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N. 138 - Giugno 2019 (CLXIX)

JOHN KEATS, tra Bellezza e Verità

"Beauty is Truth, Truth is Beauty"

di Giovanna D'Arbitrio

 

Nel 1917 il grande poeta inglese John Keats fece un’esperienza che lo segnò notevolmente. Visitando il British Museum, vide gli Elgin Marbles del Partenone lì esposti e rimase abbagliato dalla perfezione e dall’armonia raggiunta dall’arte nella Grecia Antica. Sempre pronto a cogliere la bellezza delle cose e gli aspetti più intimi della sensibilità romantica, “nulla gli sfuggiva. Il ronzio di un’ape, vista d’un fiore, lo splendore del sole sembravano far vacillare la sua stessa vita: l’occhio gli si accendeva, gli si colorivano le guance, le labbra gli tremavano”, così asserì Ernest de Sélincourt.

 

Secondo questo giovane e sfortunato poeta, la sola certezza lasciata all’uomo sulla terra è la contemplazione della Bellezza, Bellezza che è anche Verità, come afferma negli ultimi due versi dell’Ode on a Grecian Urn: Beauty is Truth, Truth is Beauty, that is all ye know on earth, and all ye need to know.

 

L’amore per la bellezza che si intreccia con la sensibilità romantica e con l’acuta percezione della precarietà dell’esistenza umana si traduce in Keats in ammirazione per l’arte dell’antica Grecia, da lui più volte ammirata durante le frequenti visite al British Museum. E forse furono proprio i marmi del Partenone là esposti a ispirare l’Ode su un’urna greca, pubblicata nel 1819.

 

Stranamente essa non contiene i temi romantici tipici, come l’amore per la natura, il fascino del magico o del soprannaturale o il racconto di amori e avventure esotici: il tema dell’Ode è in effetti la ricerca dell’immortalità che per Keats si può trovare solo nell’arte che non è mutevole, come tutto ciò che è terreno.

 

L’arte tuttavia non ha un potere intrinseco: Keats descrive l’urna come “fredda”, mentre è l’immaginazione del poeta che le dà vita e fa rivivere i personaggi rappresentati su di essa. Secondo Keats, quindi, è solo attraverso l’immaginazione che possiamo raggiungere la bellezza e l’immortalità.

 

Non fu facile la breve vita di questo sensibile romantico inglese, nato a Londra nel 1795 da un’umile famiglia: suo padre era uno stalliere, sposò la figlia del padrone ed ebbe da lei cinque figli. John, il primogenito, fu mandato alla scuola del reverendo Clarke, a Enfield, nel 1803.

 

Dopo la morte dei genitori, il tutore, Richard Abbey, gli procurò un posto di apprendista presso un chirurgo: tra il 1811 e il 1815 Keats entrò al Guy’s Hospital di Londra dove, superando un esame nel 1817, diventò farmacista.

 

Era diventato, inoltre, un appassionato lettore di numerosi autori, soprattutto di Edmund Spenser e John Milton, e di un periodico politico-letterario, l’Examiner, diretto da Leigh Hunt.

 

Nel 1817, aiutato dal poeta Percy Bysshe Shelley e da Leigh Hunt, pubblicò il suo primo volume, Poems by J. Keats, in cui si dichiarò un seguace di William Wordsworth e della sua particolare visione della natura, ispiratrice di buoni sentimenti, capace di donare mistica e gioiosa armonia.

 

Si trasferì poi con i fratelli a Hampestead dove conobbe Fanny Browne, la donna che rappresentò il grande e tormentato amore della sua vita. Qui cominciò a scrivere Endymion, a Poetic Romance, pubblicato nel 1818, che fu il suo primo tentativo di interpretare in modo romantico gli antichi miti greci.

 

Pochi mesi dopo, tuttavia, la Quarterly Review, una delle più autorevoli riviste politico-letterarie dell’epoca, sferrò un feroce attacco contro la poesia di Keats. Già provato dalla morte del fratello Tom e dal suo amore per Fanny, il poeta risentì talmente di queste critiche ingiuste che la sua fibra delicata e predisposta alla tisi fu irrimediabilmente compromessa.

 

Il suo amico Shelley, infatti, scrisse: «Le selvagge critiche al suo Endymion produssero un violento effetto sulla sua mente sensibile; l’agitazione così causò la rottura di un vaso sanguigno nei polmoni».

 

Malgrado ciò, egli continuò a scrivere e compose le sue opere migliori, pubblicate nel 1820 nel suo terzo e ultimo volume con il titolo di Lamia, Isabella, The Eve Of St. Agnes And Other Poems che includeva anche il poema Hyperion, rimasto incompleto e in cui cercò di imitare John Milton, e soprattutto tutte le sue grandi e bellissime odi, To a Nightingale, To Autmn, To Melancholy, To Psyche.

 

Nel febbraio del 1820 la malattia si manifestò di nuovo violentemente e Keats decise di lasciare l’Inghilterra, alla ricerca di un clima migliore in Italia. A Roma il Keats abitò al n. 26 di piazza di Spagna, nel palazzo alla destra della scalinata di Trinità dei Monti, ora sede della Keats-Shelley Memorial House.

 

Malgrado le cure, Keats iniziò lentamente a spegnersi e il 23 febbraio 1821, a soli venticinque anni, morì. Venne sepolto tre giorni dopo nel cimitero acattolico di Roma, presso la piramide di Caio Cestio.

 

Sulla sua tomba Keats non volle scritte, né il nome, né la data di morte, ma semplicemente un breve epitaffio nel quale si legge: “This grave contains all that was mortal, of a YOUNG ENGLISH POET, who on his death bed, in the bitterness of his heart, at the malicious power of his enemies, desired these words to be engraven on his tombstone: Here lies one whose name was written in water” (“Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua”.

 

Anche se Keats era molto giovane quando morì, aveva raggiunto una grande raffinatezza e perfezione stilistica, nonché una ricchezza di contenuti, come si può constatare leggendo le sue splendide odi, nelle quali espresse il conflitto romantico tra reale e ideale, tra dolore e aspirazione alla felicità.

 

Egli considerò la poesia come una religione e infatti scrisse a Shelley: “La mia immaginazione è un monastero e io sono il suo monaco”.



 

 

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