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N. 24 - Maggio 2007

JIRI DIENSTBIER

Intervista a uno dei firmatari di Charta 77

di Leila Tavi

 

Jiři Dienstbier è nato il 2 aprile del 1937 a Kladno, nella Boemia centrale, in una famiglia di funzionari statali. Conclusi i suoi studi di filosofia nell’Università Karlova di Praga, iniziò a lavorare come giornalista alla radio nazionale cecoslovacca. Nel 1958 entrò nel Partito comunista cecoslovacco. Come corrispondente estero si occupò per un lungo periodo dell’estremo Oriente e fu, da subito, considerato dai suoi colleghi giornalisti un “indipendente”, perché inviava alla redazione di Praga anche interviste non autorizzate, contro ogni direttiva del partito.

 

Nel 1968 fu uno dei promotori della Primavera di Praga. Dopo l’invasione dei carri armati sovietici decise di uscire dal partito, per questo gli fu impedito di continuare a lavorare come giornalista. Si schierò con l’opposizione e, insieme ad altri dissidenti, firmò nel gennaio 1977 Charta 77, una petizione diretta a denunciare al paese e al mondo intero le violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime comunista cecoslovacco.

 

La petizione del 1977 diede vita anche a un movimento per i diritti civili, attivo dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta, considerato il cuore dell’opposizione civile al regime.

 

Tra i firmatari della petizione e maggiori esponenti del movimento ricordiamo, oltre agli ideatori e fondatori Václav Havel, Jiři Hájek, Zdeněk Mlynář e Pavel Kohout, i poeti Jiři Gruša e Jiři Kolář, gli scrittori Eva Kantůrková, Alexandr Kliment, Milan Uhde, Ludvík Vaculík e il pedagogo Jan Patočka.

 

Nel 1979 Dienstbier fu condannato a tre anni di prigione per il suo impegno politico; dopo la scarcerazione nel 1982 fu costretto a lavorare come fochista, ma non abbandonò mai l’impegno politico, continuando a scrivere per giornali clandestini d’opposizione.

 

Con la svolta del 1989 costituì insieme ad altri ex dissidenti un forum democratico; quando nel 1989 Václav Havel divenne Presidente della repubblica, Dienstbier fu nominato Ministro degli esteri, il primo della repubblica cecoslovacca dopo il crollo del regime socialista.

 

Il 23 dicembre 1989 Dienstbier passò la frontiera Waidhaus-Rozvadov con un tagliabulloni in mano insieme all’allora Ministro degli esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher per decretare inequivocabilmente la fine della cortina di ferro.

 

In occasione del convegno organizzato dalla Cattedra di Storia dell’Europa centrale della Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi “Roma Tre” e dalla John Cabot University il mese scorso abbiamo avuto modo di intervistare l’ex Ministro degli esteri cecoslovacco.

 

Signor Ministro Lei ha dichiarato in più occasioni che la gente ha firmato Charta 77 solo per uno scrupolo morale, ma che la maggior parte dei Cecoslovacchi non vedeva una vera possibilità di miglioramento. Allora perché secondo Lei la gente ha rischiato così tanto? A Vienna ho conosciuto una cameriera in un ristorante ceco del 2. distretto che è stata costretta a lasciare il paese per aver firmato. Quale era la forza di Charta 77?

 

Il moralismo, è molto semplice! Erano convinti in quel momento di fare la cosa giusta. Si doveva dimostrare che la normalizzazione dopo l’occupazione sovietica non piaceva a nessuno. Tutti hanno avuto un grande senso di responsabilità a quel tempo. Però chi è emigrato ha voluto farlo e non è stato costretto.

 

Lei ha scritto un libro intitolato Dreaming of Europe ed è considerato uno dei padri in Europa centro-orientale dell’integrazione europea. Quale è l’immagine che Lei ha dell’Europa adesso?

 

Sicuramente positiva. Dipende da noi come andrà; noi siamo Bruxelles, noi tutti siamo responsabili del destino dell’Unione europea. Dobbiamo fare accordi, dobbiamo essere attivi. Certo, ci sono molti problemi ancora da risolvere, come la Costituzione. Vede, però, come funziona bene il programma Erasmus? Si tratta di qualcosa di concreto: 100.000 studenti e docenti usufruiscono della possibilità di studiare e insegnare in un’altra università europea. Questi studenti sono la nuova generazione dell’Europa. Il programma Erasmus è un supporto concreto per i giovani, per i loro studi e per le loro prospettive.

 

L’invasione sovietica, l’oppressione politica arrivarono in un periodo di benessere e boom economico. Quanto profonda è stata per la società civile quella ferita? Come ha cambiato lo spirito dei Cecoslovacchi?

 

Lo stile di vita è stato imposto, c’è stata un forte depressione, nel 1968, così come nel 1948. 200.000 persone sono emigrate. C’era un grande senso di fratellanza e allo stesso tempo un senso di impotenza. Le reazioni sono state diverse: alcuni hanno in seguito firmato Charta 77, mentre altri si sono rifiutati; altri, come abbiamo detto, sono emigrati; molti si sono rifugiati nella sfera privata e lì, solo lì, sono stati attivi: hanno costruito case, scritto, composto musica. All’esterno il socialismo reale doveva essere supportato, non c’era alternativa. Molti hanno capitolato e hanno dimenticato le ideologie per poter vivere in pace. Nulla ti era fatto se non criticavi apertamente il regime. Professori universitari, direttori di fabbrica hanno supportato l’occupazione sovietica.

 

Sono recentemente stata a Bratislava e ho chiesto a conoscenti e amici se ci sarebbero state celebrazioni in occasione dei 30 anni dalla firma di Charta 77 e nessuno ricordava la ricorrenza. Non pensa che i giovani potrebbero presto dimenticare la lotta e il sacrificio Suoi e degli altri firmatari?

 

I giovani devono guardare al futuro, no alle deformazioni della storia. Per loro il 68 o Charta 77 sono troppo lontani. Ci sono state persone che hanno scoperto che bisognava combattere contro il Comunismo solo nel gennaio 1990 e solo perché avrebbe danneggiato la loro carriera. Vecchie strutture, nuove strutture. Per gli Slovacchi poi è stato diverso: l’opposizione politica aperta al regime è stata manifestata in modo minore e le persecuzioni contro i dissidenti non sono state così tremende come nella parte ceca.

 

La fine del sistema di Yalta e del bipolarismo, la caduta del muro di Berlino hanno iniziato una nuova era. Non crede però che i muri da abbattere oggi nonostante siano invisibili siano ancora più alti e più pericolosi del muro di Berlino?

 

I problemi ereditati dal passato non si possono risolvere con l’invasione dell’Iraq. Vanno rimosse le cause che creano questi “muri invisibili”. Sarebbe meno dispendioso e ragionevole investire in istruzione e sviluppo che in radar e missili. Dovremmo fare di più per la prevenzione delle guerre. E’ difficile, ma dobbiamo decidere di mostrare la nostra disapprovazione ai paesi che utilizzano lo strumento della guerra.

 

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