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ARTE


N. 100 - Aprile 2016 (CXXXI)

LIQUIDE OMBRE
KENTRIDGE A ROMA

di Ettore Janulardo

 

“Non ho badato tanto alla logica quanto al senso, per questo la figura di Pasolini,

per esempio, si trova vicina quella mitica di Remo.

La cupola di san Pietro è vicina alla costruzione del ghetto e al rogo di Giordano Bruno.

Quello che volevo raccontare con quest’opera […] sono anche le contraddizioni della storia”.

(William Kentridge)

 

Prima delle realizzazioni e delle riflessioni di Michelangelo, già Leon Battista Alberti nel De Statua si sofferma sulla definizione dell’arte plastica tridimensionale. L’opera scultorea può eseguirsi per via di porre – allorché i “modellatori” utilizzano materiali agevolmente malleabili, come terra o cera – o per via di levare, quando gli scultori si cimentano con i marmi.

 

 

Triumphs and Laments, la creazione artistica di William Kentridge ufficialmente inaugurata a Roma il 21 aprile 2016 lungo i muraglioni del Tevere tra Ponte Mazzini e Ponte Sisto, può essere letta attraverso vari riferimenti. Realizzata attraverso la rimozione-ripulitura selettiva del portato ambientale e umano depositatosi sull’argine fluviale, è operazione concettualmente, prima ancora che fisicamente, site-specific, all’incrocio di tracce e stili.

 

La dicotomia albertiana appare una delle possibili griglie interpretative, purché se ne evidenzi ora il superamento dialettico: levare, qui, non comporta il far emergere forme dal marmo ma il definirne contorni emersi da terre e stratificate patine inquinate.

 

 

Rispetto alla misura umanistica dell’Alberti, il gigantismo delle raffigurazioni di Kentridge – evocate dal muro anche per una decina di metri ciascuna – ha portato a commentare Triumphs and Laments in termini michelangioleschi: sorta di Cappella Sistina del Lungotevere, la realizzazione dell’artista sudafricano vivrebbe della bipolarità potenza/atto, proponendosi però una programmata e accelerata consunzione-dissoluzione. Il come per levar, donna, si pone / in pietra alpestra e dura / una viva figura, / che là più cresce u’ più la pietra scema (152) delle Rime di Michelangelo è affrontato da Kentridge diluendo quelle tensioni in una transeunte contemporaneità che sfida – facendo sfilare la storia – l’arredo urbano, ma che si apparenta a un’operazione land art capace di riattivare e ridisegnare gli interventi, anche a Roma, di Christo. Se questi nel 1974 evidenziava per accumulo protettivo Porta Pinciana, sottraendola agli sguardi consueti, in tempi di diversa considerazione per l’ambiente e di ripensamenti critici il procedere di Kentridge trasforma l’aggiunta in sottrazione, il bianco del rivestimento in ripulitura dell’umido nero.

 

In uno scorrere della raffigurazione che evidenzia il procedere trionfale e l’abbattersi sofferente degli sconfitti – tutti ri-creati sull’argine dopo un percorso creativo fatto di ricognizioni, schizzi, disegni a carboncino e sagome da giustapporre al muro –, il nero scalfito è traccia unificante di una lettura para-cinematografica che può essere michelangiolesca, barocca, sotto il segno di Scipione e dei segni impressi dalla non pacificata visione della storia di Mario Sironi.

 

A riscontro dei sironiani paesaggi urbani “all’antica” – scene capaci di assumere anche andamenti narrativi quando vengono introdotte figure di mendicanti, di donne e di bambini –, nell’opera di Kentridge si mostra un linguaggio contemporaneo e arcaizzante, costruzione segnica semplificata ove angosce e successi – gli unici presenti, questi ultimi, nelle scene trionfali della classicità solo parzialmente realizzate da Achille Funi per il Palazzo dei Congressi dell’EUR –, sono temperati da inquadrature che accomunano i sommersi e i salvati: dalla mitografia della Lupa capitolina alle morti di Pasolini e Aldo Moro, nonché dei migranti in mare.

 

Lungo il Tevere, come in passato, le combinazioni segniche si caricano di significati plurimi, evocati e invocati. Forma di neo-umanesimo urbano, la raffigurazione pubblica di oggi ripropone chiavi politiche della storia, riportando alla nostra attenzione – come afferma Mario Sironi nel suo Manifesto della pittura murale – che «La pittura murale è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull’immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura […]». Senza essere pittura, lo scenario artistico di Kentridge riarticola il principio della semplificazione formale delle avanguardie storiche in grafica ove la memoria archeologica della romanità si dispiega in “tratteggi” tra art brut e post-comics.

 

In un’ambientazione che scarnifica incisioni piranesiane, dialogando con drammatizzazioni della storia alla Goya, le liquide ombre di Kentridge, assenze che si fanno percepire, chiarori chiamati a disperdersi nei pressi dell’acqua, testimoniano di un passaggio che incide provvisoriamente ma durevolmente nello spazio urbano – L’opera durerà sette anni, le patine di sporco nel tempo diventeranno più sporche e il bianco si scurirà fino a trovare un equilibrio nelle stratificazioni, ma è così che deve evolvere senza essere toccata”, ha dichiarato l’artista – offrendo un contributo al rinnovamento delle tre arti, come spiega ancora Sironi in Pittura murale: “rinnovamento dell’architettura, alla quale la decoratività pittorica porterà un calore profondo, una vitalità affascinante e meravigliosa, rinnovamento della pittura e della scultura rinsanguate da nuovi principî costruttivi volti a rendere espressive e significative le grandi superfici murali, oggi tanto spesso deturpate da decoratori e mestieranti”.

 

Come nell’ambito delle Triennali di Arte decorative degli anni Trenta le opere pittoriche potevano essere destinate a non durare, in Triumphs and Laments si rinuncia ad aggiungere rovesciando a Roma ogni tentazione di segni urbani da writers, sia spontanei sia programmaticamente impegnati, consentendo alla città di connotare il suo lungofiume con l’aiuto dell’artista-demiurgo. Se Walter Benjamin evidenzia il tema del riflesso fluviale – Senna come specchio vivo di Parigi, che vi rovescia ogni giorno le immagini dei suoi solidi edifici e dei suoi sogni di nuvole”: il fiume accetta volentieri le offerte di questo sacrificio e, come segno del suo favore, le frantuma in mille pezzi –, Kentridge, evocatore di incantesimi dalla durata effimera, ove una tradizionale scansione dei tempi si accorda anche con la moda del transeunte, offre pudicamente al Tevere le proprie forme del sacrificio, immagini che si affacciano tra memoria e avvenire, limes tra solido e liquido, tra restare e scorrere.



 

 

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