggi, impilati sul fondo della sala, ormai muti, dopo aver squillato incessantemente il primo giorno della presa in ostaggio. A lui piaceva, di tanto in tanto, rispondere a quelle disperate chiamate, parlare con le famiglie degli ostaggi, sempre in tono arrogante. Gli piaceva fare domande agli ostaggi terrorizzati sui modelli dei cellulari e giocare ai videogame che vi erano installati. Aveva distribuito ai suoi compagni alcuni cellulari e si divertivano a chiamarsi tra di loro. 

 

Il ragazzo era anche uno degli addetti al controllo dei bagni, ad accompagnare gli ostaggi dalla sala ai bagni. Due donne riuscirono a fuggire dai bagni, così le donne furono costrette a utilizzare la fossa dell’orchestra come bagno. Nonostante le minacce di uccidere dieci ostaggi per ogni fuggitivo, i militanti non fecero nulla dopo la fuga delle due donne. A un tratto il silenzio si era fatto profondo, tanto da diffondere un senso di tranquillità tra gli ostaggi, che riuscirono ad addormentarsi, una calma interrotta dal rumore di una bottiglia fracassata. Poi il tentativo di uomo di colpire una shaidka con un frammento della bottigiia di vetro che aveva rotto, la reazione di lei e le grida di dolore della ragazza colpita al posto dell’uomo, ferita gravemente al ventre. Infine la scarica di mitragliatrice sull’uomo da parte di un altro militante. 

 

Nella penombra dell’enorme sala semivuota, accanto ai pochi convenuti, sono posizionati sulle poltrone solo dei manichini gonfiabili, di colore bianco a rappresentare le vittime, nero i terroristi e blu le persone che non sono potute intervenire alla commemorazione. L’asfissiante atmosfera sembra una messa in scena teatrale, dove il rumore incessante di un porta vivande che è trasportato giù per la scala centrale sembra il rumore del passo marziale di militari che irrompono nella sala a sorpresa.

 

 

Nessun eroe, nessun supereroe, solo l’assedio e l’angoscia, la lunga agonia prima della fine allora, la frustrazione di non arrivare fino alla fine oggi, di non riuscire ancora dopo tanti anni a elaborare il lutto, il senso di colpa, mentre nel profondo dell’anima i sopravvissuti si trascinano i loro errori.

 

Una memoria collettiva nel film di Tverdovskij, un’espiazione che non arriva per delle vittime che a tratti si sentono carnefici. Qualcuno chiede delle due donne che sono riuscite a scappare dai bagni, con grande sorpresa dei presenti, una delle donne è lì. Nel tentativo di portare a termine la sua personale espiazione, una dolorosa confessione, Natasha fa bloccare le porte ai pochi rimasti con lei per arrivare fino in fondo, perché ogni volta che succede una disgrazia i Russi stanno in silenzio senza far niente, troppo spaventati per dire qualcosa, come morti, paralizzati dalle loro paure, per questo sono perseguitati dalle disgrazie, una dopo l’altra. Mentre il direttore e il vigilante cercano di entrare a forza per sgomberare la sala, ormai a notte fonda, Natasha racconta finalmente la sua dolorosa storia e il suo passato di madre di famiglia torna a galla a sconvolgere l’apparente impercettibile volto della pia donna.

 

Tra le vittime della sparatoria e del fentanyl anche trentatre ceceni, nell’ennesima azione punitiva nei confronti di un popolo ribelle che la Russia cerca di sottomettere dai tempi del condottiero Shaykh Mansur Ushurma nel Settecento.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]