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N. 102 - Giugno 2016 (CXXXIII)

karl kraus, a ottant'anni dalla morte
una penna al curaro

di Giuseppe Tramontana

 

A osservarlo in foto può incutere un po’ di timore e suscitare un po’ di tenerezza. Paura perché dietro quegli occhialetti rotondi, alla Cavour, saetta uno sguardo gelido, quasi malvagio; tenerezza perché sotto quella maschera si avverte un’espressione di fragilità, la classica insicurezza del primo della classe, costretto a dire sempre cose geniali, incommensurabili, inarrivabili, senza possibilità di sbagliare o, semplicemente, di essere normale. Eppure per quasi quarant’anni Karl Kraus dominò il mondo viennese, austriaco, mitteleuropeo. «Ancor oggi – scrisse quasi trent’anni fa Italo Alighiero Chiusano – la sua impronta luminosa ma sulfurea è visibilissima e stimola a continue rivisitazioni. Buona parte della storia e della cultura danubiana, senza il passaggio di Karl Kraus, avrebbe un ben diverso sapore. Cosa che non si può dire se non di pochi».

 

Era nato a Jičin, in Boemia, il 28 aprile 1874 da un ricco e facoltoso commerciante ebreo e dalla figlia di un medico. A tre anni Karl si trasferì con la famiglia a Vienna, che da allora divenne la sua città-mondo, ispirandogli un amore-odio che si scatenerà spesso in farsi al curaro come: «È un’ingiustizia parlare sempre male di Vienna per i suoi difetti: anche dei suoi pregi val la pena parlar male».

 

A scuola era un alunno modello, ma non si laureò mai. Il primo conflitto serio l’ebbe con l’insegnante di religione ebraica, molto ortodosso. E da qui maturerà un vivo antisionismo (con ricadute, a tratti, nell’antisemitismo) che nel 1911 lo porterà a convertirsi al cattolicesimo. Ma la sua adesione alla Chiesa di Roma durerà solo dodici anni: nel 1923 pubblicherà la notizia della sua abiura! Non perché fosse diventato ateo, ma per voler cercare il divino a modo suo, fuori da ogni dogma e chiesa.

 

Amico, da giovane, di Hugo von Hofmannsthal, suo coetaneo, frequentò con lui il caffè Griensteidl, ove, sotto l’egida dello scrittor e saggista Hermann Bahr, si riuniva il cenacolo chiamato Jung-Wien, la giovane Vienna, che comprendeva gente del calibro di Arthur Schnitzler, lo stesso Hofmannsthal, Beer-Hofmann, Salten e altri. Molto diversi tra loro, costoro avevano tuttavia in comune il rifiuto per ogni forma di naturalismo, allora in auge. Ma Kraus ne prese ben presto le distanze e, un giorno, le sue frecce avvelenate colpiranno anche i vari Schnitzler, e Hofmannsthal: «Miracoli della natura! I fiori artificiali del signor Hugo von Hofmannsthal che intorno al 1895 erano bagnati di rugiada, ora sono appassiti».

 

Kraus, quindi, dopo quelle frequentazioni giovanili scelse una strada lontana dalla estetizzazione letteraria. Provò anche a fare l’attore, sentendo – non a torto – in sé un forte impulso a recitare. Ma nel 1893, nei masnadieri di Schiller, fa fiasco. Non ritenterà più, anche se quell’esperienza non sarà del tutto inutile, visto il modo in cui deciderà di far conoscere – recitando – il suo capolavoro letterario, Gli ultimi giorni dell’umanità. Tuttavia, già il fallimento non dovette essere particolarmente traumatico, considerato che, già da un annetto, aveva trovato la giusta alternativa. Infatti, il 21 ottobre 1892 Kraus aveva tenuto una lettura pubblica di testi letterari, ottenendo un grande successo. Ecco, allora, una delle strade che si aprivano davanti. E che non esiterà a battere. Dall’alto del podio, come attore unico, metterà tutte le risorse di una voce coltivata, di una mimica ricca ed espressiva, di un magnetismo e di una capacità di immedesimazione straordinari al servizio della mediazione o ricreazione letteraria, poetica intellettuale, che farà di ognuna di quelle serate (tra Berlino e Vienna ne terrà varie centinaia) un avvenimento non solo culturale, ma anche mondano e spettacolare di eccezionale valore. Una di queste serate la racconta Elias Canetti ne Il frutto del fuoco.

 

Canetti, spinto calorosamente dagli Asriel, famiglia amica della buona e colta borghesia viennese, si reca ad assistere a una lettura pubblica di Kraus. Gli Asriel hanno cercato di prepararlo, mettendogli persino tra le mani una copia di “Die Fäckel”, la rivista diretta e scritta in toto da Kraus, che tuttavia egli, sulle prime, non apprezza.

 

Era il 12 aprile 1924 e «doveva aver luogo – scrive Canetti – la trecentesima lettura di Karl Kraus. Era stata prenotata la sala grande del Konzerthaus. E neppure quella, dicevano, sarebbe stata abbastanza grande per contenere tutti gli appassionati».

 

Canetti, un po’ scettico, si era preparato persino delle osservazioni ironiche, così racconta. Si guardava in giro incuriosito, rivolgendo la propria attenzione soprattutto alle prime file, là dove trovava posto una folta schiera di donne dell’alta e altissima società viennese. «Quasi subito arrivò Karl Kraus – nota lo scrittore – che fu salutato da applausi così scroscianti come mai li avevo sentiti, neppure ai concerti. Sembrò – il mio occhio non era ancora esercitato – non prestarvi molta attenzione, indugiò solo un poco, in piedi, la sua figura sembrava lievemente curva. Quando si sedette e cominciò a parlare fui sorpreso dalla sua voce, nella quale vibrava qualcosa di innaturale, una specie di prolungato gracidio. Ma quell’impressione si dileguò in fretta, la voce mutò all’improvviso e seguitò a mutare in continuazione, e quasi subito rimasi sbalordito dalla ricchezza e dalla varietà dei suoi toni (...) Il silenzio – racconta ancora Canetti – era assoluto, ma era un silenzio starno, come quello che precede una tempesta. Già la prima battuta, in realtà era soltanto un’allusione, – rammenta ancora - venne anticipata da risate che mi spaventarono. Suonavano entusiastiche e fanatiche, soddisfatte e minacciose a un tempo, avevano addirittura preceduto le parole alle quali si riferivano (...) Non erano ascoltatori isolati a ridere, ridevano molte persone insieme».

 

A dire il vero, Canetti non ricorda cosa avesse detto quella sera Kraus. Tra l’altro, Kraus, lui lo vedeva male, «un volto che ringiovaniva verso il baso, così mobile che non si poteva fissare su nulla, penetrante ed estraneo come quello di un animale mai visto, diverso da tutti quelli che si conoscevano». Eppure ci ha lasciato una vividissima descrizione del pubblico e delle modalità di proporsi sul palco dello scrittore viennese: «la dinamica di quella sala – annota - gremita fino all’ultimo posto sotto l’effetto della voce di Kraus – era sempre presente anche quando taceva – davvero non si può descrivere, così come non si può descrivere l’Esercito degli spettri delle fiabe. Ma credo che sia questa l’immagine che meglio la può rendere. Ci si immagini l’Esercito degli spettri che prende posto in una sala, rinchiuso da colui che l’ha evocato e guidato, costretto a sedere in silenzio e poi incessantemente richiamato alla sua vera, selvaggia natura. Non che questa visione si avvicini molto alla realtà – puntualizza Canetti – tuttavia, poiché non ne conosco nessuna che sia più precisa, rinuncio a dare un’idea di com’era Karl Kraus in azione».

 

Oltre alle letture della sua opera principale, Kraus, tra il 1892 e il 1936, partecipò a numerose conferenze pubbliche seguite da un grande pubblico. In questo stesso periodo mise in scena circa 700 esibizioni durante le quali lesse drammi di Bertolt Brecht, Gerhart Hauptmann, Johann Nestroy, Goethe e Shakespeare, e interpretò anche le operette di Offenbach, accompagnato dal piano, cantando e calandosi da solo in tutti i ruoli.

 

Dopo la morte della madre, nel 1897, Karl Kraus venne colpito da una crisi depressiva. Assillato dall’idea della morte, cercò di gettarsi a capofitto in un’attività che lo assorbisse del tutto. Intraprese la strada del giornalismo, dato che sapeva scrivere meravigliosamente bene e con rapidità, aveva un occhio critico che rasentava la malignità, curioso come un gatto e polemista nato. Accettò, pertanto, di lavorare come redattore del settimanale “Die Wage” (1898) e lo fece con tale bravura che l’anno successivo il maggior quotidiano viennese, la “Neue Freie Presse”, gli offrì un posto di redattore. Ma Kraus non accettò. Anzi, altamente consapevole del proprio talento («Quando prendo una penna in mano non mi può succedere nulla. Il destino dovrebbe prendere nota», si trovò a scrivere) si lanciò in un’impresa apparentemente senza senso e senza futuro: pubblicare una rivista tutta sua. E quando si dice “tutta” vuol dire “tutta”: una rivista nella quale lui sarebbe stato il deus ex machina assoluto: direttore, impaginatore, redattore... il solo padrone di sé stesso, insomma. Il 1° aprile del 1899 uscì il primo numero della rivista: si chiamava “Die Fäckel” (La Fiaccola).

 

Il fascicolo, proprio come sognava Kraus, era redatto da lui, dalla prima all’ultima parola. Molto spesso, più che di un fascicolo si tratta di un volumetto, un libro. In futuro, “Die Fäckel” avrà molti collaboratori di vaglia, da August Strindberg a Frank Wedekind, da Detlev von Liliencron a Peter Altenberg, ma poi Kraus tornerà al suo primo intento: farsela da solo, quella rivista, cosa che avverrà nel 1911. E la rinnovata scelta Karl la motiverà con una delle sue famose rasoiate: «Non ho più collaboratori. Ero invidioso di loro. Mi facevano perdere dei lettori che volevo perdere io stesso». E così andrà avanti fino all’ultimo numero, quello del febbraio 1936.

 

Morirà il 12 giugno di quello stesso anno per un attacco cardiaco. Quella stramba iniziativa, avversata da molti, anche potenti, così originale e, sembrava, destinata al fallimento più completo, durò invece ben 37 anni. Insomma, un giornalista principe, un polemista di livello assoluto. Ma Kraus che accettò e teorizzò i concetti di polemica, di denuncia, di satira, farebbe un bel salto mortale nella tomba se si sentisse definire giornalista. Perché? «Perché – spiega Chiusano – del giornalismo, della stampa quotidiana o periodica, aveva orrore, e le imputava la degenerazione suicida ch’egli ravvisava nella civiltà moderna. La stampa, per Kraus, è un mostro apocalittico, la “magia nera” che provocherà la “fine del mondo”»: «ciò che la lue ha risparmiato – scrive in effetti Kraus – viene devastato dalla stampa». E ancora: «Non avere un pensiero e saperlo esprimere, è questo che fa di uno un giornalista». Oppure: «Il giornale sopprime costantemente la verità, in quanto le dà delle parole». Più chiaro di così?

 

Molto sensibile al valore della parola e alle sue potenzialità ovviamente non gli sfuggiva la responsabilità che ricadeva sui mezzi di comunicazione – la stampa, a quel tempo – nell’imposizione di verità false, menzognere, nella banalizzazione di fatti, eventi, nella volgarizzazione del mondo e degli accadimenti: il tutto per favorire pigrizia mentale e, di conseguenza, apatia ed accettazione supina e acritica delle scelte del potere.

 

Nelle pagine della “Fäckel”, nei suoi aguzzi aforismi e naturalmente ingiusti ( «L’aforisma non coincide mai con la verità: o è una mezza verità o è una verità e mezzo»), che raccolse via via in volumi (Detti e contraddetti, 1909; Pro domo et mundo, 1912; Di notte, 1918), Kraus non si stancò mai di accusare questo tipo di giornalismo, facendone risalire la responsabilità ad Heinrich Heine, maestro dell’elzeviro pungente, della nota politica acuta, della requisitori culturale illuminante, ma spesso fazioso e scorretto. I giornali contemporanei sarebbero i suoi epigoni, i suoi posteri, anzi le sue conseguenze (Heine und die Folgen, 1910).

 

Tuttavia anche il geniale e originale Kraus aveva avuto un mastro, a dimostrazione del vecchio brocardo che vuole che nulla nasca dal nulla, nemmeno il genio. Il suo amico e maestro di giornalismo era stato il battagliero Maximilian Harden (1861-1927). Alla rivista di Harden, “Die Zukunft” (L’avvenire), Kraus si era ispirato per la sua Fiaccola. La rottura con Harden, tuttavia, si consumò nel 1909, quando, in seguito allo scandalo sulla presunta omosessualità del principe Eulenburg, Harden assunse un tono moralistico alquanto stucchevole, almeno agli occhi di Kraus. Il quale se ne indignò e ruppe clamorosamente con il suo mentore, che da quel momento tratterà con assoluto disprezzo. È un atteggiamento che Kraus, tra l’altro, non terrà solo verso Harden, ma verso tutti i falsi, ipocriti e moralisti ed è proprio questa sua allergia verso tali atteggiamenti che lo poterà alla rottura con la Chiesa cattolica.

 

Come testimonia il suo libro Morale e criminalità (1908), Kraus aveva in orrore il moralismo sessuale della borghesia asburgica, così pronta a peccare in segreto, ma ancor più pronta a scandalizzarsi in pubblico. Secondo lo scrittore, il comportamento sessuale restava cosa privatissima, che nessun giudice o poliziotto poteva e doveva permettersi di sorvegliare o scrutare dal buco della serratura per poi chiedere una condanna in sede penale. Fu in virtù di moralismo libertario che egli avversò anche il matrimonio borghese («La camera matrimoniale è la convivenza di brutalità e di martirio») e la conseguente famiglia («Il genio ha il difetto di venire da una famiglia, e può compensarlo soltanto se non ne lascia nessuna»).

 

A questo punto, viste le sue posizione in tema di sesso e sessualità più o meno frustrata, sarebbe naturale pensare ad un suo interesse per la psicanalisi. Ma così non fu. Anzi. Le sue frecciate contro la nuova scienza dell’inconscio furono sempre maligne e lo stesso Freud non ne fu esente. Del resto furono molti a non piacergli o a piacergli solo per breve tempo. A giro, il suo disprezzo, oltre che i citati Harden e Hofmannsthal, colpirà la poetessa Else Lasker-Schuler e suo marito Hertwarth Walden. Per un po’, a Berlino, saranno i suoi migliori amici e la loro rivista, “Der Sturm”, quasi l’alter ego della Fiaccola. Poi Kraus romperà con loro. Per sempre. Stessa storia con lo scrittore Franz Werfen. Passerà anche nei suoi confronti dalla stima più accesa all’odio più viscerale e riuscirà persino a rompere con il proprio editore reo di aver pubblicato un dramma, da lui giudicato orribile, dello stesso Werfen. E quanti processi nel corso degli anni...

 

Venne denunciato e trascinato in tribunale da Hermann Bahr, stanco degli attacchi al suo cenacolo letterario. Kraus ne uscirà sconfitto. Vincerà invece la causa contro un altro mordacissimo critico, Alfred Kerr. Poi Kraus prese di mira un giornalista molto influente e corrotto, Bekessy e tanto lo bersagliò sulle sue scorrettezze e malefatte che Bekessy, nel 1926, fu costretto a fuggire a Parigi. Ma non furono solo costoro le vittime dei suoi strali. Innumerevoli furono gli artisti, scrittori, giornalisti, pittori, attori stroncati dalle sue arguzie, dalla sua penna intinta nel veleno. Si va dal regista Max Reinhardt all’attore Moissi, dal musicista Richard Strauss al poeta Stefan George, dal teatrante politico Erwin Piscator allo scrittore Max Brod. Furono tra i suoi preferiti e li esaltò nei suoi saggi o ne lesse le opere nelle sue pubbliche esibizioni, il commediografo Frank Wedekind e il drammaturgo Gerhart Hauptmann, il poeta Georg Trakl e il pittore Oskar Kokoschka, l’autore di schizzi letterari Peter Altenberg e l’ancor poco conosciuti Bertolt Brecht.

 

In campo politico, Kraus diede segni inquietanti quando si schierò dalla parte degli antidreyfusardi durante la revisione del processo di revisione a carico di Alfred Dreyfus, il capitano d’artiglieria francese, condannato ingiustamente per spionaggio a causa delle sue origine ebraiche. Poi, per qualche anno, fu vicino al socialismo. Ma, dopo un po’, optò per la nobiltà e il clero, da quel conservatore che in fondo era: temeva che il parlamentarismo portasse l’Austria e l’Europa alla distruzione ( «Il parlamentarismo è l’incasermamento della prostituzione politica»). Eppure, il 1914 trovò in lui uno dei più lucidi interpreti di ciò che la guerra avrebbe provocato nel mondo ( «Io piango per i sopravvissuti»). Alla guerra dedicò la sua opera più importante, geniale e unica, quasi mostruoso nella sua stranezza e diversità: Gli ultimi giorni dell’umanità (1922). Si tratta di un dramma colossale in cinque atti e 209 scene, più un prologo in dieci scene e un epilogo, per un totale di più di 800 pagine. Un’opera teatrale negazione del teatro. Specchio della personalità del suo autore, un uomo che amò contraddire e contraddirsi. «Un panorama cosmico della guerra – secondo la definizione di Italo Alighiero Chiusano – che l’autore si augurava di vedere rappresentato su un teatro di Marte». Sul palcoscenico passano centinaia di figure e figurette, dal venditore di giornali all’imperatore Francesco Giuseppe, che parlano, parlano, si confrontano, sproloquiano (in particolare, i generali) e, attraverso di loro, si rivela la guerra, il marcio che c’è in essa e nell’umanità intera. E poi vi sono le citazioni testuali, anzi il montaggio delle citazioni: un modo nuovo di fare teatro e letteratura, «se parole come “teatro” e “letteratura”, di fronte a un testo così, avessero ancora un senso» (I.A. Chiusano).

 

Terminato il conflitto, Kraus si schierò con la socialdemocrazia e tenne persino delle letture nei circoli operai. E quando, nel 1927, il capo della polizia Schober provocò una strage facendo sparare su un gruppo di dimostranti che avevano appiccato il fuoco al palazzo di giustizia, Kraus fece affiggere per le strade un violentissimo manifesto contro di lui.

 

Pochi anni dopo, in Germania, prese il potere Adolf Hitler. Kraus, che per ogni giornalista banale, per ogni politicante sciocco o corrotto aveva trovato parole di fuoco e di sdegno, nel caso di Hitler se ne uscì con la famosa battuta: «Hitler non mi ispira neanche una parola». Troppo famosa per essere solo una boutade. In realtà, grazie al suo straordinario fiuto giornalistico e alla non inferiore capacità rabdomantica di decifrare messaggi e scavare nella lingua, egli comprese tutto, comprese il pericolo che si annidava nel nazismo, in quei vampiri in camici bruna. E ne uscì un libello che però verrà pubblicato postumo: La terza notte di Valpurga. Tuttavia è nell’ultraconservatore Engelbert Dollfuss che ripose la sua fiducia, vedendo in lui l’unico, in Austria, capace di fermare le orde naziste. Ma Dollfuss, il 25 luglio 1934, morì per mano nazista nel tentativo di difendere il suo governo da un colpo di stato, orchestrato appunto dalle camicie brune. Due anni dopo, il 12 giugno 1936, un mortale attacco cardiaco gli evitò di vedere le detestate divise naziste calpestare il suolo austriaco.

 

Per ciò che concerne il Kraus intimo, ebbe un amore travolgente per una giovane attrice, Annie Kalmar, che però morì nel 1901 di tubercolosi. Kraus ne difese sempre strenuamente la memoria dalle insinuazioni moralistiche degli odiati giornali. Un altro grande amore fu quello per Sidonie Nadherny von Borutin, una gentildonna conosciuta nel 1914, Trascorse nella tenuta di lei in Boemia alcune delle settimane più serene della sua vita. Fu anche sul punto di sposarla, ma un intervento del poeta Rainer Maria Rilke mandò all’aria il tutto: era il 1918. Negli ultimi giorni di vita gli diede assistenza Helene Kann che lo aveva conosciuto e gli era stata amica fin dal 1904. Caso più unico che raro: di conservare le amicizie a Kraus non era importato mai nulla. Così come di riuscire simpatico. Era libero. Anche dai vincoli dell’amicizia.

 

Oggi, Kraus viene letto poco. Complice anche uno stile difficile – volutamente difficile (rivolto al critico e commediografo Hermann Bahr, bersaglio deli suoi attacchi, ebbe a scrivere: «se capisce una sola frase dell’articolo, ritratterò tutto»). Eppure proprio oggi Karl Kraus, la sua ironia tagliente, la sua lungimiranza sociale e politica, il suo anticonformismo e la sua lucida spregiudicatezza sarebbero molto utili. «Kraus – come scrive Jonathan Franzen – era un fustigatore del giornalismo usa e getta, tenace paladino della compenetrazione di forma e contenuto, e per i suoi seguaci il suo stile denso e intrinsecamente cifrato costituiva una gradita barriera d’accesso».

 

Nel momento storico attuale, saturo di mass media, maniaco della tecnologia e ossessionato dalla forma, dall’apparire, la pena di Kraus, quella penna intinta nel veleno, avrebbe più cose da dirci di molti suoi e nostri contemporanei. Lui stesso era ben consapevole del paradosso: era un profeta lungimirante che scriveva di ciò che gli si presentava sotto agli occhi. Parlava a noi: ma noi, per riuscire a sentirlo, dobbiamo riprenderlo in mano e fare un piccolo sforzo di comprensione e condivisione.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Canetti E., Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931), Adelphi, 1994.

Cau M., Politica e diritto. Karl Kraus e la crisi della civiltà, Il Mulino, 2008.

Chiusano I.A., Io scrivo con il veleno, in “Storia Illustrata “, nr. 6, anno 1986.

Fantappié I., Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre, Quodlibert, 2012.

Franzen J., Il progetto Kraus, Einaudi, 2014;

Freud S. – Graf M. – Kraus K., Otto giorni a Vienna. Psicanalisi, arte e letteratura, Robin, 2013.

Kraus K., Detti e contraddetti, Adelphi, 1992.

Kraus K., Elogio della vita a rovescio, Edizioni Studio Tesi, 1995.

Kraus K., Gli ultimi giorni dell’umanità, Adelphi, 1996.

Kraus K., Morale e criminalità, Es, 2005.

Kraus K., La muraglia cinese, Archinto, 2008.

Kraus K., Essere uomini è uno sbaglio, Einaudi, 2012.

Kraus K., Non c’è niente da ridere. A proposito di giornalisti, esteti, politici, psicologi, stupidi e studiosi, Piano B, 2012.

Kraus K., Con le donne monologo spesso, Elliot, 2015.

Kraus K., La terza notte di Valpurga, Edizioni Clichy, 2016.

Timms E., La Vienna di Karl Kraus, Il Mulino, 1989.



 

 

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